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Anche la pioggia arriva con il drone

Anche  la pioggia arriva con il drone

Per combattere la siccità che in molte parti del pianeta sta diventando drammatica, negli Emirati Arabi Uniti hanno sperimentato un velivolo automatizzato che «costringe» le nuvole a formare precipitazioni. È la tecnologia avanzata della semina delle nubi per salvare economia, turismo e qualità della vita.


La danza della pioggia? Roba da sciamani. Oggi gli scienziati riescono a far cadere acqua dal cielo «sparando» tra le nuvole droni che scatenano temporali. Il fenomeno si chiama «cloud seeding», ossia semina delle nuvole: si provocano precipitazioni abbondanti, in modo artificiale, per dare ristoro ad aree minacciate dalla siccità. A causa del riscaldamento globale, è proprio questa una delle piaghe più temute per l’economia di un Paese. L’ultimo rapporto Growndshell della Banca Mondiale avverte che, entro il 2050, 216 milioni di persone migreranno da Africa subsahariana, Nord Africa e America Latina verso continenti con un clima migliore. Sono i numeri drammatici della «migrazione climatica».

Una soluzione potrebbe consistere nell’innescare le piogge localmente, aumentandone intensità e frequenza, là dove sono scarse. Negli Emirati Arabi Uniti hanno appena sperimentato il cloud seeding usando un drone lanciato tra le nuvole con una catapulta. A differenza dei test precedenti, il drone non ha diffuso particelle solide come il sale o lo ioduro d’argento per stimolare la pioggia per «condensazione».

Quello progettato dalle Università di Bath e di Reading ha emesso cariche elettriche tra le nubi simulando lo scoccare di un fulmine. Un processo ispirato alla natura, che altera il naturale equilibrio delle cariche positive e negative delle goccioline spingendole a fondersi, a diventare più grandi e a formare la pioggia.

Risultato: Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, città con 50 gradi a terra, sono state irrorate da 35 centimetri d’acqua quando la piovosità media annua si aggira tra 48 e 78 millimetri. Costo dell’operazione, 35 milioni di euro, 20 sborsati dagli Emirati Arabi Uniti e 15 da Dubai. Un successo con la firma di Keri Nicoll, coordinatrice della ricerca congiunta delle Università di Bath, di Reading e degli Emirati. «Prima abbiamo effettuato test nel Regno Unito e dimostrato che possiamo rilasciare la carica dall’aereo e rilevarlo a terra» spiega a Panorama. «Poi li abbiamo ripetuti negli Emirati, dove l’ambiente elettrico è molto diverso a causa degli alti livelli di polvere e particelle di aerosol. Le goccioline d’acqua che formano le nuvole, anche se cadono, evaporano prima di toccare terra. Le previsioni dicono che gli Emirati saranno tra i Paesi più aridi al mondo».

Lo stress idrico già oggi ne condiziona economia e turismo. «La mancanza d’acqua è un dramma che i Paesi occidentali faticano a focalizzare» precisa Nicoll. «Ci sono luoghi in cui stanno già lottando per avere più acqua con la desalinizzazione e il cloud seeding. Finora gli Emirati avevano fatto la semina delle nuvole con particelle di sale marino o ioduro d’argento rilasciate da aerei, ma era costoso e inquinante. Il drone è più leggero, più economico, più ecologico».

L’inseminazione nelle nubi, oltre ad aumentare la piovosità in zone aride, può essere usata per prevenire la formazione di grandine in fronti temporaleschi, per far scaricare in tempi più lunghi nuvole che, altrimenti, riverserebbero a terra vere e proprie bombe d’acqua. «Sono anni che la scienza cerca il modo per combattere la siccità» conferma Franco Bagnoli, docente di Fisica statistica e dei sistemi complessi all’Università di Firenze. «Ci sono studi che risalgono agli anni Venti. È stato Bernard Vonnegut, scienziato americano del General Electric Research Laboratory, a scoprire a metà anni Quaranta che lo iodato d’argento poteva servire per provocare la pioggia. I militari Usa tentarono di scatenare uragani durante la guerra del Vietnam senza successo. Di recente ci si è accorti che si può non solo far piovere ma anche far piovere “prima”. Oppure anche solo rendere il cielo molto nuvoloso».

A che pro? «I cinesi nel 2008 hanno utilizzato il cloud seeding prima delle Olimpiadi per evitare piogge. In Australia la stanno adoperando per addensare le nubi: così si riduce l’irraggiamento dell’oceano e l’innalzamento della temperatura dell’acqua che danneggia la barriera corallina. E negli Emirati lo fanno per ottenere acqua, visto che con un acquazzone ne accumulano molta di più che con la costosissima desalinizzazione».

Certo, il cloud seeding non è privo di problemi. È difficile capire dove e quando sia più conveniente far piovere. E poi non si conosce esattamente la portata del fenomeno generato. Per esempio, le strade di Dubai sono state invase dall’acqua oltre ogni previsione. Ancora: se la pioggia si trasforma in tornado, il cittadino che ne subisce le conseguenze su chi si rivale? E poi: intervenire in maniera innaturale sul clima è davvero una cosa buona sui tempi lunghi?

Se combatte la siccità, forse sì. «Però» riflette Bagnoli «ciò che si modifica da una parte del globo potrebbe influire su un’altra parte. È vero che questi sono interventi locali, ma sarebbe meglio evitare accumuli eccessivi di umidità e distribuirla su un territorio più vasto. Difficile trasformare una regione arida in una fertile senza alterare gli equilibri della natura».

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