Dall’infanzia povera alla ricchezza accumulata negli anni. Dagli inizi all’Eco di Bergamo all’approdo decisivo al Corriere della Sera. Il direttore editoriale di Libero si racconta a Panorama, tra vita, passioni e mestiere. «Ho cambiato tante case, perso molti ricordi. Persino la mia tesi di laurea, ma il mio diploma da vetrinista ce l’ho sempre lì e ne sono orgoglioso. Così ho imparato a immaginare le mie prime pagine».
Direttore, come ti senti in queste ore?
(Ride). Sono ancora vivo, tiè. Mi pare già abbastanza.
Intanto tutti parlano di Feltri. Sei uno dei pochi giornalisti che fanno notizia.
E sai che non capisco perché? Io non faccio nulla perché questo accada.
Ovvio. C’e un nuovo direttore a Libero, Alessandro Sallusti. E tutti pensano a cosa farai tu.
Cioè si chiedono se mi faranno le scarpe? Eh eh eh. Poi ti dirò. Solo per chi arriva alla fine dell’intervista.
Mi fai già tu la scaletta? Sei il regista?
È il minimo. Se permetti ho un po’ di esperienza in materia.
La curiosità su di te c’è perché le successioni dei direttori, nei giornali di destra, sono più appassionanti delle ultime puntata del Trono di spade.
(Ride di gusto). Deve essere vero perché anche io voglio vedere cosa succede.
Hai fatto mille lavori nella vita… commesso, dipendente pubblico da ragazzo, giovane impiegato in un ente, ti occupavi persino del finanziamento dei brefotrofi.
Sai quando ho imparato a immaginare le mie prime pagine? Da vetrinista.
Scherzi.
No, sono serio. Hai spazio per raccontarlo?
Hai tutto Panorama a tua disposizione.
Ero commesso da Abitex, bel negozio, pieno centro di Bergamo. Guadagnavo una miseria, volevo fare il salto.
E cosa ti sei inventato?
Organizzavano un corso di un anno per insegnarti a fare le vetrine. Molti colleghi storcevano il naso: «Cosa ti dovranno mai insegnare?».
E tu?
A Bergamo c’erano forse due vetrinisti, sfottuti da tutti i pirla: però io vedevo che li chiamavano ovunque. Ho pensato: «Mi ci butto».
Feltri vetrinista! Magari avere una foto di te che addobbi sulla scaletta.
Non sfottere! Scoprii che il corso era utilissimo, e trovai ottimi maestri. Guarda che la vetrina è un’arte.
A te cosa piaceva?
La lezione più importante del mio maestro fu questa: «Non pensare a buttare dentro la merce, non pensare di dover esporre tutto». Ed eravamo negli anni Cinquanta!
Non dovevi mettere troppi capi?
(Si illumina). Questo insegnante, che considero un genio, mi disse: «Feltri, io le sto spiegando la magia più bella e rara».
Quale?
(Si solleva sulla poltrona, disegna un profilo nell’aria). «Il vero segreto per attirare l’interesse del passante!».
Spieghiamolo.
Seguirono lezioni preziose sull’abbinamento dei colori. Sulla gerarchia degli oggetti da mostrare e illuminare con la luce. Sull’importanza dei fondali, che devono essere anche quelli arredati.
E tu dici che ti è servito, o è una bella suggestione?
Ma è ovvio che la prima pagina è la vetrina più bella! Il manichino in primo piano è il titolo che spari in faccia al lettore-passante, l’editoriale deve essere il pezzo forte per fermarsi a guardare, il corsivo è un capo elegante che devi desiderare.
Ti prego, continua così.
Uhhf… Ma potrei parlartene per ore! I colori forti li metti in luce se crei un fondo che contrasta – pensa a foto e grafica – la geometria impone la gerarchia alle cose. E poi…
Cosa?
Bisogna avere sempre una preoccupazione per ciò che sta negli angoli, perché sono i confini sacri del campo visivo…
Fantastico.
Tutto questo vale per una vetrina, ma anche per la prima pagina di un quotidiano.
Prendiamo la «prima» di Libero di oggi?
Dopo ti dirò una cosa sul mio pezzo. Ma questo serve a spiegarti un dettaglio decisivo della mia gavetta: ho cambiato tante case, ho perso molti ricordi…
Tipo?
Pensa che non trovo più la mia tesi e giuro che non è un bluff, l’ho persa davvero. Ma il mio diploma di vetrinista ce l’ho sempre lì: e ne sono orgoglioso.
Dimmi un’altra perla.
L’ultimo insegnamento del direttore-vetrinista? Serve sempre un po’ di follia.
Tipo?
Il capo che incuriosisce e cattura l’attenzione.
A patto che tu lo abbia.
Non dire sciocchezze! C’è sempre. Ecco qui quello di oggi. A Torino sono fuggiti tre tori e non riescono a trovarli.
Lo sai dove la infila, un direttore. In una «breve».
Ed è un crimine. Imbecilli! Ma io conosco i lettori come le mie tasche.
E cosa sai?
Che la gente fa il tifo per i tori. Come per gli orsi. Come per tutti gli animali, quando giustamente mandano affanculo i loro padroni.
Morale della favola?
Tu pensi che stai leggendo un corsivetto, e invece ti senti bene perché nella vetrina di Feltri c’è sempre uno spazio illuminato per la libertà.
(Entra una segretaria: «Direttore, c’è la troupe di Dritto e rovescio…»). «Non ti muovere, li sistemo, torno, ti faccio divertire».
Nella sede di Libero, a Milano, Vittorio Feltri passa da una intervista all’altra come Kasparov, danzando tra le scacchiere. Si sente in battaglia, e quindi si diverte. Detta i tempi, crea aspettativa, passa da una telecamera a un taccuino. Con me parla di politica, di nonni, figli e nipoti, dei leader del centrodestra, Meloni contro Salvini, della Boldrini, intanto versa continuamente un liquido biancastro da una piccola bottiglietta che tiene in un cassetto. Io la guardo curioso, lui torna alla scrivania e mi cazzia subito con grande senso teatrale. Sospira. «Forza! Fammi una domanda sulla vera cattiveria che gira su di me».
Dicono che sei diventato un ubriacone.
(Salta sulla sedia). Ma Cristo, ti rendi conto?
Mica è un crimine, bere.
È una balla co-los-sa-le. Qualcuno lo dice perché è scemo, qualcuno per colpirmi.
Anche a me piace bere, un buon vino, un Amarone, un superalcolico…
Senti, ti dico una cosa solenne: io non sono stato ubriaco una sola volta in vita mia.
Maddai…
(Mi punta gli occhi). Mai!
E quando fai le tue intemerate in tv?
Santoddìo! Se ogni tanto mando affanculo qualcuno dovrei essere per forza ubriaco? Faccio me stesso. Un po’ di teatro!
Quindi non è vero che bevi dalla mattina?
Stiamo andando verso una società di puritani e idioti. Spesso entrambe le cose.
E cosa c’è in quella boccetta da cui versi nel bicchiere?
(Sguardo folgorante). Io bevo latte!
Latte?
Questo è Granarolo. Perché mi piace, mi fa bene, mi ristora. Se ne vuoi, faccio portare un bicchierino per te.
No, torniamo a quando eri candidato a presidente della Repubblica. Con Battistini sul Corriere hai fatto la battuta più bella: «Non si guadagna abbastanza».
Ah ah ah! Ho detto la verità.
Non mi dire che non ti sarebbe piaciuto.
Ti dico cosa mi piacque. Me lo proposero insieme, per una volta d’accordo, Salvini e la Meloni. La presidente della Camera era la Boldrini, con cui com’è noto…
Non vi amavate.
Uhhh… Sai cosa mi ha fatto godere? Il modo in cui lei, letteralmente schifata, prendeva queste schede con il mio nome e leggeva inorridita, con voce stridula: «Féeeltri…».
Fantastico!
(Ride fino alle gengive). Capisci? In quel momento avrei voluto 300 voti, e non 40. Per godermi 300 volte quello spettacolo, mica per essere eletto.
Scriviamo il tuo discorso presidenziale per il 2 giugno?
Ma sei matto? La Patria? La Nazione? La Bandiera? Verrebbe fuori una palla mortale, e i lettori direbbero: Feltri stavolta si è rincoglionito davvero.
Pensi che il centrodestra potrebbe vincere?
Manca ancora troppo tempo alle elezioni. Sono favoriti, il che è sempre una fregatura.
Raccontiamo l’analisi che faresti in riunione.
La flessione piuttosto pesante che ha avuto la Lega è il vero problema di Salvini.
I leghisti ti dicono che quei sondaggi si recuperano.
Insomma. Alle Europee erano al 34 per cento. Hanno perso più di 14 punti!
Pagano il prezzo del governo. Ma è una fase.
Guarda. In questo la mia fortuna è che assomiglio molto ai miei lettori.
Cioè?
Salvini mi aveva convinto molto quando era al Viminale, con la sua battaglia coraggiosa sui porti.
E ora?
Quando vedi che prima governa con i Cinque stelle, poi se ne va perché spiega che «dicono troppi no», e poi ci ritorna aggiungendo persino un altro nemico….
Ovvero il Pd. Ma è un governo istituzionale.
Non diciamo cazzate. Hanno creato una maggioranza farlocca, questo è il punto. Litigano dalla mattina alla sera. È un tipo di coalizione assurda, non è un governo!
Pare di sentir parlare la Meloni. Hai letto il suo libro?
Sì! È una bella storia, una biografia vera, ed è… appassionante.
Però cosa?
Lei è una brava violinista. Ma aspetto di vedere se sa suonare il pianoforte. Se sa dirigere…
Intendi dire se diventasse premier?
Sulla carta la possono attaccare dicendo che è troppo di destra, e che mai una donna ha fatto il premier.
Aspettiamo di vederla all’opera.
Intanto deve sorpassare Salvini.
Ma tu credi ai sondaggi?
Credo ai numeri. È così da quando da ragazzo facevo l’impiegato contabile al brefotrofio.
E cosa hai imparato dei numeri?
Che belli o brutti devono quadrare. Sono tanti 14 punti: fossi in Salvini mi preoccuperei. Però che barba questa politica, ti rendi conto?
Mica fai il nostalgico della Prima repubblica?
C’erano dinamiche che appassionavano la gente. C’erano grandi protagonisti: D’Alema, Berlusconi, Prodi…
Ma se Prodi lo chiamavi «mortadella»! Hai scritto articoli caustici su di lui.
Ovvio. Però c’era stoffa. Mica vorrai paragonarlo a Letta.
Dì la verità: ti fa incazzare perché sei ricco e la tassa di successione Feltri costerebbe un capitale.
Certo. Mica li ho rubati quei soldi! Ci ho già pagato tasse salatissime, non posso lasciarli ai miei figli?
Parliamo della tua ricchezza leggendaria: di che cifre parliamo?
Quanto ho sul conto non te lo dico, è poco elegante. Mentre in immobili credo di avere… ma’, più o meno… Insomma, tanti anni di lavoro… sono meno di quanto possa sembrare.
Sì, più o meno, ma quanto sono?
Guarda, non arrivo a dieci milioni di euro. Forse sono nove.
Diciamola tutta. Sei il direttore più pagato della storia d’Italia e questo ti fa godere.
Ma sarà vero, poi?
Dài, Vittorio: quando vai al Giornale Berlusconi ti dà un miliardo.
Be’, ma io già a Epoca prendevo 400 mila euro l’anno, se è per questo. Mica bruscolini!
E sei stato anche il primo a sfondare il muro del milione di euro. Quindi con 9 milioni di patrimonio non potresti pagarne 2 di successione?
Sei pazzo?
Non ti farebbe piacere sapere che vanno ai diciottenni?
(Ride). Ma col cazzo che mi farebbe piacere!
Pensa quanto sarebbe servito al giovane Feltri.
Ecco il punto del denaro, se non si gioca. Mio padre è morto di una insufficienza corticorenale che ero ragazzo. E nessuno mi ha aiutato a me, nessuno.
Non ne parli mai volentieri.
Certo che no. Io non ho avuto una lira: a 14 anni mia madre con uno stipendio faceva salti mortali per sfamare tre figli!
E non ti sarebbe servito un aiuto?
Me lo sono dato da solo. Ho dovuto studiare di sera grazie a un prete. Che mi parlava solo in due lingue.
L’italiano e….
Macché italiano! Bergamasco o latino. E il latino mi è servito più di tutto, per l’esame, che ho fatto da privatista. Ho dovuto mettere da parte i soldi per poter studiare lavorando, lira su lira!
Quanti?
Da vetrinista? Tre milioni di lire nel 1959. Un capitale.
Però hai mollato i negozi!
Io volevo fare il giornalista. Ed è stato sempre, il prete – Dio lo benedica – a telefonare a monsignor Spada, che dirigeva l’Eco di Bergamo. E a segnalargli il mio nome. Altro che la paghetta di Letta!
Poi alla Notte con il tuo primo vero maestro, Nino Nutrizio.
Uomo formalmente duro, in realtà molto generoso. Nella casella, quando scrivevi un bel pezzo ti faceva trovare una busta azzurra e un biglietto: «Per il vostro articolo la direzione vi riconosce 200 mila lire». Altro che dote ai diciottenni.
Però tu le buste azzurrine ai giornalisti non le hai mai date.
Ma oggi non lo puoi mica fare! Arriva il comitato di redazione e ti fucila.
Devi l’assunzione al Corriere a Montanelli?
Ah ah ah. Indirettamente. Usciva il Giornale e il Corriere era stato svuotato nda Indro. Così ricevo una telefonata da via Solferino: «Vuoi venire in cronaca?».
E tu?
Sarei corso sulle mani… Ma ti racconto due aneddoti strepitosi.
Vai col primo.
Gino Palumbo, il direttore, mi chiede: «Tratta lei per sé, o faccio io?». Gli dico: «Faccia lei!».
E quando hai scoperto il tuo stipendio?
Solo aprendo la prima busta dell’amministrazione. Ero nel mio Maggiolino, e alla Notte guadagnavo 400 mila lire. Apro, e sul foglio c’era scritto…
Non mi tenere sulle spine!
Un milione!
E tu?
Uno dei giorni più belli della mia vita. Cerco un gettone in tasca, corro alla cabina e chiamo mia moglie.
E lei?
Silenzio. Poi mi fa: «Non dirlo a nessuno, vieni a casa che leggo meglio io».
Ah ah ah. E Nutrizio?
Qui c’è il bello. Entro nel suo ufficio per dirglielo. Ne esco inseguito dagli insulti: «Traditore! Vergogna! Sei come gli altri! Proprio tu!».
Si può capire.
Sì, ma la verità era un’altra. Palumbo poi mi raccontò: «È stato Nutrizio a dire di prenderti, a casa dei Rizzoli».
Quindi il cazziatone era finto?
(Divertito). Una recita per la redazione. Capisci? Grande lezione da direttore.
Quindi anche i tuoi cazziatoni sono recite.
(Serissimo). No, quelli sono veri.
Nutrizio è sempre stato bollato come un giornalista «volgare» e «fascista».
Che idioti. Pensa che aveva imparato l’inglese in una campo di prigionia. Lì leggeva i tabloid degli ufficiali britannici. Fu quello il suo modello.
Quando è morto cos’hai fatto?
Cosa ha fatto lui! Mi arriva un pacchetto. Dentro, una penna. Biglietto della vedova: «Con questa scriveva i suoi “fondi”».
La tua prima moglie era morta, dando alla luce due gemelle.
(Sospiro). Morire di parto, nel 1965…
E tu?
Facevo l’impiegato, guadagnavo 120 mila lire l’anno. Ho avuto attimo di terrore: «Come farò?».
E poi?
La disperazione ti aiuta a superare il dolore. Dovevo farcela, non potevo farmi domande.
E poi?
Stavo per crollare. Ho preso le due bambine, per portarle in un ente. E chi ti incontro li?
Chi?
Enoe. La mia futura foglie: faceva la maestra. Questa è la vita vera.
Che ci fai con la paghetta di Letta?
Ma questa durezza è anche un peso.
Che dicono i tuoi amici?
Amici veri ne ho pochi.
E quando racconti ai tuoi nipoti?
Non sono il nonno che recita favole.
Quanti ne hai?
Mahhh…
Cioè?
Quattro o cinque.
Andiamo bene. E come padre?
Lo so. Non sono un buon nonno. Ma mi credo un ottimo padre.
Il tuo primo giornale, l’Indipendente. Lo dirigeva Ricky Franco Levi, con stile anglosassone. Ma non andava bene.
Ti credo. Sembrava una lapide mortuaria.
Sarà contento Levi.
Ti svelo un segreto: l’editore Zanussi mi dava 500 milioni di lire. Ma per prendermi mi aveva fatto una fideiussione.
Di quanto?
Se si chiudeva prendevo un miliardo.
Ed era importante?
Cazzo, è stato decisivo. Io demolivo quel giornale pensando: «Se strappandogli la pelle lo chiudo divento ricco. Se lo rianimo sono ricco lo stesso». Un miliardo, tutto insieme, lo volevo vedere.
Sei un demone.
Le vendite erano a livelli pre-agonici. Lo portai a 100 mila copie.
E c’erano segreti nel tuo contratto con Berlusconi?
Sì. Lui voleva cacciare Montanelli, aveva messo gli occhi su di me. Per invogliarmi mi disse: «Il Giornale perde 18 milioni di euro l’anno e così non vive. Ma io ti do anche il Tg5».
E tu?
Gli spiego: «Cavaliere la tv non è per me. Facciamo così: per ogni milione di euro recuperato mi paghi 100 mila euro in più».
E com’è andata?
Ho recuperato 14 milioni di deficit, aumentando il milione di ingaggio di 1,4 milioni.
I soldi non sono tutto, però aiutano. Oppure è vero che sei solo avido?
(Serio). I soldi sono una misura delle cose. Soprattutto in questo mestiere.
Ti fanno sentire sicuro perché da ragazzo ti sono mancati?
Macché! Fai psicanalisi? La fortuna voleva che in quell’Italia in cui sono cresciuto quasi tutti fossero poveri.
Ma non tutti erano orfani, però.
Pensa che a me la retorica dell’orfano mi disturbava. E dicevo: «Mi stanno sulle palle gli orfani».
Questo perché il cattivismo è parte del Feltri-style.
Da quando comanda il «politicamente corrotto», so che prima o poi finisco in carcere.
Politicamente corretto, vorrai dire.
No, corrotto. È in malafede.
Dove facevi le vacanze da bambino?
In Molise dalla zia. Mio zio amministrava un feudo dei Baranello.
Un bergamasco emigrato al Sud?
Ah ah ah… Forse l’unico.
E tu giochi a fare l’antimeridionale?
Non è vero che detesto il Sud. Un ragazzo con cui giocavo – oggi ha 80 anni – mi ha scritto tempo fa: «Si è rotta la campana del Paese».
Adesso mi dirai che ti sei commosso.
Macché commosso, non dire scemenze. Ma ho preso 15 mila euro e glieli ho mandati.
Cosa ci si fa con la ricchezza?
Gli altri non so. Io la uso.
Devi la tua fortuna al Giornale – nella seconda direzione – al caso Boffo. Ma qualche giorno fa hai sparato su Sallusti ricordandolo sul Corriere.
Be’, poteva evitare di fare tutto quel casino. Faceva il moralista. E io ho scritto: «Tu che hai avuto una condanna di quel tipo rompi le palle a Berlusconi?».
Fu un errore.
Era una notizia.
Vera ma su un documento falso.
Vidi delle carte. Sallusti me le spacciò per autentiche. E poi se la sono presa come me.
Eri il direttore.
Non mi metto a controllare le veline. C’è una redazione. C’erano i vice.
Tuo figlio Mattia, da direttore, per difendere te non ha pubblica un pezzo della Boldrini. Un gesto d’amore che ha pagato caro.
Ha sbagliato.
Come, come?
Io nei suoi panni avrei telefonato al padre, dicendo: «Vuoi risponderle?».
Lo hanno attaccato per un mese.
Quei coglioni del Fatto. Anzi, quel coglione di Luttazzi.
Hai criticato le ragazze che accusavano Alberto Genovese di stupro.
Nooo! Ho detto che sono state imprudenti.
Potevano essere le tue figlie.
Loro non sono cretine. Mai state a casa di sconosciuti. Mai in giro alle cinque del mattino.
Hai difeso Grillo sul video che accusava la ragazza di aver inventato tutto.
Era abbastanza normale difenderlo. Siamo tutti pronti all’ipocrisia, ma molti padri difenderebbero i loro figli.
Non ti ha colpito la storia di questi ventenni che fanno sesso a tre con una ragazza?
Fino a prova contraria per la legge sono ancora innocenti.
Ma tu cosa pensi?
Ehhh…
Cosa?
Io purtroppo il sesso faccio già fatica a farlo da solo. Figuriamoci in tanti.
Non ti schernire.
Ma è vero. Faccio fatica con donne che me la danno volentieri – per fortuna ci sono – figuriamoci cosa posso pensare di chi vuole farlo con violenza.
Adesso sarebbe d’accordo anche la Boldrini.
Ti rispondo con una citazione memorabile di Feltri.
Siamo alla terza persona?
No, Mattia: «La figa è sopravvalutata». Ah ah ah. Genio.
Mi hai disarmato.
Ecco le parole definitive sul sesso: «La fatica è tanta. Il piacere dura poco. La posizione è ridicola».
Sempre Mattia?
No, il grande Luciano De Crescenzo.
L’inchiesta per cui vorresti essere ricordato?
Al Corriere, sul caso Tortora. Gli inviati a Napoli chiusi i pezzi giocavano a poker.
Tu no, perché eri virtuoso?
No, a me non piaceva. Cosi una notte mi leggo il mattone del fascicolo.
E cosa ti colpisce?
La deposizione di questo pentito, Melluso. Dice di aver dato a Tortora una scatola con la droga in piazzale Loreto.
Ti puzza?
In un altro interrogatorio diceva che era in piazzale Lotto, il 5 maggio.
Non poteva essersi confuso?
Insomma: mi viene il dubbio. Chiedo all’archivista di controllare dove fosse Melluso, spesso ospite delle patrie galere.
Dov’era?
In carcere! A Campobasso! Ti rendi conto? Nessuno aveva controllato.
E poi c’era la famosa agendina.
Era di un altro pentito sardo. Allegata agli atti. La mattina dopo faccio il numero e…
E…?
(Imita il dialetto napoletano con insospettabile capacità glottologica) «Chi sì, strunz? Nun me scassà o’ cazz! Ma vafangù».
Non era casa Tortora, quindi?
(Ride). Direi di no. Capii che l’inchiesta era una mascalzonata.
Tortora ti fu grato. Eravate amici?
Sì, ma io non riesco a tenere questi rapporti….
Parliamo dei tuoi fondi.
Lo vedi Libero oggi? Il mio articolo in prima è ridotto a un francobollo.
Sai che potesti perdere anche quel francobollo?
Sarebbe uno spreco. Ma bisogna prepararsi a ogni evenienza.
Scrivere è tutto, per te?
Questo lavoro coincide con la mia passione. Sarei addolorato. Pensa che mi rileggo dieci volte e se trovo una parola ripetuta, o tre relative coordinate con il «che» smadonno. E poi…
Poi?
(Ghigno). Come vedi non so nemmeno fare il nonno. Posso solo scrivere.
Cos’è per te la firma di Vittorio Feltri?
(La prima pausa in due ore). La firma è uno specchio. Quando a un giornalista tolgono la sua firma, o i suoi lettori, scompare anche lui.