Dai quartieri popolari agli esordi con il cabaret… Diego Abatantuono racconta a Panorama la sua carriera costellata di cene a tarda notte con gli amici di sempre: Smaila, Pozzetto, Fo, Jannacci… È un Viaggio amarcord tra film del passato (quella volta con de Niro…), pellicole in arrivo e la sua catena di ristoranti The Meatball Family.
Dieci anni di apertura, cinque milioni di polpette, cento dipendenti, oltre tre milioni di fatturato annuo, due nuovi locali previsti per il 2024 (si aggiungeranno agli attuali tre a Milano e due a Roma). «Eccezzziunale veramente», per dirla citando il film di Carlo Vanzina che nel 1982 lanciò come potenza comica Diego Abatantuono, patron di The Meatball Family, primo format in Italia dedicato alle polpette. Ed è proprio di polpette, e altri peccati di gola, che parliamo con un attore che ha saputo dare alla propria carriera non solo una «divagazione» gastronomica di successo, ma una compiuta svolta verso il cinema d’autore, senza rinnegare le origini.
Dicono che a tavola non si invecchia.
Le idee vengono mangiando. Per me è sempre stato così, tiravamo mattina a tavola, discutendo sulle scene del giorno dopo. Dieci anni anni fa mi sono detto: perché non aprire un locale? L’ho fatto, con soci amici. Ed eccomi qua, con mio figlio Matteo che manda avanti l’impresa, bravissimo. Vengo chiamato in causa per un parere, assaggio, ci sono per far felice gli altri.
Da ragazzo cosa mangiava, a casa?
Quando ero bambino stavamo al Giambellino, allora periferia di Milano. In casa c’era una stufa per scaldare, non quella economica, la cucina era già a gas. Mia nonna, seconda moglie di mio nonno, preparava il pancotto, pane con rosso d’uovo, o riso e prezzemolo, che non mi piaceva (oggi mi piace da pazzi e non lo trovo mai…). Poi riso e latte. Una volta alla settimana, nonna – la chiamavo zia Mora, per distinguerla da zia Bionda – faceva i toast riscaldandoli sulla stufa. Li divoravo tornato da scuola.
Viveva con i nonni?
Mamma e papà lavoravano, io, figlio unico, stavo con i nonni. Nonno faceva l’imbianchino. Alla sera tornava in bicicletta, con due secchi che contenevano pennelli sporchi. Li puliva, si toglieva il berrettino di carta fatto con i fogli dell’Unità, si dava una rassettata e mi portava pedalando sulle rive d’un laghetto di cava: mi sembrava il mare, tanto era grande. C’era un’osteria. Lui giocava a carte, beveva un bicchiere. Dal banco del bar mi tentavano le tartine con le acciughe e le uova sode da sgusciare, che mi piacevano molto. Mangiavo e guardavo nonno giocare. Qualcuno voleva farmi bere il vino, credo di averlo assaggiato qualche volta.
Mai una pizza in città?
Da più grande, quando ci siamo trasferiti in piazzale Velasquez, nel condominio dove abitava Gianni Rivera: lui al settimo piano, noi al secondo. Qualche volta andavamo in pizzeria, una delle poche che aprivano a Milano. Al sabato ero con la famiglia al Cral, il circolo aziendale. Servivano tortellini alla panna, una roba pazzesca.
Un bel peccato di gola…
Pari ai panini. Papà e mamma hanno avuto per qualche anno, quando facevo le elementari, un negozio di scarpe. A pranzo mangiavo in bottega. Una libidine! Mamma preparava le michette con il crudo o il cotto. Impazzivo per il panino del muratore, con la mortadella e un peperoncino.
Chissà le mangiate al Derby, pochi anni più tardi.
Arrivavo «già mangiato», alle nove e mezzo di sera. Facevo le luci, cenavo prima. Ma dopo gli spettacoli ci scappavano maccheroncini, risotto e champagne, pennette con la vodka, se la vodka non finiva prima.
Che tempi erano?
Il culto del cibo era diverso. C’era la trattoria. Al Derby si finiva alle tre di notte, anche dopo. Andavamo in un posto dei ferrovieri, dove mangiavano quelli del primo turno in stazione. Con I Gatti di Vicolo Miracoli invece eravamo fissi al Tri Basei, in centro. Saltavano fuori due chitarre, si suonava e si cantava. Venivano altri amici: Arturo Corso, Dario Fo, Umberto Tozzi, che allora faceva il turnista nelle sale d’incisione. Immagino che per i giovani, quando sentono questi racconti, sia una rottura di coglioni senza precedenti. Perché cerchiamo di rendere tutto epico, sapendo che parte dell’epica dipende dalla nostra età attuale.
Ma non è solo nostalgia…
C’erano la novità, l’allegria, la voglia di conoscere le persone. Soprattutto si rideva. Mi capitava di non aver più fiato, da quanto ridevo. Mangiare, suonare, ridere erano le tre cose fondamentali.
Assieme al calcio?
No, alle ideologie, non contaminate dalla politica. Usciva un film di qualità ogni giorno. La sera si parlava, sempre a tavola, di Woody Allen, di De Niro nel Cacciatore, di Tutti gli uomini del presidente, di Qualcuno volò sul nido del cuculo, filmoni così.
Che effetto le fece la grande popolarità?
Tutto è successo rapidamente. Fino al film Il tango della gelosia, del 1981, è stato un crescendo giusto. Poi ho fatto 12 film in due anni, uno dietro l’altro. Ero giovane, esperto di cabaret e di vita, non di cinema.
Poi c’è stata la svolta con Pupi Avati.
Grandissimo Pupi. Aveva telefonato a Lino Banfi per il film Regalo di Natale, e Banfi gli ha detto di no. Così ha chiamato me. Quando si dice i casi della vita. Grazie a lui ho potuto sperimentare un cinema diverso. Ho fatto film brillanti e drammatici. Il terrunciello delle commedie non era una banale caratterizzazione. Quella tipologia umana esisteva, era il personaggio vivente dell’immigrato, figura che si ritrova in tutto il mondo e io avevo calato nella Milano del tempo, percorsa da passioni calcistiche e sociali. Quei miei film erano diversi dai Pierino cinematografici. Non c’erano buchi della serratura da cui spiare donne sotto la doccia, né si sentivano parolacce. Ai critici facevano ugualmente ribrezzo. Nelle critiche non c’è logica, sono un punto di vista. Adesso quei film vanno in contemporanea con i capolavori di Fellini. Vuol dire che non c’è più pregiudizio.
Al cinema ci va?
Devo fare 18 foto prima di entrare e altrettante all’uscita. Preferisco vedere i film in casa, vorrei che uscissero in contemporanea in sala e tv. Non ho ancora visto quello di Paola Cortellesi, sono sicuro che mi piacerebbe.
Ha appena girato un film.
Sì, ho finito L’ultima settimana di settembre, con la regia di Gianni De Blasi. Una storia drammatica, molto bella.
Torniamo ai peccati di gola. Le piace la pizza all’ananas?
Se me la servono, gliela tiro dietro. Cederei solo dopo aver mangiato per sessanta giorni di seguito margherite e capricciose. E poi basta con la mania di guarnire la pizza con stranezze.
Il cibo orientale le piace?
Non mi piace il pesce crudo. Però mangio le cose cotte, cinesi o indiane.
Chi vorrebbe alla tavola ideale? Magari il suo collega De Niro?
L’ho avuto una settimana a casa mia: lui non parla italiano, io inglese. No, vorrei Ugo Conti, Smaila con i Gatti, Renato Pozzetto e, se avessi poteri divini, richiamerei in vita Jannacci e Fo. Con me e i miei figli verrebbe una bella tavolata, di chiacchiere e polpette.
