L’economia depressa, i rapporti alterni con l’alleato Vladimir Putin, la gestione opaca del Covid e i dissidi con l’Europa, tra le ingerenze geopolitiche e l’arma di pressione dei rifugiati. Si apre un anno in affanno per l’uomo forte di Ankara, che rischia di perdere appoggi politici e consensi popolari.
Le vie dello shopping sono addobbate a festa, come capita sempre in questo periodo dell’anno. La Turchia, infatti, pur essendo un Paese musulmano non rinuncia alla suggestione del Natale, che ha sostituito con l’Yil Basinda, il Capodanno, mutuandone i simboli pagani, come l’albero e soprattutto la corsa ai regali e ai consumi. Quest’anno, però, i negozi sono mezzi vuoti, il clima è depresso e privo di quell’euforia che di solito si inizia a sentire già a novembre. La gente ha poca voglia di spendere ed è preoccupata per le proporzioni che sta assumendo l’epidemia da Covid-19 e l’aumento del costo della vita.
Lo sguardo di tutti è rivolto verso Ankara, in particolare verso Ak Saray, il palazzo presidenziale, ormai unico centro di decisioni politiche ed economiche del Paese. Per il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, sarà un 2021 tutto in salita, dentro e fuori i confini nazionali, con la crisi economica che bussa alle porte e una emergenza coronavirus gestita in modo poco efficace e ancor meno trasparente (si parla con dati, di sicuro sottostimati, di oltre 15 mila vittime e circa 850 mila contagi). All’estero, il presidente dovrà cercare di mantenere un difficile equilibrio fra i tanti fronti dove si è esposto in modo troppo assertivo e che rischiano di procurargli molti problemi.
«Una sfida importante sarà quella di mantenere l’equilibrio con l’alleato russo» dice a Panorama l’analista politico Yavuz Baydar. «Putin inizia a essere stanco dalle ambizioni geostrategiche turche tra Caucaso e Medio Oriente. Non mi aspetto comunque un peggioramento conflittuale. Si tratta ancora di un asse utile a entrambi e Mosca non ha interesse a romperlo». Invece, la priorità assoluta con cui si deve misurare Erdogan si chiama economia. All’inizio di novembre, in meno di 48 ore, sono stati sostituiti i vertici economico-finanziari del Paese, scelti direttamente dal presidente e che con lui avevano legami stretti.
Non solo il governatore della Banca centrale, Murat Uysal, ma soprattutto il ministro delle Finanze, Berat Albayrak, conosciuto anche perché genero di Erdogan. Il motivo della loro rimozione è la grave crisi valutaria attraversata dalla moneta nazionale per tutto il 2020, che l’ha portata a perdere quasi il 40% del valore contro dollaro ed euro, con effetti disastrosi sulla bilancia commerciale di un Paese che vive di importazioni. Nonostante il terzo trimestre del 2020 abbia fatto segnare una crescita del 6,7 per cento del Pil rispetto a quello dell’anno precedente. Ma si tratta di maquillage per nascondere la polvere sotto il tappeto.
I dati che Ankara ha sbandierato con grande orgoglio sono frutto di tassi di interesse al minimo che hanno stimolato la ripresa del consumo interno, da sempre il grande motore della crescita economica del Paese. Il nuovo governatore della Banca centrale, Naci Agbal, ha inaugurato una politica monetaria diversa da quella prediletta da Erdogan e basata su un basso costo del denaro, alzando i tassi di interesse di quasi 5 punti. Il risultato, per la fine dell’anno, sarà il calo del consumo interno con conseguente frenata del Pil. A questi si dovrà aggiungere la frenata delle importazioni, diminuite del 22% e un’inflazione che è arrivata al 14% e potrebbe continuare la sua corsa nei primi mesi del nuovo anno.
Il nuovo ministro delle Finanze Lufti Elvan ha cercato di tranquillizzare gli animi, consapevole che il consenso di Erdogan dipende dalle sorti economiche del Paese: «Stiamo lavorando con tutte le nostre forze per ridurre gli effetti dell’inflazione sui nostri cittadini, useremo misure monetarie e fiscali per garantire la stabilità dei prezzi e gestire le loro variazioni in modo efficiente». Propaganda a piene mani in attesa di misure più concrete e impopolari.
L’obiettivo nel 2021 sarà quello di una politica economico-monetaria orientata al lungo termine piuttosto che su strategie «mordi e fuggi» in grado di tenere alto il Pil, ma che non aiutano la bilancia dei pagamenti né esercitano un’attrazione sugli investimenti stranieri, di cui la Mezzaluna ha assolutamente bisogno. In altre parole: basta con il denaro a basso costo. Il nuovo governatore della Banca centrale lo ha capito benissimo. Il problema è convincere Erdogan, sostenitore di una politica – poco ortodossa – di tassi di interesse «populistici» per spingere il consumo interno e mantenere intatto il consenso.
Alle preoccupazioni economiche, si aggiungono quelle politiche e, purtroppo per il presidente, quest’ultime hanno due diverse matrici. La prima è ordinaria e riguarda uno spostamento di preferenze dall’Akp, il partito che Erdogan ha fondato nel 2000, verso il Mhp, il Partito nazionalista, più a destra dell’Akp e suo alleato nella coalizione al governo. La seconda matrice è quella eversiva ed ben più pericolosa per il presidente. Da alcune sue ultime dichiarazioni, il leader del Mhp, Devlet Bahceli, è risultato essere in rapporti fin troppo stretti con Alaattin Cakici, noto capomafia locale in grado di mobilitare non solo i Lupi grigi, ma anche gruppi para-militari di estrema destra. In un Paese come la Turchia, dove ci sono stati cinque colpi di Stato «ufficiali» e le organizzazioni stay-behind hanno avuto un ruolo importante nella storia recente, per Erdogan può solo rappresentare una seria preoccupazione.
Bahceli sa di essere in possesso di un efficacissimo strumento di persuasione e potrebbe usarlo nei prossimi mesi, quando il capo dello Stato ha annunciato riforme economico-giudiziarie, ufficialmente per garantire maggiori standard democratici, ufficiosamente per indebolire un alleato al momento ben più pericoloso dell’opposizione. Poco tranquilla è anche la situazione fuori dai confini nazionali. I rapporti con l’alleato russo sono tesi per il ruolo sempre più da protagonista rivendicato da Ankara in Libia come nel nord della Siria.
L’ultimo teatro delle tensioni fra Ankara e Mosca è quello del Nagorno Karabakh, la regione a maggioranza armena, ma in territorio azero, non riconosciuta dalla comunità internazionale e che ha scatenato un conflitto fra Azerbaigian e Armenia, breve ma con migliaia di vittime. La Mezzaluna cerca di trovare gli spazi per imporre una sua presenza militare in Azerbaigian, Paese che protegge da sempre in virtù di legami linguistici e religiosi, ma soprattutto per l’importanza che Baku, con le sue immense risorse di petrolio e gas naturale, avrà nelle vie energetiche del futuro, destinate ad attraversare il territorio turco.
La prospettiva piace poco al Cremlino, che sta lottando per mantenere la sua posizione di influenza nel Caucaso e invece si trova a fare i conti con altri Paesi che, nell’area, si vogliono inserire sfruttando spazi vuoti lasciati proprio da Mosca. C’è l’Iran, ma soprattutto c’è la Francia, storicamente schierata dalla parte dell’Armenia, e che, attraverso il gruppo di Minsk, ha cercato di far riconoscere il Nagorno Karabakh dalla comunità internazionale. Contro l’attivismo francese si è scagliato Erdogan in persona: «La decisione presa dal gruppo di Minsk» ha detto «è uno scandalo nel disastro. Spero che la comunità internazionale reagisca a questo approccio, che è pericoloso per tutti gli Stati».
Nei prossimi mesi, la frizione fra Ankara e Parigi è destinata ad acuirsi. La Turchia infatti è tornata, seppure con le sue modalità, a bussare alle porte dell’Europa. Sempre Erdogan pochi giorni fa ha dichiarato che Bruxelles ha preso degli impegni con la Mezzaluna, e si aspetta vengano rispettati. Un atteggiamento ai limiti dello sfrontato, che non tiene conto non solo delle relazioni pessime con Francia e Austria, ma anche della situazione irrisolta con la Grecia, con cui lo scorso agosto ha rischiato il conflitto per le dispute sul Mediterraneo orientale. Su questo scenario agitato resta pure la questione migranti, con oltre tre milioni di rifugiati in Turchia, che il presidente ha più volte minacciato di lasciar arrivare in Europa. L’arma di ricatto più convincente nei momenti di trattativa.