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TLC, unirsi per non scomparire

TLC, unirsi per non scomparire

Ci sono troppi operatori che si contendono il mercato italiano della telefonia. E anche se per gli utenti è un vantaggio, diminuisce il margine delle compagnie alle prese con i costi del personale e con necessarie evoluzioni tecnologiche. La strada delle fusioni appare segnata…


Negli Stati Uniti, 330 milioni di abitanti, ci sono appena tre grandi operatori di telecomunicazioni. In Cina, dove la Repubblica popolare si avvicina a quota 1,5 miliardi di persone attive, i player sono sempre tre, altrettanti in India per un miliardo e mezzo di indiani. In Italia, invece, dove la decrescita demografica è problema ormai acclarato, l’unica cosa che aumenta è il numero di gruppi che offrono i servizi di telefonia: ne abbiamo quattro o addirittura cinque per meno di 60 milioni di italiani. A Tim, Vodafone, Wind Tre e Iliad si può, infatti, aggiungere Fastweb che non è ufficialmente sul mobile, ma opera anche sul mobile.

Questi numeri che vengono analizzati a ogni convegno organizzato per studiare e provare a trovare delle soluzioni ai problemi del settore rappresentano un chiaro esempio di quello che banalmente può essere definito eccesso di concorrenza. Che da un certo punto di vista fa felici gli utenti perché i prezzi dei prodotti offerti sono sempre più bassi, ma dall’altro mette in ambasce le stesse compagnie che vedono i margini ridotti al lumicino e l’esigenza sempre più pressante di aver accesso a nuove risorse finanziarie. Un’altra delle peculiarità delle telecomunicazioni è infatti l’esigenza di investire continuamente in tecnologia e digitalizzazione per non restare indietro rispetto ai competitor.

Quindi, se gli utenti ridono – i prezzi sono scesi del 15 per cento in Europa e del 34 per cento in Italia negli ultimi 10 anni – non possono fare lo stesso i lavoratori che vivono da anni sotto una spada di Damocle. I sindacati, scegliendo uno strumento assai abusato, hanno proclamato un’ulteriore giornata di sciopero – il 6 giugno – con l’obiettivo di accendere le luci dei riflettori su queste criticità partendo dagli annunci allarmanti delle ultime settimane. Vodafone, che è da poco guidata da Margherita Della Valle, un amministratore delegato italiano, ha ufficializzato 11 mila tagli dei quali mille solo nel nostro Paese (il 20 per cento circa della forza lavoro), British Telecom parla di 55 mila esuberi da «smaltire» entro il 2030, e Tim, che di dipendenti ne conta circa 42 mila e fa ricorso da tempo alla solidarietà, è alle prese con un lungo processo di ristrutturazione.

Il primo anno di gestione dell’amministratore delegato Pietro Labriola ha dato segnali incoraggianti ma, come evidenzia lo stesso manager cresciuto in Tim Brasile, il problema principale è rappresentato dai 20 miliardi e passa di debito: una zavorra che non consente all’azienda ex monopolista di muoversi e investire come vorrebbe. La strada della separazione (società della rete e società di servizi) è irta di osta-coli e il processo di vendita dell’infrastruttura (ci sono in ballo le offerte del fondo Kkr e della cordata Cdp-Macquarie) per avere poi una «Service-Co» più snella e meno in rosso, al momento si scontra con la volontà di Vivendi, il primo azionista francese che preferirebbe una soluzione diversa. La stessa Iliad, l’ultima arrivata, pur partendo dal vantaggio competitivo di avere meno di mille lavoratori (880) inizia a fare i conti con le rivendicazioni dei sindacati sull’inquadramento contrattuale dei dipendenti. Certo, i risultati di penetrazione nel mercato e i ricavi sono ottimi, ma il player francese guidato in Italia dal giovane e rampante Benedetto Levi fatica a generare cassa e spinge per recitare un ruolo da protagonista nel prossimo risiko.

«In Italia sono a rischio oltre 20 mila posti di lavoro nel solo perimetro delle “Telco”, senza calcolare gli effetti per il settore di appalti, impiantistica e manutenzione fino ad arrivare all’installazione delle reti fisse e mobili» spiega a Panorama Alessandro Faraoni, il segretario generale della Fistel Cisl. «Servono iniziative concrete. Nel nostro piccolo abbiamo proposto di trasferire una parte dei dipendenti Tim in Poste Italiane che necessita di personale formato per portare avanti la svolta digitale. Certo, ci sono troppi operatori ed è auspicabile un processo di integrazione, ma i problemi non finiscono qui». In un settore che necessita di continui investimenti, prosegue Faraoni, «il punto è che ci sono gruppi con un debito pari a tre volte l’Ebitda (margine operativo lordo, la differenza tra costi e ricavi, ndr), per cui fanno fatica anche a farsi riconoscere nuovi prestiti dalle banche. Parliamo però di investimenti strategici per la crescita del Paese, basti pensare solo alla tecnologia 5G. Per questo chiediamo l’intervento del governo».

Che a breve metterà in campo una serie di misure ad hoc. «Le Tlc hanno molte difficoltà e in Italia più che altrove» evidenzia a Panorama Alessio Butti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Innovazione. «Manca da anni una politica industriale specifica su un settore che ha caratteristiche molto particolari. Il governo vuol giocare questa partita andando oltre le misure contingenti e mai risolutrici dei precedenti esecutivi. Le reti non sono solo internet, devono far girare miliardi di dati che servono all’industria, all’artigianato, all’agricoltura, contribuendo così alla crescita della nostra economia». Quindi? Aggiunge Butti: «Pensiamo di facilitare i processi di condivisione delle infrastrutture, che riguardano non solo le Telco ma anche altri operatori, per puntare sul servizio finale ed evitare di fare gli stessi lavori due volte. C’è quindi l’aspetto energetico fino a oggi sottovalutato, quello delle telecomunicazioni è un comparto fortemente energivoro ed è giusto che siano allargati anche a queste aziende i benefici fiscali previsti per altri gruppi».

Il pacchetto vale circa un miliardo e mezzo. Si parte dal taglio dei prelievi che gravano sulle bollette energetiche pagate dalle imprese ritenute dallo Stato di importanza strategica, comprese le Tlc, e si arriva ai 200 milioni a sostegno degli operatori nel passaggio dal rame alla cosiddetta «full-fibra», una misura che andrebbe a beneficio soprattutto di Tim. In mezzo ci sono 150 milioni per il prepensionamento dei lavoratori più anziani e l’innalzamento dei limiti alle emissioni elettromagnetiche che gli operatori di telefonia mobile lamentano in Italia come troppo bassi rispetto ad altri Stati europei, aggiungendo così altri costi nella realizzazione delle reti 5G. Il limite dovrebbe essere innalzato a 30 volt per metro nelle aree più trafficate rispetto all’attuale limite di 6 volt.

Basterà? «Una delle questioni essenziali è quella del consolidamento» sottolinea il professore emerito di telecomunicazioni del Politecnico di Milano Maurizio Dècina. «I regolatori hanno sempre richiesto nuovi ingressi per consentire le fusioni. Il caso più eclatante è quello di Iliad dopo l’unione tra Wind e 3 Italia. Da Spagna e Regno Unito arrivano segnali che tale approccio sta cambiando. In questo caso consiglierei al governo di ampliare il Cap, il tetto sul possesso di frequenze spettrali per ogni singolo operatore. Il limite attuale oggettivamente rappresenta un “tappo” a eventuali operazioni di accorpamento. Poi c’è la questione europea del rapporto con gli Ott (gli Over The Top come Amazon, Alphabet, Facebook e Google, ndr) che sono i principali generatori di traffico e occupano quasi il 60 per cento di quello Internet) e non danno nessun contributo alla rete di accesso fissa e mobile».

Su iniziativa del commissario francese Thierry Breton, la Commissione europea sta preparando una riforma, che prende il nome di «fair share» (la giusta quota) e intende regolamentare i costi d’investimento nelle reti di Tlc. In buona sostanza: i costi vanno condivisi, per cui si cercherà di costruire un sistema di tariffazione del traffico Internet che chieda alle cosiddette Big Tech di pagare per il passaggio e di investire poi i ricavi per migliorare e innovare le reti. Non sarebbe la soluzione di tutti i mali, ma di sicuro un grande passo in avanti.

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