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2020: l’anno dell’ansia

2020: l’anno dell’ansia

Nella vita quotidiana già nevrotizzata, mancava solo la minaccia della pandemia. Così, bloccati dalla paura
di un nemico invisibile, rinunciamo a vivere. Ma se il circuito dell’allarme fa parte di noi (e ci aiuta a funzionare), l’angoscia si può disinnescare. In attesa del vaccino a cui la scienza sta lavorando. Contro il coronavirus, certo. Però anche contro lo stress.


«La vita è fatta così» diceva scuotendo la testa con aristocratica rassegnazione Maggie Smith in Downton Abbey. «Una serie infinita di problemi: ne risolvi uno e se ne presenta un altro e poi un altro ancora e ancora e ancora… finché un giorno si muore». Per chi soffre di ansia, due milioni e mezzo di italiani a quanto pare, vale la versione peggiorativa (con identico finale): un assalto di minacce indistinte, in agguato dietro un’impenetrabile foschia percettiva. Mentre gli altri procedono, sia pure con difficoltà, tra gli ostacoli dell’esistenza, l’ansioso si immobilizza nella sua agonia, circondato da presagi ben più inquietanti di qualsiasi problema.

E quale minaccia più formidabile di quella che può nascondersi in ogni tazzina di caffè, in ogni maniglia di porta, in ogni persona di cui incrociamo lo sguardo per strada? Il coronavirus è la sintesi amplificata di ogni incertezza esistenziale: sappiamo che c’è, non sappiamo dov’è né quando ci colpirà. Poco importa che non sia così letale, lo percepiamo come uno sconvolgente attacco alla nostra presunzione di controllo.

«Negli ultimi anni abbiamo costruito regolamenti e norme per ogni aspetto della vita, creando un’aspettativa globale di incolumità. Poi arriva un virus che spariglia le carte» riflette Giuseppe Pantaleo, professore ordinario di psicologia sociale e direttore dell’UniSR-Social lab del San Raffaele di Milano. «Sperimentiamo così una dissonanza cognitiva: pensavamo di vivere in un mondo protetto e ci scopriamo a compiere azioni che ci espongono a un rischio e ci lasciano indifesi».

Pantaleo racconta di un esperimento sociale condotto nel loro laboratorio, anni fa, con un gruppo di volontari cui i ricercatori fecero credere che sarebbero entrati in contatto con persone contagiate da un virus. «Naturalmente dicemmo che, a distanza di un metro, il contagio non ci sarebbe stato. Ma fu la dimostrazione che in condizioni di minaccia le persone diventano rigide dal punto di vista cognitivo. L’ansia dà una reazione di chiusura mentale».

Eravamo una società di depressi (o meglio di bipolari, modello più cool della stessa malattia), siamo diventati una società di ansiosi. Già rosicchiati dal dubbio di non essere abbastanza «vincenti» in un mondo dove tutti fingono di esserlo, lo spettro della pandemia ha travolto la nostra fragile impalcatura: mi ammalerò? E, pure peggio, farò una figura da sfigato di fronte a colleghi parenti amici e condòmini (tutti in quarantena per colpa mia)? Piccole apocalissi private, prima ancora di una fine del mondo che presumibilmente non ci sarà, nonostante l’enfasi di queste cronache coroniche.

«Siamo attraversati da paure cicliche: oggi il coronavirus, nel 2008 il panico della crisi economica» sostiene Stefano Bolognini, psichiatra e past-president della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psychoanalytical Association. «Ma la mia impressione, in 40 anni che faccio questo mestiere, è che al di là di questi barcollamenti, a metterci ansia sia il fatto di vivere in un’incessante corsa competitiva. Dove tutti cercano di posizionarsi al meglio, e tutti sono spaventatissimi all’idea di non riuscirci. Il massimo disagio è il fallimento».

Su una psiche sull’orlo di una crisi di nervi, un microbo imprendibile ha gioco facile. «C’è sempre qualcosa di cui preoccuparsi» scrive nel suo saggio Ansia (Cortina) Joseph LeDoux, uno dei più grandi neurologi al mondo, che alla New York University dirige il Center for Neural Science. «E alcuni di noi si preoccupano di tutto. Il livello di ansia è un tratto della personalità abbastanza stabile. Ogni tanto ci spostiamo da questo centro personale, ma torniamo sempre al nostro punto di stabilità. È come se esistesse una legge di conservazione dell’ansia. Che cosa dà a ognuno il proprio livello individuale?».

Intanto, prima di essere un handicap, l’ansia è un meccanismo salvavita. Di fronte a un bastone intravisto sotto un cespuglio del Pleistocene, l’Homo sapiens apprensivo se la dava a gambe, il sapiens flemmatico, dopo le ultime parole famose: «Ma che scappi, è solo un pezzo di legno!», moriva avvelenato (il legnetto era in realtà era un serpente). Ecco perché la natura ha conservato un tratto prezioso come l’ipervigilanza. Ma nel «disturbo di ansia generalizzato», il circuito di allarme è alterato. Come avere sempre la febbre alta. «Anche quando non ci sono minacce, queste persone si preoccupano del fatto che potrebbero presentarsi. E, per evitarle, arrivano al punto in cui le loro strategie interferiscono pesantemente con la vita quotidiana» spiega LeDoux.

Ci sarà una pandemia planetaria? Un asteroide ci cadrà sulla testa? Quella busta che mi è arrivata a casa sarà la Tari non pagata? Per l’ansioso, non c’è una scala di priorità. Anzi, forse il coronavirus gli sembra meno temibile di altre sue paure. «Ai miei pazienti, per valutare la gravità della loro ansia, chiedo: “Quale percentuale della sua vita mentale è dedicata alle preoccupazioni”?» racconta lo psichiatra Randolph Nesse in Buone ragioni per stare male (Bollari Boringhieri). «Per molti, la risposta è: “Non penso ad altro”».

Svegliarsi la mattina, per chi è attanagliato dall’angoscia, è impresa al di sopra delle umane forze. È, letteralmente, un dolore fisico. E i comportamenti di routine di questi tempi, scansare la folla, non uscire di casa, evitare i contatti, per l’ansioso sono da sempre tattiche difensive per sfuggire a… tutto. Ma se è vero che, come conferma Bolognini, esiste un destino omeostatico delle nostre paure, «una disposizione interna predeterminata che caratterizza il modo di funzionare di ognuno di noi», è pur vero che dalle sabbie mobili dell’angoscia si può emergere.

Alludiamo ai farmaci? Sì e no. Certo, come fa sapere il Censis (rapporto 2019), negli ultimi tre anni in Italia il consumo di ansiolitici e sedativi è cresciuto del 23%: li usano 4.4 milioni di persone. Sarebbe interessante, passato lo tsunami pandemico, sapere se il loro consumo sarà salito. Servono? Massì. Tre anni fa Lancet, in uno studio sugli psicofarmaci nell’ansia, ne concluse che sono meglio del placebo (principi attivi di prima linea: lorezapam, duloxetina, venfaxina, pregabalin, sertralina, fluoxetina, buspirone…), alcuni ben tollerati, altri meno.

In attesa del vaccino contro il coronavirus, la scienza indaga su un vaccino anti-stress: ricercatori del Mount Sinai Hospital di New York si stanno concentrando su una sostanza chiamata «neuropeptide Y» che agisce come un interruttore in grado di modulare la reazione allo stress. Una singola somministrazione ai topi prima di un’esperienza ansiogena li protegge dallo stress.
Provato su alcuni volontari, non ha del tutto deluso, il problema è che i partecipanti dovevano sniffarlo per circa un’ora perché raggiungesse il cervello. Non proprio una modalità di consumo con un grande futuro. Il team, guidato da James Murrough, sta ora provando la ketamina: sostanza capace di favorire la crescita di nuovi neuroni, pare sia efficace contro ansia e mal di vivere.

Nella chimica qualcosa si muove, insomma, anche se la pillola per vedere «la vie en rose» ancora non esiste. Possiamo imparare, si chiedono gli scienziati, da quegli individui dai nervi saldi, che nulla smuove da un’ammirevole placidità? Sicuramente hanno una buona genetica, dal momento che la serenità d’animo è, in parte, scritta nel Dna; e nella neurobiologia del loro cervello, le cui aree legate alle emozioni non si tormentano nell’anticipazione di eventi imprevedibili.

Ma a costruire il profilo resiliente (il «mi rimbalza», per capirci) è un mix di fattori che possiamo imparare. «Gli allarmati cronici di fronte a ogni fruscio di fronda si angustiano, ma la condivisione con gli altri può calmierare» afferma Bolognini. «Noi psicoanalisti questo facciamo: aiutiamo a metabolizzare elementi allarmanti, a collocare nel modo giusto esperienze e pensieri. Ma anche gli amici possono spezzare l’incantesimo».

Pantaleo parla della strategia «The if-then-plan», ossia «Il piano se-allora», sviluppata dagli psicologi sociali Peter Gollwitzer e Gabriele Oettingen della New York University: se succede questa cosa, allora si farà quest’altro. Una road map mentale che prefigura possibili incognite e soluzioni per tamponarle. Una sua deriva è pensare il peggio nei minimi dettagli, sicuri che non potrà mai avverarsi così come l’abbiamo immaginato. Più scaramanzia che garanzia, serve però a focalizzare il bersaglio, facendolo emergere dall’incertezza.

Infine, l’antidoto più efficace contro la paresi da angoscia è praticare, con ostinato allenamento, l’ironia. Più raffinata dell’abusata mindfulness, fornisce una formidabile barriera da sconforti e paranoie. Non impedisce gli agguati dell’ansia, ma la tiene a distanza: fare dello humour su una tragedia, vera o percepita, obbliga a rielaborarla nei suoi lati più lievi. «L’ironia serve a proporzionare le cose, a far diventare piccolo ciò che è grande» dice Bolognini.

«È un antidoto per sovvertire le forze in campo». Non sarà un caso che, dall’inizio dell’epidemia, scherzi e facezie si siano moltiplicati sui social. Vale oggi, in tempi cupi di paura, la scena più spiritosa di tutti i tempi sullo scampato pericolo: la celebre gag di Buster Keaton quando riemerge incolume dal crollo di una casa che, franando proprio sopra di lui, lo infila con millimetrica precisione nel vano di una finestra rimasta miracolosamente aperta. Lui si spaventa, a scoppio ritardato, e scappa come una lepre. Noi ridiamo della sua paura. E, un po’, anche della nostra.

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