Assuefatti all’emergenza, indifferenti a «quota 100 mila» vittime, prigionieri annoiati dentro un tempo che non passa mai. Dopo un anno di coronavirus, siamo preda di un’apatia psichica che, soprattutto nelle nuove generazioni, rischia di lasciare segni indelebili.
Siamo stanchi. Un anno è passato ed ecco l’eterno ritorno all’uguale di nicciana memoria. Apri, chiudi, apri e richiudi ancora. La luce al fondo del tunnel non si vede. E noi ci ritroviamo piallati come assi da stiro. Indifferenti, insofferenti a tutto, arresi, assuefatti anche agli oltre centomila morti. «Quello che stiamo vivendo è un mélange di tristezza, isolamento, un’ipostimolazione sensoriale e cognitiva. Tutto questo produce una sindrome melanconico-depressiva» spiega lo psichiatra Paolo Crepet, che anticipando tutti aveva raccontato il nostro smarrimento nel saggio Vulnerabili (Mondadori). «Ci portano il cibo sullo zerbino di casa, ci hanno tolto la voglia di vederci, il sesso non esiste più, ci pensa la tecnologia così non devi neanche sudare. Stando sempre davanti a un computer siamo diventati grassi, gobbi, drogati di caffè, rallentati. Faremo la gioia di dietologi e fisioterapisti. Di colpo ci ritroviamo vecchi. Ci hanno fottuti: buttato indietro nel Medioevo e nello stesso tempo proiettato nel futuro. Solo le emozioni fanno la differenza tra l’oggi e il domani. E ora non ci sono emozioni».
La verità, vi prego, sul Covid chiede lo psichiatra, parafrasando il celebre romanzo di Auden. «Se il ministro Speranza dice che tutti saremo vaccinati entro l’estate, per me è una sentenza. Ma mi chiedo: quando finisce l’estate, forse a ottobre? Speriamo che si faccia in tempo per salvare il turismo di cui vive questo Paese».
Nessuno ha più voglia di cantare le canzoni di Sanremo dai balconi, anche se Zitti e buoni dei vincitori Måneskin sembra il titolo perfetto per questo momento. «Non ho neanche la fantasia di cucinare, vado avanti con l’asporto» racconta una signora romana. La noia ci ha tolto le forze. Come diceva Nietzsche: «Contro la noia gli stessi dèi lottano invano». Ma ora arriva anche la nausea. Scrive Eric Chevillard, uno dei maggiori letterati francesi contemporanei, nel suo Sine die, Diario del confinamento (Prehistorica Editore): «Se la situazione dovesse perdurare, forse opteremmo istintivamente per la letargia dei rettili confinati nel terrario, acciambellati sul ramo come una corda tra un’impiccagione e l’altra».
Ci siamo sentiti dire: «Chiudiamo ora per fare un Natale sereno» (balla veneranda), ora toccherà a: «Chiudiamo a Pasqua per avere un bel Ferragosto». Ma il pensiero pessimista che serpeggia è: «Chiudiamo tutto per non riaprire mai». Un loop infernale. «Non ne possiamo più delle bugie. Se arriverà un altro lockdown non finalizzato a nulla, senza vaccinazioni giorno e notte, allora ci sarà una rivolta, anche morale» conclude lucidamente Crepet.
Ma adattarsi alle situazioni è una dote di noi umani. «Protesta solo una minoranza, gli altri da un anno si sono assestati senza più grandi speranze» dice il sociologo Vanni Codeluppi. «Nei primi tempi c’era un certo entusiasmo, mi sembra che tutto questo oggi si sia spento. Un anno è un tempo lungo, si perde la fiducia. E questa è la situazione peggiore. Oggi non crede più nessuno all’uscita dal tunnel. Il sentimento prevalente è lo sconforto». Eppure nessuno conosce il futuro con certezza scrive il sociologo nel suo ultimo saggio Come la pandemia ci ha cambiato (Carocci): «Penso che questa situazione durerà ancora parecchio tempo, probabilmente si ridurranno gli effetti, avremo forse maggiore libertà di movimento, ma sempre con dei limiti. Più passa il tempo, più la gente si abituerà». Mentre aspettiamo che l’abitudine ci possieda totalmente sembriamo belve in gabbia. Stufi di tutto. Nelle strade dello shopping, prima delle ennesime chiusure, la gente si ammassava, camminando come in trance e fermandosi raramente nei negozi. Solo un continuo avanti e indietro, come durante l’ora d’aria.
Spiega Mariano Bella, direttore dell’Ufficio studi di Confcommercio: «I consumi sono calati drammaticamente nell’ultimo anno. Una caduta record del 10,7 per cento. Bisogna ritornare al 1944 per trovare una situazione simile. Sono stati bruciati 129 miliardi: vestiario e calzature hanno fatto meno 20,9 per cento, i servizi culturali e ricreativi hanno registrato un calo del 29,6. Comunque gli italiani hanno sempre sostenuto l’economia, anche negli anni di recessione. Ma se questa incertezza dovesse prolungarsi nessuno può essere sicuro che la potenziale voglia di consumare rimanga intatta con il passare del tempo. Ci potrebbe essere una frattura violenta e repentina se questa situazione non finisce».
Per ora la stanchezza prevale sul desiderio di consumare. «C’è un logoramento collettivo» osserva Gian Vittorio Caprara, psicologo e professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza. «Eppure l’atteggiamento positivo è un elemento di protezione nei confronti delle avversità. I positivi sono quelli che sanno come fare fronte a tutto ciò che la pandemia può comportare. Questo atteggiamento va rafforzato, coltivato. È un approccio che mira a utilizzare al meglio le risorse che si hanno e ad attenuare per quanto possibile i danni, i costi delle avversità e gli ostacoli che incontriamo. Alcuni sono più attrezzati di altri».
I giovani sono sicuramente quelli meno attrezzati, come spiega Tito Baldini, psicoanalista, membro della Società psicoanalitica italiana e dell’Associazione romana per la psicoterapia dell’adolescenza: «La situazione è drammatica, siamo in presenza di una pandemia psichica che sta colpendo soprattutto gli adolescenti e lascerà segni nelle generazioni a venire con conseguenze gravissime. I ragazzi non hanno più un corpo dove rappresentare il loro dolore. E stanno tragicamente riempendo i Pronto soccorso e gli obitori. Abusano di droghe e alcol. Dilaga la pornografia online perché gli è stata tolta la sessualità e a quell’età non è possibile farne a meno. Non studiano più, si stordiscono per non pensare a giornate senza ore, gettati sul divano. I nostri ragazzi si stanno ammalando in modo profondo. Sono i più fragili e sarebbe meglio che i vaccini andassero prima a loro. Hanno bisogno di essere protetti, rimandati a scuola e che siano riaperte le varie attività aggregative. Il loro trauma psichico lo subirà tutta la società. Così oltre a riparare il danno economico ci troveremo davanti uno pesantissimo della mente. Invece sento un assordante silenzio, ma ricordiamoci: le generazioni traumatizzate hanno creato il terrorismo».
Oggi il loro disagio emerge potente nei pestaggi di massa, nelle maxi risse che ricordano un violento Fight Club, nel desiderio di annullarsi e dimenticare. In questo inebetimento generale nessuno ha il coraggio di nominare l’estate.
La sociologa Lella Mazzoli, direttore dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, riflette: «Lo scorso anno a marzo avevamo una visione in prospettiva: a luglio saremmo andati al mare. Ora non è più così. Con questo rimando continuo, i colori che cambiano, ormai abbiamo tutto l’arcobaleno, le contrapposizioni continue, ci hanno gettato in un perenne stato d’ansia. Questa altalena ci ha appiattiti».
Siamo terrorizzati dalla sofferenza, da tempo abbiamo rimosso la morte dalle nostre vite e ora la paura del dolore ci ha svuotato: «Gli scienziati, che ci avevano convinti delle magnifiche sorti e progressive della scienza, hanno detto tutto e il contrario. E oggi li vediamo spaventati, ipocondriaci, sentiamo la loro paura che ci rende ancora più fragili. Eravamo i padroni della terra, ora tremiamo» spiega lo psichiatra Piero Cipriano, autore de Il libro bolañiano dei morti (Milieu Edizioni), narrazione di questo anno di virus. «Il modello biopolitico europeo basato sul controllo dei corpi (confinamento in casa, controlli militari nelle strade) ha definitivamente perso rispetto a quello psicopolitico asiatico basato sul controllo delle menti (telecamere, riconoscimento facciale, app, sistema di credito sociale). Si prospetta una sorta di “cinesizzazione” dell’Occidente, a cominciare dal passaporto vaccinale».
Una prospettiva che si concilia perfettamente con lo slogan coniato sui social per le nuove clausure: «Andrà tutto da schifo». n
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