Giovane, afroamericana, donna, democratica. Scrive versi mediocri, ma nessuno lo dice. Anzi, è così politicamente corretta da essere diventata una «figurina» intoccabile. Incensata da mezzo mondo in nome di un conformismo etico che non c’entra nulla con l’arte.
I giornali e i siti che da qualche settimana continuano a incensarla si trovano ad affrontare un grave dilemma. Come chiamarla, poetessa o poeta? In teoria, trattandosi di una donna, dovremmo indicarla come poetessa. Ma è noto che quell’«essa» potrebbe suscitare indignazione presso i tifosi della lingua «sessualmente corretta». E di certo, quando si parla di Amanda Gorman, tutto si può fare tranne essere «scorretti». È giovane, è donna, è nera, è democratica: in pratica, è l’intoccabile per eccellenza, una sorta di panda del mondo letterario. Dunque ogni singola parola va misurata con inusitata perizia, per evitare anche l’ombra di una critica.
In realtà, la cosa migliore per fugare ogni dubbio sui termini da utilizzare per definire la Gorman sarebbe smetterla di associarla alla poesia. Poeta o poetessa? Nessuna delle due. Altrimenti, ci toccherebbe chiamare poeti anche i bambini delle elementari che scrivono pensierini. Eppure, Amanda Gorman è, probabilmente, la poetessa vivente più famosa del mondo. Non c’è organo d’informazione che non si sia occupato di lei. Time l’ha inserita tra le 100 personalità più influenti a livello mondiale dedicandole addirittura un servizio di copertina firmato da Michelle Obama. Giusto per tracciare i contorni: una ex first lady degli Stati Uniti d’America intervista con reverenza una ragazza di 22 anni sul «rinascimento nero», nemmeno fosse la nuova Amanda Davis.
Nata nel 1998, nel 2017 le hanno conferito il titolo di National Youth Poet Laureate. Un suo componimento, In This Place (An American Lyric), è stato acquistato dalla Morgan Library di New York ed esposto accanto ai testi Elizabeth Bishop, una che frequentava Ezra Pound, conosceva i capolavori di T.S. Eliot a menadito e poetessa lo era davvero. In altri periodi storici, il solo paragone fra le due sarebbe stato considerato offensivo.
Oggi, invece, la Gorman – poetessa che non fa poesia – è venerata come una rockstar. Joe Biden, è cosa nota, l’ha scelta per impreziosire la sua cerimonia d’insediamento alla Casa Bianca. Per l’occasione, Amanda ha letto un testo intitolato The Hill We Climb, che Vanity Fair definisce «una poesia diventata culto». Poiché la Goman è una non-poetessa, il suo diluvio di parole non è una poesia. Inizia così: «Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine?/ La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo guadare./ Noi abbiamo sfidato la pancia della bestia./ Noi abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace/ e le norme e le nozioni di quel che «semplicemente» è non sono sempre giustizia./ Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgercene./ In qualche modo, ce l’abbiamo fatta./ In qualche modo, abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa nazione non sia rotta/ ma, semplicemente, incompiuta./ Noi, gli eredi di un Paese e di un’epoca in cui una magra ragazza afroamericana, discendente dagli schiavi e cresciuta da una madre single, può sognare di diventare presidente, per sorprendersi poi a recitare all’insediamento di un altro».
Come si diceva, non è una poesia. Potrebbe essere un banale discorso parlamentare di un politico progressista. E infatti, almeno in parte, lo è diventato. Maria Elena Boschi ha letto una fettina del lunghissimo testo per festeggiare il neo premier Mario Draghi (Faceva più o meno così: «E così alziamo il nostro sguardo non per cercare quel che ci divide, ma per catturare quel che abbiamo davanti»).
Ora, fare ironia è un gioco fin troppo facile. E, soprattutto, non è il caso di ridere, perché la questione è molto seria. Qui non si tratta di fare gli schizzinosi. Potremmo persino passare sopra al fatto che la Gorman mostri di non conoscere la metrica, l’originalità e la raffinatezza della poesia che può definirsi tale. In fondo la piatta composizione di Amanda non può certo danneggiare le folle più di certi grotteschi editoriali di sapore liberal.
Il punto, in questo caso, è squisitamente politico. Potremmo dire che Amanda Gorman rappresenta l’apice di quella che il grande il critico letterario Harold Bloom chiamava «scuola del risentimento». La definizione si riferiva agli accademici secondo cui un’oscura poetessa caraibica lesbica ha lo stesso valore letterario di Shakespeare, in virtù della sua appartenenza a una minoranza o a una serie di minoranze, i critici secondo cui i canoni estetici vanno demoliti e sostituiti con criteri che hanno a che fare con l’appartenenza sociale.
Ecco, la Gorman è il trionfo di tale concezione. È giovane, dunque adatta al culto contemporaneo dell’eterna adolescenza. Fa parte di una minoranza perseguitata, anzi la minoranza perseguitata per eccellenza (quella afroamericana). È donna e si colloca a sinistra. Tutto questo la rende moralmente superiore, intellettualmente perfetta. Che poi le sue non-poesie facciano schifo anche se le si valuta come prosa, non importa nulla a nessuno. Infatti la storica casa editrice italiana Garzanti, che ha comprato i diritti di The Hill We Climb (primo libro della Gorman che sarà in vendita a fine marzo in contemporanea mondiale), presenta il nuovo acquisto come un importante passo nella direzione dell’impegno, non in quello della buona letteratura. «Nel catalogo Garzanti il nome di Amanda Gorman si affianca ad altri autori come Malala Yousafzai, Michelle e Barack Obama, Carola Rackete, rafforzando così la vocazione civile ed etica della casa editrice», si legge nel comunicato ufficiale.
Nemmeno ci provano ad affiancare la ragazza prodigio ai grandi nomi delle lettere presenti nel catalogo, la vendono come una Carola meglio vestita. Il fatto è che, anche politicamente, Amanda è una truffa. Parla a nome di un gruppo sociale che si vuole emarginato e svilito, però ha una laurea con lode ad Harvard. La «ragazzina black, discendente di schiavi, figlia di una mamma single» si presenta al cospetto di Biden con un cappotto Prada. Ha scritto «versi» per una pubblicità della Nike, è stata invitata come ospite speciale al Super Bowl. Ecco, questo è il riscatto sociale a cui davvero ambisce. I beat, che avevano la loro bella dose di ipocrisia, puntavano per lo meno ad abbattere il sistema, sono perfino riusciti a produrre una critica abbastanza radicale del modello consumista e del capitalismo sfrenato.
Amanda, invece, vuole solo la sua fetta di torta, e sta riuscendo a ottenerla grazie a una spinta ideologica del tutto funzionale allo status quo. I suoi contenuti non sono nemmeno inoffensivi, ma utili al meccanismo della divisione del corpo sociale in minoranze conflittuali. Non è la portabandiera degli oppressi, ma degli aspiranti oppressori.
Vuole essere il simbolo del successo degli afroamericani, ma è semplicemente il simbolo della élite intellettuale progressista che impone il perimetro della discussione in ambito politico e pure letterario. È la vessillifera del politicamente corretto arrugginito che non cessa di sfornare mostriciattoli mediatici.
Amanda ha scalato la collina, come no. E ora potrà guardare dall’alto in basso i grandi e veri poeti del passato, i proverbiali «maschi-bianchi-morti» tanto odiati dalla scuola del risentimento. Ma non donerà una vita migliore al sottoproletariato nero: si godrà lo spettacolo del successo accomodata su una montagnola di brutte poesie. Anzi, non-poesie.
