L’inviato di Panorama si trova a Kharkiv, dove le forze russe stanno attaccando da settimane, mentre i «resistenti» ucraini continuano a tenere il fronte. E il conflitto si mostra nella sua tragica normalità di devastazione e morte.
Sembra di entrare nelle fiamme dell’inferno. Le lingue di fuoco si alzano in mezzo alle colonne di fumo nero. L’artiglieria russa ha appena bombardato la strada che porta a Malaya Rohan, il sobborgo a Sud-Est di Kharkiv, dove si combatte per liberarlo dagli occupanti di Mosca. L’incendio si è sviluppato sui lati, nella campagna. L’unica possibilità per arrivarci è attraversare il tunnel di fuoco. Il calore è impressionante e appena passati ci troviamo di fronte a un tank ucraino. I carristi che stanno preparando il cannone per sparare ci fanno segno, nervosamente, di andarcene: «I russi sono ancora qui. È troppo pericoloso per i giornalisti». La guerra in faccia, che racconto in questo numero di Panorama, ti resta dentro. Dal fronte di Kiev a Kharkiv, la seconda città del Paese, anche se il 30% della popolazione è fuggita, a 39 chilometri dal confine russo.
Malaya Rohan è stata liberata fra il 28 e 29 marzo. Una squadra di militari ucraini ci scorta sul campo di battaglia ripetendo di rimanere in fila indiana e fare sempre attenzione dove mettiamo i piedi. Potrebbero esserci delle mine. In mezzo alla campagna un reparto russo con blindati e carri armati si era trincerato per sbarrare il passo agli ucraini. L’artiglieria li ha spazzati via e i missili Javelin forniti dalla Nato hanno fatto a pezzi blindati e carri armati. Trincee e sacchetti di sabbia non sono serviti a salvare i russi. «Erano in 120 e finora abbiamo trovato una dozzina di corpi, ma hanno perso molti più uomini. Non sono riusciti a portare via tutti i cadaveri» racconta un militare che ha partecipato alla battaglia.
Il ragazzino biondo, poco più che ventenne, sembra assopito nella buca che si era scavato per proteggersi, se non fosse per il rigagnolo di sangue fra le labbra. Un altro ha gli occhi azzurri spalancati verso il cielo. Ancora con elmetto e giberne, i corpi dei russi sembrano marionette con i fili recisi. Sono disseminati sul campo di battaglia. Caos e distruzione totale: gran parte dei blindati sono carbonizzati, ma un mezzo è ancora intatto con la Z bianca tracciata sulla fiancata, marchio delle forze di occupazione.
I cadaveri sono aggrovigliati in mezzo alle casse di munizioni, bombe a mano mai lanciate, razzi controcarro ed effetti personali sparsi dappertutto. La valanga di fuoco ucraino, grazie alle informazioni dei satelliti e dell’intercettazione elettronica americana, ha travolto i russi. Le famiglie neanche sapranno che i loro cari non torneranno più a casa.
La rappresaglia su Kharkiv e dintorni si fa sentire giorno e notte. In 24 ore sono anche 200 i bombardamenti russi. La sequenza dei colpi che piombano davanti ai nostri occhi è impressionante. Le nuvole di fumo bianco si alzano una dietro l’altra alternate dal fragore dello scoppio. I palazzi residenziali nel quartiere di Saltivka vengono inghiottiti dalle colonne delle esplosioni. Di notte è ancora peggio: gli attacchi d’artiglieria, che colpiscono le linee del gas per la città, provocano incendi che illuminano di rosso il cielo per ore. «Continuano a battere sempre negli stessi punti per aprirsi un varco e tornare a invadere la città come hanno fatto la prima volta all’inizio della guerra» mugugna un soldato che assiste in diretta a questo martellamento.
Un sergente di ferro dell’esercito ucraino ci fa strada fra le macerie di Saltivka. Il quartiere di periferia è un dedalo di palazzi residenziali alti e bianchi. A terra, oltre ai crateri delle bombe, non mancano i colpi di mortaio inesplosi conficcati nel terreno. Pezzi d’artiglieria e blindati, vero bersaglio dei russi, sono annidati fra le case abbandonate dai civili. Mentre avanziamo di corsa i soldati ucraini spuntano come fantasmi dai rifugi dei condomini. «Hanno colpito più avanti» confermano «I russi sono oltre la tangenziale a 400 metri. Tenete la testa bassa». Le fiamme escono dal settimo piano di un palazzo centrato e annerito dalle granate. Un ufficiale ci fa vedere sul telefonino le foto scattate dai droni delle forze russe attestate poco più avanti. Su un altro fronte di Kharkiv l’elicottero russo ha appena seminato morte e terrore.
Tre colonne di fumo grigio, che si alzano verso il cielo da una boscaglia, indicano l’attacco dal cielo. Il soldatino ucraino è dritto in piedi con un missile terra-aria sulla spalla. I «controcarro» Javelin sono al riparo dietro a dei blocchi di cemento e i soldati pronti in trincea con il dito sul grilletto. Igor, un sergente, ci porta ancora più avanti verso la postazione avanzata dove sono acquattati un carro armato e un blindato ucraino. Dopo pochi minuti il capo carro urla: «Stanno arrivando i tank russi, andate via!».
Pyatikhatki è un sobborgo fantasma a nord di Kharkiv, sembra abbandonato da sempre. Strade deserte, case sbrecciate dai razzi Grad e auto ridotte a un groviera dalle schegge. Dentro un condominio colpito scopriamo che c’è ancora qualche civile che vive tra le bombe. I dannati del fronte sopravvivono nelle catacombe moderne di questa guerra.
Un signore di mezza età ci accompagna sottoterra, ma bisogna sorreggersi a una corda per non cadere scendendo lungo una ripida scaletta in ferro. Più che un rifugio è un girone dantesco con le tende piantate in mezzo a polvere e umidità. La luce fioca di qualche lampada illumina la dozzina di dannati che sopravvivono da giorni in queste condizioni. «Abbiamo anche bambini che piangono a ogni esplosione» racconta Valentin, alto di statura, barba sfatta. «Vogliamo solo che questa maledetta guerra finisca». All’ultimo piano il suo appartamento non c’è più, incenerito dall’artiglieria russa che ha aperto un varco al posto delle finestre. Nella cucina distrutta c’è ancora una confezione di spaghetti italiani.
La E 40 è l’autostrada della morte che costeggia il fianco Est di Kharkiv. I militari ucraini ci portano per la prima volta lungo la striscia d’asfalto disseminata di blindati russi distrutti, carcasse di automobili crivellati di colpi e cadaveri. Un civile è accasciato sul bordo della strada. Un altro è riuscito a fuggire per qualche decina di metri prima di venire falciato. Un graduato russo è stato abbandonato nel fossato che costeggia l’autostrada della morte. Gli ucraini trovano i documenti di altri soldati caduti in combattimento e un librone con su scritto «classificato» in cirillico, che dimostra come gli ufficiali fossero al corrente dell’invasione dell’Ucraina durante le esercitazioni ai confini prima del 24 febbraio, la notte dell’attacco.
Sul fronte di Kiev, la manovra a tenaglia russa si allenta, ma la guerra non è finita. A Est del fiume Dnieper le forze di Mosca sono state fermate davanti a un ponte fatto saltare in aria. Oltre è un cimitero di blindati russi. Yuri, tozzo e deciso sottufficiale che ci scorta, trova accanto a un mezzo distrutto i gradi e il nastrino verde con il velcro che i soldati attaccano alla mimetica con il proprio nome. Il sergente Maslov difficilmente sarà sopravvissuto alla distruzione del suo cingolato. I soldati di Kiev scavano un dedalo di trincee in un villaggio quasi raso al suolo dai combattimenti. Nella boscaglia, dove si alza il fumo grigio di un colpo di artiglieria, sono nascosti i russi che si riorganizzano in attesa degli ordini da Mosca.
Una settantina di chilometri a ovest della capitale, Makariv è una città fantasma. I militari ucraini spuntano dal nulla con le armi spianate e sbalorditi che un’auto di giornalisti sia arrivata fino alle porte dell’inferno. Un militare corre verso di noi: «Il combattimento è furioso. Se andate avanti siete morti. Ci aspettiamo un attacco aereo da un momento all’altro». Il sottufficiale ha due sorelle in Italia, come tanti soldati ucraini in prima linea. Makariv è strategica per il controllo dell’autostrada che arriva da Leopoli, «arteria» della resistenza per armi e rifornimenti dall’ovest verso Kiev. Dall’ospedale della città arriva la telefonata di un’infermiera volontaria della capitale, che negli ultimi dieci giorni ha assistito i feriti sotto le bombe. «Venitemi a prendere vi prego. Non ce la faccio più» è l’accorato appello della giovane ucraina, amica del nostro autista. I combattimenti rendono impossibile qualsiasi evacuazione.
Sul fronte del sobborgo di Irpin a nord di Kiev, prima della ritirata dei russi, sono schierati i cadetti. Ragazzi fra 18 e 20 anni pronti a dare la vita per la patria. Il rombo a intermittenza delle cannonate sembra non preoccupare Artem, che armi in pugno è il mio angelo custode fino al ponte fatto saltare all’ingresso della cittadina martire. Al ritorno, sani e salvi, i soldati mi regalano la scheggia di una granata di 10 centimetri: «È scoppiata vicino alla nostra postazione, ma siamo ancora vivi. Ti porterà fortuna».