Nell’area archeologica siciliana, accanto al tempio del V secolo avanti Cristo, è in corso una mostra con installazioni discutibili di Mario Merz, Ignazio Mortellaro e Costas Varotsos. Un abbinamento sbagliato dove, a rimetterci, è il grandioso monumento in stile dorico.
Difficile immaginare un’insensatezza come la mostra o quello che sia, insomma, l’operazione nel Parco archeologico di Segesta, Nella natura come nella mente; e cioè l’inserimento di opere di arte contemporanea proposte dalla Fondazione Merz in prossimità del tempio di Segesta. L’idea è proporre «una riflessione sul rapporto tra scienza, arte e paesaggio» e convocare la Fondazione Merz che a Palermo ha una consolidata programmazione ai cantieri culturali della Zisa; iniziativa che è evidentemente una contaminazione di un mondo con un altro, nella considerazione, solenne e retorica, della capacità di conciliazione della storia con il presente dimostrata da questa fondazione, chiamata per disporre, nel sito archeologico di Segesta, opere di Mario Merz, Ignazio Mortellaro e Costas Varotsos.
È assai singolare vedere, in un luogo sublime, perfetto, la cui integrità è sacra come è sacro il significato del tempio, un’opera già vista e prevista di Mario Merz come Un segno nel foro di Cesare che è una spirale luminosa concepita altrove e per un altro sito; poi, sempre di Merz, La sequenza di Fibonacci, con l’idea che forma e numero richiamino l’essenza della natura. Sono confusi propositi di cui non si intende l’esito nelle opere compiute.
Poco lontano da questo serpente al neon c’è l’opera di Mortellaro, Primo punto dell’ariete: una torre alla cui sommità è installato un corno d’ariete, con un riferimento dichiarato quanto incomprensibile alle scale utilizzate nelle chiese e nelle biblioteche: sempre idee confusamente provocatorie. E la spirale di Merz viene poi materializzata, al di là dell’idea di luce, in una lunga e ingombrate installazione dell’artista greco Costas Varotsos in ferro e vetro, allo scopo di evocare concetti di luce, trasparenza, energia, movimenti che non si intendono affatto.
Tutto questo è sostanzialmente mostruoso. Il risultato è un serpente che sembra, come un siluro, colpire il tempio in stile dorico, mentre nel luogo dove interviene Merz vediamo i neon che sono una piccola idea di grande ambizione. La proposta è diventata realtà con il consenso involontario (come dire, «a scatola chiusa») dell’assessore Alberto Samonà, persona colta e di buon senso che si è occupata meravigliosamente dei pastelli, dei dipinti, degli acquarelli di Casimiro Piccolo e conosce la dimensione esoterica concepita con una tecnica che non sia mera provocazione.
Amare Piccolo, e leggere i Canti barocchi di Lucio Piccolo, poeta apprezzato da Eugenio Montale, allontana dalla realtà, e questo spiega la aristocratica distanza di Samonà, esegeta commosso e turbato. D’altra parte Nadia Terranova di quel mondo scrive: «La famiglia Piccolo abita l’eternità, non ha bisogno di lasciare tracce materiali del proprio passaggio sulla terra (ci proverà Lucio, dopo la morte di Teresa, con un contratto studiato a tavolino preso dal panico di avere un erede: ma questa è un’altra storia). Non c’è bisogno di aggiungere nuove creature a una villa già piena di fantasmi – i servitori, i cani, i gatti, gli antichi abitanti di quando la collina era un insediamento romano (tra le apparizioni, ancora oggi figura il fantasma di qualche centurione). In Villa c’è posto per tutti, i vivi e i morti; l’importante è che a governare siano loro, autarchici e spettrali: tre figli scapoli e bizzarri e una terribile mamàn, liberi, una volta e per sempre, di vivere come credono, anche dopo morti».
Perché dunque, da questa dimensione, preoccuparsi di Merz, Mortellaro, Varotsos? Perché lasciarsi disturbare dai loro concettosi teoremi? Così, da lontano, Samonà entra nel merito, dicendo diligentemente che la Regione promuove la ripresa di missioni archeologiche: e questo è positivo. Mentre propone «nuovi codici di lettura, come nel caso di Segesta, con grandi artisti». Grandi? È un atto di fede. Merz ha avuto notorietà, ma la grandezza è un’altra cosa, non credo neppure lui abbia mai viste o sentite come necessarie le opere estranee di Ignazio Mortellaro e Costas Varotsos.
Mortellaro così si presenta: «Ignazio Mortellaro è nato a Palermo nel 1978. Architetto e ingegnere, vive e lavora tra Filicudi e Palermo. La sua ricerca è una lenta indagine sulla Natura e l’Uomo, sul quadro grandioso del mondo fisico con i suoi ritmi e i suoi eventi. Un processo di liberazione e demistificazione volto a spogliare il destinatario di ogni illusoria ambizione e porlo di fronte allo spettacolo sublime e terribile della Natura.
Nel 2008 fonda il collettivo Oblivious Artefacts, progetto sperimentale attivo tra Palermo, Roma e Berlino che riunisce artisti, fotografi, architetti e sound designer. Cura il graphic concept di numerose etichette di musica elettronica sperimentale tedesche ed inglesi. Disegno, video, installazioni e mixed media sono le tecniche utilizzate nella sua ricerca». Povera Segesta!
Il tubolare Costas Varotsos era già stato sfrattato da piazza Benfica a Torino, per l’invadenza della sua scultura Totalità, ridimensionata in un giardino per la benevolenza di Intesa Sanpaolo. Non contento, ha voluto sfidare gli dei a Segesta, disturbandone la solitudine.
Non mi pare si possa dire che sono grandi opere, di grandi artisti che «entrano in dialogo diretto con spazi dove la natura e la storia sono parte di un’unica offerta culturale». Che poi queste trovate si concilino con il tempio di Segesta credo sia tecnicamente impensabile, se non attraverso una forma di fanatismo difficile da attribuire alle istituzioni che non dovrebbero, comunque, favorirlo. Invece la direttrice del parco archeologico di Segesta, Rossella Giglio, è convinta che la iniziativa «offrirà ai visitatori nuove suggestioni per il dialogo tra patrimonio archeologico e creatività contemporanea».
Parole vuote per invenzioni ambiziose e insensate, ed è inquietante che questa provocatoria dissacrazione avvenga in Sicilia. La miglior risposta è di Andrea Tusa, figlio del mio successore, come assessore ai Beni culturali della Sicilia, Sebastiano Tusa, morto tragicamente, il quale non avrebbe mai consentito questa inverosimile contaminazione accolta nell’indifferenza e nel silenzio, la testimonianza di una totale assenza di rispetto per la sacralità dei luoghi e per la grandezza solitaria, che non ha bisogno di altro che del suo rapporto con la natura, del tempio di Segesta.
Scrive Tusa: «Questo è lo sport preferito, ormai, nei nostri parchi archeologici. Spettacoli, balletti, sfilate di moda, installazioni di arte contemporanea, poco importa se siano belle ma in tema con il paesaggio. Tanto, una volta riusciti finalmente a cacciare gli archeologi, possono fare tutto ciò che vogliono, nessuno fa niente, nessuno dice niente. Abbiamo assistito alle peggiori politiche possibili e immaginabili nel campo del patrimonio culturale in Sicilia. È veramente vomitevole come hanno sfruttato e infangato il nome di mio padre, prendendo in giro anche i suoi figli. Fanno solo pena e basta».
Spero che Nello Musumeci, presidente della Regione, vada a Segesta e, vedendo quello che è avvenuto, dia il suo giudizio, faccia rispettare la memoria di Tusa, e trovi il modo di restituire solitudine e sacralità a quel luogo, senza ambiziose, presuntuose e insolenti installazioni.