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Le insidie della cucina globale

Le insidie della cucina globale

Nella prestigiosa classifica 50 Best Restaurants, italiani e francesi compaiono dal 15° posto in giù. A stravincere sono chef nordici che servono muschi, licheni e alghe. Piacciono alle multinazionali ma, se si continua così, tradizioni e prodotti locali sono a rischio estinzione.


Prendete la multinazionale della nutrizione più pingue per fatturato, che da company food si è proclamata «healthy company». Immaginate che questa società scriva alla Commissione europea per chiedere di rendere obbligatorio l’uso del Nutri-Score, la famosa etichetta a semaforo che penalizza tutti i prodotti della dieta mediterranea. Ora pensate che questa stessa società sia anche lo sponsor del premio che incorona il miglior ristorante del mondo.

Secondo voi può mai vincere un cuoco che cucina gli ossibuchi o i tournedos alla Rossini o le coque au vin? No. Il colmo è che i nostrani critici s’accodano e magnificano, forse per carenza di senso critico. Non si ricordano che Jean Anthelme Brillat-Savarin, agli inizi dell’Ottocento nella sua Physiologie du goût scriveva: «La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che riguarda l’uomo in quanto egli si nutre e massimamente dell’economia».

Così applaudono senza chiedersi se a quella multinazionale non faccia comodo promuovere e dunque premiare una sorta di «cucina globale» dove il politicamente corretto riconosce il gusto ma, al contempo, distrugge tradizioni gastronomiche radicate imponendo un nuovo progetto di nutrizionale globale.

Il sospetto viene scorrendo la classifica del nuovo 50 Best Restaurants Award tornato dopo due anni di pandemia, e dove per le cucine più desiderate al mondo – l’italiana e la francese – ci sono solo posti di rincalzo. Il primo e più acclamato cuoco è di nuovo René Redzepi che ha già ricevuto l’ambito premio quattro volte, ed è anche il solo a detenere un altro record: aver mandato all’ospedale 63 persone per intossicazione alimentare pur essendo incoronato miglior ristoratore al mondo.

Redzepi offre licheni, bava di lumache, formiche, alghe fermentate, succo di mela, ma anche coscio di renna o fegato d’orso. È danese e il suo ristorante Noma è una sorta di tempio del cibo degli Inuit coniugato con quello dei pescatori in un contesto di essenze selvatiche. Quest’anno, pure il secondo ristorante al mondo è danese. Si tratta del Geranium, sempre di Copenhagen, dove officia Rasmus Kofoed.

Il bravo Rasmus, in un’intervista recente ha spiegato bene perché i loro cuochi siano i migliori al mondo nonostante (diciamo noi) vengano da un paese con meno di sei milioni di abitanti, che hanno solo quattro prodotti Dop e dove meno del 10 per cento del reddito viene speso in alimentari. «Voi italiani avete radici molto più forti delle cucine nordiche» spiega Kofoed. «Avete davvero una fortissima tradizione. Non è lo stesso in Danimarca. Noi siamo orientati al cambiamento, con tanti giovani chef che stanno riscrivendo tradizioni e cucina». E infatti a Geranium si mangiano zuppe fredde, licheni, granchi. Tutto bio, tutto anti-spreco, tutto molto Greta Thunberg.

L’obiettivo non dichiarato per la costruzione della cucina globale sembra essere quello di eradicare le tradizioni. Una conferma? Viene dal terzo posto della classifica. Finalmente un mediterraneo, uno spagnolo. Ma la Spagna non ha 50 miliardi di export agroalimentare come l’Italia e altri 100 miliardi fatturati da chi imita i nostri prodotti. Lo spagnolo in questione è il ristorante Asador Etxerbarri guidato dal cuoco Bittor Arginzoniz, un locale dove si cucina solo con la griglia.

A rileggere Claude Lévi-Strauss ne Il crudo e il cotto ci sarebbe da domandarsi se questo Best 50 Restaurants Award non abbia anche il compito di far regredire il ristorante perché la cucina della griglia è ritenuta primitiva e allontana il cibo dal suo essere elaborazione culturale.

L’interrogativo che sorge è questo: si premiano i cuochi migliori o i cuochi più funzionali a distruggere la liturgia del cibo, il legame agricolo, il fatto che il cibo sia espressione di un linguaggio, di un’identità? La risposta l’ha data un critico che il mainstream gastronomico considera eretico e non sta simpatico alle multinazionali. George Reynolds, che lavora alla rivista cult Eater, del nuovo Noma (aperto da Redzepi dopo l’incidente «gastroenterologico») ha scritto : «Siamo alla fighettizzazione della cucina di sussistenza». Vi chiederete il perché.

Presto detto: se il ristorante perde la funzione di luogo di celebrazione delle cucine di specialità locali è più facile vendere al mondo un cibo globale. Peraltro non è difficile convincere che così deve andare il mondo se a decidere la classifica sono referenti (qualificati come e da chi, non si sa) sparsi per i quattro continenti.

Volete sapere come stanno messi gli italiani? Quindicesimo è il Lido di Gardone Riviera con Riccardo Camarini ai fornelli, diciottesimo il Piazza Duomo di Alba di Enrico Crippa. Ma per i signori sponsorizzati dalla multinazionale si mangia molto meglio a Lima o a Stoccolma. La Francia? Manco a parlarne. Il primo è l’Arpège di Parigi di Alain Passard, ventitresimo. Ma forse i francesi se lo meritano; in fin dei conti il Nutri-Score lo hanno inventato loro.

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