Sembrava un genere ormai senza futuro, con i visi pallidi politicamente corretti e i pellerossa eterne vittime. Invece, oggi lo rivitalizzano registi, scrittori e autori di fumetti. Con una formula vincente: basta eroi e facile retorica. Per cowboy e indiani niente bontà, solo gradazioni di cattiveria.
La bambina è alla finestra, nella fattoria, guarda il padre che si allontana a cavallo. «Secondo lei era imponente, risoluto e valoroso. Secondo lei era intelligente, romantico e avventuroso. Era impegnato in una missione che lo rendeva diverso dagli altri e per tutta la durata della sua assenza era quella l’immagine di lui che avrebbe serbato nella mente: lassù in groppa al cavallo con le borse, i fagotti e le armi; lassù con il lungo giaccone e il cappello a cilindro, avviato verso il West».
Anche noi ce lo siamo a lungo immaginato così, il cowboy. Proprio come lo descrive, attraverso gli occhi di una bimba, la scrittrice gallese Carys Davies, autrice di West (Bompiani). Nel romanzo l’uomo a cavallo corre verso un’impresa strampalata, degna di una fiaba: sta andando a cercare creature leggendarie nascoste chissà dove nell’Ovest sterminato. Insegue chimere, coraggio e follia non gli mancano. Cy Bellman, questo il nome del protagonista, a suo modo è un eroe. Una figura a cui il genere western ci ha abituato per anni, regalandoci personaggi meravigliosi nei romanzi, nei film e nei fumetti (Tex e Ken Parker, per citare i due classici italiani ancora molto vitali: leggere per credere L’inesorabile, l’ultimo speciale di Tex appena edito dalla Bonelli, scritto da Mauro Boselli e illustrato dal maestro Claudio Villa).
Poi, per anni, quegli eroi sono scomparsi. Sembrava che il West ai registi e agli scrittori (per lo meno a quelli famosi) non interessasse più. Da un lato, era un genere troppo difficile con cui misurarsi: dopo Sergio Leone e Sam Peckinpah la cinepresa trema fra le mani. È davvero difficile realizzare una grande opera senza scadere nello stereotipo. Ci ha provato Quentin Tarantino, con Django e The Hateful Eight, ma ha dovuto filtrare il canone attraverso l’ironia e persino lui non ha sempre ottenuto capolavori. Dall’altro lato, i film su indiani e cowboy erano troppo scivolosi per la nostra epoca ossessionata dai diritti delle minoranze. Troppo scorretto mettere in scena valorose giacche blu che sparano ai pellirosse indemoniati; troppo zuccheroso concentrarsi sui poveri nativi massacrati.
Al netto dell’ironia tarantiniana, dunque, il western classico sembrava scomparso. E invece, da qualche anno a questa parte, abbiamo imparato che non si era estinto: aveva semplicemente bisogno di una nuova mitologia. È tornato, cambiando forma. E, soprattutto, è tornato eliminando gli eroi. Fino a Balla coi lupi (blockbuster con Kevin Costner che ha fatto incetta di Oscar proprio all’inizio degli anni Novanta) e a L’ultimo dei Mohicani (kolossal del 1992 con Daniel Day-Lewis), si poteva dire che gli eroi della frontiera si dividessero in due categorie: quelli che ammazzano gli indiani e quelli che si schierano con loro.
Come scrisse David Herbert Lawrence in Classici americani (1923), parlando dei grandi romanzi di frontiera di James Fenimore Cooper, nei racconti di frontiera convivono due sentimenti: «Il desiderio di estirpare l’indiano e quello opposto di glorificarlo. Ancora oggi imperversano entrambi. (…) Una minoranza di bianchi intellettualizza il pellerossa e ne tesse le lodi fino al cielo. Ma questa minoranza di bianchi è per lo più una minoranza di intellettuali che si lagnano del proprio essere bianchi». Con queste poche frasi, Lawrence ha colto con decenni d’anticipo la fatale debolezza della nostra epoca. Il senso di colpa dei bianchi e, appunto, l’ossessione per la minoranza perseguitata. Balla coi lupi era un classico esempio di western politicamente corretto e, alla lunga, stucchevole.
Come uscirne? Beh, se i bianchi non possono essere buoni perché è razzista, e gli indiani non possono essere troppo buoni perché ci si annoia, basta fare in modo di eliminare tutti i buoni e mettere in scena soltanto i cattivi. Eliminare gli eroi, appunto. Ed è questo che fanno i nuovi autori di western. Il capofila di questa tendenza è Taylor Sheridan, classe 1970, sceneggiatore che non a caso ha iniziato la carriera scrivendo per Walker Texas Ranger e La signora del West. È il creatore di Yellowstone, serie tv di enorme successo appena arrivata in Italia su Sky, e interpretata da Kevin Costner in un ruolo totalmente diverso da quello di Balla coi lupi. È il protagonista della serie, ma è un cattivo, un personaggio fatto di sfumature di oscurità. I lavori di Sheridan sono tutti così: Hell or High Water, I segreti di Wind River. Western moderni, dove i cavalli corrono assieme alle auto e la povertà e la violenza la fanno da padrone. La stessa spietata crudezza trasuda da Hostiles, film del 2017 con Christian Bale firmato da Scott Cooper.
Sono tutte opere profondamente influenzate dalla letteratura. Si può dire che a dare forma al western attuale siano gli scrittori, più che i registi. Sheridan è un discepolo di Cormac McCarthy e delle sue feroci pianure, delle rocce bollenti e della brutalità di Meridiano di sangue. Atmosfere che si ritrovano nel potente Ruvide bestie di Rae Delbianco, appena pubblicato da Neri Pozza. Ma pure nei romanzi di Louise Erdrich, che ha sangue nativo americano nelle vene (è appena uscito in inglese il suo The night watchman). Ci sono, in questi libri e in questi film, i terribili «poveri bianchi» di cui il grande Erskine Caldwell fu cantore (anticipando tutti gli autori degli ultimi decenni). Ci sono anche i «poveri pellerossa», funestati dall’alcol e dal disagio sociale. Niente bontà, solo gradazioni di cattiveria.
Esattamente come nel romanzo grafico Grass Kings, piccolo gioiello dello scrittore Matt Kindt e del disegnatore Tyer Jenkins: vite ai margini, alcolismo, violenza che fa ombra sulle praterie in cui l’archeologia industriale sostituisce le carcasse dei bisonti. Identiche sensazioni si ritrovano nei Racconti del Wyoming di Annie Proulx, che Minimum Fax sta ripubblicando integralmente.
Da una delle sua storie Ang Lee ha tratto il celebre Brokeback Mountain, adattato per lo schermo da Larry McMurtry, considerato il re del western contemporaneo. I suoi capolavori – a partire da Lonesome Dove e Hud il selvaggio – sono in corso di ripubblicazione da Einaudi e Mattioli 1885. Si tratta di western splendidi, ma più canonici, che il revival del genere ha consentito di recuperare e riportare (meritatamente) nel catalogo della grande letteratura.
Poi c’è un altro filone, più sommerso, ma decisamente meritevole d’attenzione. È il western della controcultura, che unisce la crudezza tipica di McCarthy a fantasie allucinate che lo rendono semplicemente strepitoso. I capostipiti sono senz’altro William Burroughs (Strade morte è un romanzo capitale, ancora reperibile sul mercato dell’usato) e Alejandro Jodorowsky. Quest’ultimo, nel 1970, girò El Topo, un film completamente folle, violentissimo ma anche profondamente spirituale. Le sale cinematografiche lo rifiutarono, la prima si tenne in un cinema a luci rosse. Ora, grazie a Panini Comics, esce il seguito, I figli di El Topo, splendido fumetto scritto dallo stesso Jodorowsky e illustrato da José Ladrönn.
Sempre Panini ci regala Hillbilly di Eric Powell, di nuovo un fumetto, di nuovo un’iniezione di fantasia che rivitalizza antichi luoghi comuni letterari. Esattamente come fa Nick Cave facendo deviare il western verso il southern gothic in E l’asina vide l’angelo (Sur), classico nerissimo che ci fa capire quanto serie come True detective siano debitrici dell’immaginario dei cowboy. Perché gli eroi saranno anche scomparsi, lasciando campo libero alle ombre e ai cattivi. Ma la frontiera è sempre lì, a prescindere dallo spazio e dal tempo, il luogo in cui le diversità si confrontano, le culture fanno a botte, i bambini diventano uomini e i veri uomini estraggono la pistola. E a quel punto è solo una questione di velocità.
