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Bruce Lee e la saggia via del Kung Fu

Bruce Lee e la saggia via del Kung Fu

Il re delle arti marziali torna alla ribalta grazie a un film della Marvel dedicato all’Oriente e ai suoi eroi. Anche se è scomparso da quasi 50 anni, l’attore resta un simbolo di equilibrio tra cinema, sport e filosofia. E di (buona) integrazione tra mondi diversi.


L’ossessione per le minoranze etniche talvolta produce anche effetti positivi. Dopo aver dato spazio alle donne in ossequio all’ondata del MeToo, e dopo aver rispolverato tutti i super eroi neri disponibili per omaggiare Black Lives Matter e simili, l’americana Marvel aveva bisogno di un’altra categoria politicamente corretta a cui rivolgersi. Così ha deciso di concentrarsi sulla minoranza asiatica. La casa produttrice dei fumetti dell’Uomo Ragno e di Thor aveva una scelta piuttosto limitata: gli «orientali» non sono mai stati troppo numerosi nel mondo dei comics. Ed ecco che la scelta è ricaduta su Shang Chi, personaggio probabilmente sconosciuto a più.

Il nuovo kolossal fumettistico si intitolerà appunto Shang Chi e la leggenda dei dieci anelli, e l’uscita è prevista entro l’anno. Come protagonista è stato scelto Simu Liu, e nel cast ci sarà pure Tony Leung, una delle più celebri stelle cinematografiche cinesi, già visto in The mood for love di Wong Kar-wai.

Anche se non è molto conosciuto, in ogni caso, Shang Chi rimane un personaggio suggestivo, con una storia che è interessante ripercorrere. Tutto inizia nel 1972, mentre gli Stati Uniti sono in piena «febbre gialla». Le sale cinematografiche sono invase da film di arti marziali, e in televisione spopola Kung Fu. Di questa serie, tra il ’72 e il ’75, vengono realizzate tre stagioni, tutte interpretate da David Carradine, attore di culto poi finito nel dimenticatoio e ripescato da Quentin Tarantino nei due episodi di Kill Bill (Carradine è Bill), pellicola che riprende proprio l’immaginario dei film di combattimento tanto di moda negli anni Settanta.

Non c’è ragazzino, in quel periodo, che non sia affascinato dalle mosse fulminee che vede sullo schermo: le scuole di karate e di kung fu sono piene, una nuova ondata di orientalismo si è appena abbattuta sull’America. La Marvel vuole a tutti i costi seguire l’onda, e cerca di acquisire i diritti di Kung Fu per trarne albi a fumetti, ma l’affare salta.

Così la «casa delle idee» fondata da Stan Lee sceglie un’altra strada: compra i diritti di Fu Manchu, il perfido genio del male cinese ideato dallo scrittore britannico Sax Rohmer. Tuttavia un cattivo, benché di grande successo, ancora non basta. Ci vuole un eroe da contrapporgli, ed è così che nasce Shang Chi. Appare per la prima volta su un albo nel 1973, grazie agli autori Steve Englehart e Jim Starlin, e non è difficile capire da dove costoro abbiano tratto ispirazione. Da Carradine, certo, ma soprattutto dall’uomo che Carradine aveva sostituito.

La serie Kung Fu, infatti, fu concepita anche grazie al contributo di una grandissima star dell’epoca: Bruce Lee. Secondo varie testimonianze, fu lui a fornire gli spunti iniziali, ma alla fine la produzione scelse Carradine: a Hollywood pensavano che un attore americano caucasico avrebbe consentito al pubblico statunitense maggiore immedesimazione. Per Carradine fu l’occasione di una vita, per Lee fu uno degli ultimi progetti sfumati.

In qualche modo, Shang Chi e Bruce Lee si diedero il cambio. Il personaggio di carta esordì nel dicembre del 1973. L’attore di origini asiatiche morì il 20 luglio dello stesso anno, in circostanze mai del tutto chiarite, stroncato da due edemi cerebrali. Stava girando I 3 dell’operazione drago, che uscì postumo, e aveva appena 32 anni. Suo malgrado, Bruce venne consegnato alla leggenda.

I genitori di Bruce Lee, in realtà, di cognome facevano Li. Il padre, Hoi Cheun, era un attore comico dell’Opera cantonese di Hong Kong. Sua madre, Grace, era figlia di una cinese e di un tedesco. Bruce sarebbe cresciuto a Hong Kong, ma nacque nel 1940 – terzo di cinque figli – a San Francisco, mentre i suoi erano impegnati in un tour. Come scrive Bruce Thomas nella bella biografia Bruce Lee (Castelvecchi), «per confondere potenziali spiriti avversi» al bambino fu dato inizialmente un nome femminile: «Siu Fung (piccola fenice in cantonese) e gli venne forato il lobo di un orecchio». Poco dopo, la madre lo ribattezzò Juan Fan, cioè «torna di nuovo», forse per indicare che, dagli Stati Uniti, sarebbe presto tornato in patria. In realtà, nel destino del ragazzo c’erano gli Usa. Un’ostetrica lo aveva soprannominato Bruce, e con quel nome l’avrebbe conosciuto tutto il mondo qualche anno più tardi.

Il pensiero cinese è sostanzialmente basato sull’armonia degli opposti, l’equilibrio in movimento di yin e yang: il freddo e il caldo, il lato in ombra e quello luminoso, il femminile e il maschile. Indissolubilmente legati, generano energia vitale grazie al loro connubio. In qualche modo, Bruce Lee e stato la dimostrazione vivente di questi due principi fondamentali dell’esistenza. È stato, sin da bambino, affascinato dal mondo dello spettacolo, dal palcoscenico, dalla celebrità. Ma, allo stesso tempo, è stato anche uno straordinario artista marziale, un uomo profondamente spirituale, un pensatore. È stato un grande personaggio in Occidente e la sua ascesa e caduta sono totalmente occidentali. Ma è stato anche decisamente orientale, anzi a un certo punto è stato il simbolo dell’Oriente in Occidente. Era americano di nascita, ma cinese d’aspetto e cultura. Crebbe in una famiglia attenta alle tradizioni, ma nella sua formazione furono importanti i gesuiti, tanto che fu un religioso a spingere Bruce verso la pratica del kung fu.

Da ragazzo, il piccolo Lee (o Li) era difficilmente contenibile. Non stava mai fermo, mai si spegneva. Faceva parte di una banda, amava i combattimenti in strada. Poteva avere atteggiamenti da scapestrato, ma non era un bullo. Iniziò a prendere lezioni dal leggendario maestro Yip Man, ma gli altri allievi volevano escluderlo: è americano, dicevano, non può praticare con noi. Bruce, dopo un po’, cambiò maestro, e mentre continuava con le risse prendeva anche lezioni di cha cha cha per far colpo sulle ragazze.

Come spiegano i maestri Chang Dsu Yao e Roberto Fassi nella Enciclopedia del Kung Fu (Mediterranee), kung fu è una sorta di termine ombrello che indica tutte le arti marziali cinesi, che la tradizione vuole essere state elaborate dai monaci shaolin a scopo di difesa ma anche come forma di meditazione in movimento. La parola kung fu, però, letteralmente significa «esercizio eseguito con abilità». Anche svolgere con perizia il proprio lavoro è «kung fu», impegnarsi a fondo in un’attività è «kung fu».

E Bruce Lee, questo è certo, si impegnò a fondo. Praticava un tipo di kung fu chiamato wing chun, e arrivò a padroneggiarlo in maniera impressionante. Ma non gli bastava. Voleva costruire qualcosa di suo. Voleva avere successo, sfondare, essere ricordato. E, soprattutto, essere invincibile sotto tutti i punti di vista.

Ci riuscì. Nel 1966 esordì come Kato nella serie Il calabrone verde. Ebbe una parte nella storica serie Batman nello stesso periodo. Nel 1971 il primo film: Il furore della Cina colpisce ancora. Nel 1972 si confrontò con Chuck Norris ne L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente. Nel 1973, purtroppo, la fiamma si spense. Forse, Bruce aveva voluto troppo. Ma i difetti non gli hanno impedito di lasciare una potente eredità e, in fondo, un esempio ancora valido. Le sue riflessioni sono raccolte in libri come Il Tao del dragone e Pensieri illuminanti (di recente ristampati da Mondadori). In fondo, la sua lezione è questa: non smettere mai di combattere, con il corpo e con l’anima.

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