Home » Tempo Libero » Cinema » Non mi piaci, ti cancello

Non mi piaci, ti cancello

Non mi piaci, ti cancello

Dall’America all’Europa, in nome del rispetto da garantire alle minoranze, si afferma una rilettura della storia e delle espressioni artistiche, a costo di censure anche violente. E la mappa ragionata di questo neo-conformismo ne fa emergere chiaramente limiti e rischi: una libertà «vigilata» del pensiero.


In principio furono le statue dei Buddha, distrutte dai talebani per eliminare qualsiasi cultura diversa da quella islamica, specialmente se un simbolo pagano. Poi i monumenti hanno iniziato a essere divelti anche dai giardini pubblici di Stati Uniti ed Europa. A seguire, ne hanno fatto le spese opere d’ingegno, brand, aziende, e quindi persone che abbiano espresso un’opinione non politicamente corretta. Tutte colpite da quella che, con un furore iconoclasta contemporaneo, prende il nome di «cancel culture». Colpisce dove meno ce lo si aspetterebbe e, in pratica, rappresenta un fenomeno che punta a estinguere ogni forma di espressione non conforme al «politicamente corretto», in ragione del fatto che la tal cosa o la tal altra potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno.

Il fenomeno è ormai fuori controllo. Dalle biblioteche di Harvard e da altri istituti e università occidentali sono stati banditi i libri di Platone e Shakespeare, in nome tanto di un presunto razzismo che sottende a quei testi, quanto di antisemitismo. Sono state compromesse brillanti carriere e allontanati professori da prestigiosi atenei solo perché esaltavano l’«elitista bianco» Ludwig van Beethoven, o perché insegnavano che l’America è stata scoperta da Cristoforo Colombo, le cui statue devono essere abbattute e rimosse dalle pubbliche piazze, perché il grande navigatore ha combattuto e ucciso nativi americani, e pertanto è nulla più che «un genocida».

Per non dire del giornalismo: quella penna acuta di Andrew Sullivan si è dovuto dimettere dal New York Magazine per le sue riflessioni critiche sul movimento Black Lives Matter. Mentre Adam Rapoport, editor di Bon Appétit, è stato licenziato solo per aver indossato un cappello portoricano a Halloween: offesa di un Paese intero… In Italia, intanto, c’è chi pretenderebbe la messa all’indice di Indro Montanelli della statua dedicatagli a Milano per i suoi trascorsi coloniali in Etiopia (si veda l’approfondimento nell’articolo successivo).

A fare le spese di questa pseudo-rivoluzione è stato anche il celebre Premio sulla letteratura per l’infanzia: dedicato alla scrittrice Laura Ingalls Wilder (autrice de La piccola casa nella prateria), l’evento da tre anni non porta più il suo nome perché, a dire di certi, nei suoi libri raffigurava i nativi americani in modo «stereotipato».

Per lo stesso motivo ora James Bond deve diventare donna o, quantomeno, di colore. E Biancaneve e la Bella Addormentata non possono più essere baciate dal principe, perché quest’ultimo «ha agito senza il loro consenso, dunque è una violenza sessuale». E, ancora, la curvilinea Jessica Rabbit si deve coprire con un impermeabile perché l’iconico abito succinto è lesivo delle dignità femminile. E la fatina buona di Cenerentola oggi è rappresentata nelle favole come un giovane nero omosessuale.

Dall’eliminazione di Via col vento dai palinsesti televisivi (il celeberrimo «classico» è stato eliminato dal catalogo Hbo perché ovviamente discriminatorio) passando per Amazon che cancella i film di Woody Allen (mentre la sua casa editrice non pubblica la sua autobiografia) perché accusato dall’ex moglie di comportamenti sessuali illeciti verso i figli, non c’è luogo o opera che non finisca nelle cesoie della cancel culture.

Neanche simboli universali della trasgressione alle regole come i Rolling Stones possono più cantare liberamente pezzi storici come Brown sugar perché sarebbe una esaltazione della pedofilia e dello stupro; né il rapper Eminem e colleghi possono più intonare liriche anche solo vagamente misogine. L’irriverenza non è più di moda e la provocazione tantomeno. Così i concerti si annullano, le star si fanno problemi di espressione e l’arte si censura. Come a dire che l’eredità dell’illuminismo dobbiamo gettarla nel cestino e che letteratura e altre espressioni artistiche sono opinabili.

L’ideale, secondo il nuovo conformismo, sarebbe che la lingua italiana, proprio mentre ricorre il settecentesimo anniversario di Dante, adotti lo «schwa», desinenza né maschile né femminile che servirebbe a combattere le discriminazioni e le differenze di genere (un po’ come l’imposizione del genitore 1 e genitore 2 per indicare padre e madre sulla carta d’identità). E Romeo e Giulietta dovrebbero diventare «gender fluid», in ragione del fatto che il loro amore etero potrebbe offendere in futuro una coppia di gay o di transgender.

«L’origine della cancel culture è da ricercare in America, e più precisamente nell’amministrazione Obama, che ha dato il via libera a certi eccessi liberal. Risultato? Questi eccessi li hanno portati dritti verso Donald Trump» riflette Roberto D’Agostino, direttore del sito Dagospia. «Io credo però che tra noi europei e gli americani ci sia una differenza sostanziale: la cultura europea non confonde mai la storia con la cronaca. Noi per fortuna stiamo nella storia, e non ci fermiamo alle mode – che finiscono sempre. Obama è passato, provate voi a far passare Giulio Cesare. L’eccesso e la caccia alle streghe – meglio dire degli stregoni – ha portato a questa sorta di psico-polizia orwelliana che, come ha riconosciuto persino l’Economist, fiaccola informativa dei progressisti, ha reso la sinistra qualcosa di persino illiberale».

Anche secondo il sociologo Luca Ricolfi, il cui libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza è appena stato pubblicato da La Nave di Teseo, «l’Europa ha più possibilità degli Stati Uniti di farcela: la cultura europea ha almeno 3 mila anni, quella degli Stati Uniti appena 300. È più facile mandare alle ortiche una storia breve e relativamente poco differenziata che un patrimonio lungo e ricchissimo».

Intanto preoccupa che questa sghemba censura del nuovo millennio non provenga da istituzioni come la Chiesa cattolica o da un capo di Stato conservatore. Piuttosto, la cancel culture sale dal basso: da comunità minoritarie che pretendono di mettere all’indice chi urta la loro sensibilità, e vogliono che una larga maggioranza si adegui a una minoranza ristretta in tutti i sensi. Come a dire che la libertà d’opinione è ormai un valore negativo.

Cosa direbbe a questo proposito l’irriverente Mordecai Richler, ineguagliabile quanto a irriverenza, imprevedibilità e intrattenimento allo stato puro nel suo romanzo La versione di Barney? Probabilmente poco, perché sarebbe subito messo al bando.

Di questa deriva censoria discuteva già negli anni Novanta il geniale saggista Robert Hughes, nel saggio La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto. A suo modo di vedere, il segreto del politicamente corretto è «l’insofferenza nei confronti di tutto ciò che ha una qualità, e per questo motivo stesso si distingue, operando una discriminazione verso tutto il circostante».

Viene da chiedersi se esistano antidoti a questa ubriacatura culturale. E vale la pena allora riportare l’appello del luglio 2020 di oltre 150 scrittori, accademici e artisti in America, per comprendere tanto il loro disagio quanto le conseguenze da loro stessi paventate: «Lo scambio libero di informazioni e idee, la linfa vitale di una società liberale, viene soffocato […]. Qualunque siano le circostanze di ciascun caso, il risultato è che i limiti di quello che si può dire senza timore di ritorsioni si sono assottigliati. Stiamo già pagandone il prezzo, in termini di minore propensione al rischio tra scrittori, artisti e giornalisti che sono preoccupati di perdere il lavoro se si allontanano dal consenso generale, o anche solo se non dimostrano sufficiente entusiasmo nel dirsi d’accordo. Un’atmosfera opprimente che danneggerà le cause più importanti dei nostri tempi». n

© riproduzione riservata

© Riproduzione Riservata