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Covid: tanto plexiglass per nulla

Covid: tanto plexiglass per nulla

Raccomandazioni, protocolli e troppi discorsi sulla sanificazione degli ambienti hanno costretto negozi, ristoranti, palestre e altri spazi all’acquisto di barriere in plastica. Ma, dicono gli scienziati, potrebbe essere stato più o meno inutile.


Barriere di plastica trasparente tra i banchi di scuola. Paratie di plastica trasparente negli uffici. Muri di plastica trasparente nei ristoranti. E poi teatri, negozi, bar, mezzi pubblici, addirittura in spiaggia tra un ombrellone e l’altro… Con l’arrivo del coronavirus, in Italia non si vede altro che polimetilmetacrilato, in breve Pmma, per tutti plexiglass (che è il suo nome commerciale più noto).

Inventato nel 1928 e usato nel corso del tempo per i cupolini degli aerei da caccia, poi per le prime lenti a contatto, per i fanali posteriori delle auto, per rimodellare ossa ammaccate, oggi il «polimero termoplastico» più trasparente del vetro abbonda nelle nostre vite come divisorio per evitare la diffusione di Sars-Cov-2.

Questo, secondo le indicazioni sulla sicurezza e l’igiene pubblica circolati in mezzo mondo a partire da marzo 2020, cui l’Italia si è accodata con raccomandazioni, protocolli, caos vari sulle famigerate «barriere parafiato» che qualcuno considerava obbligatorie e qualcuno no, mentre l’ex ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina voleva schermi a più non posso tra un banco a l’altro, anche se poi è andata diversamente.

Oggi, dopo le tonnellate di plastica che hanno invaso le nostre vite, si comincia a capire che – semplicemente – sono servite poco o niente a proteggerci dal virus. «Le barriere in plexiglass sono più un dispositivo psicologico che sostanziale» dice Livio Mazzarella, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale al Politecnico di Milano. «Funzionano un po’ per le goccioline di saliva chiamate droplet, ma che costituiscono il rischio inferiore. Il problema principale, oggi finalmente si sa, è la trasmissione attraverso l’aerosol. D’altro canto» continua Mazzarella «quando si parla di sanificazione sono stati venduti tanti oggetti senza che ci fosse la minima dimostrazione scientifica che funzionassero, come gli apparecchi a ozono che si diceva sanificassero l’aria».

«Io vorrei sapere quanti soldi si sono spesi per la sanificazione, inutilmente. Quanti? Tutti buttati, non è servito a niente» conferma Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale presso l’Università di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane, Australia. «Quando si è iniziato ad affrontare l’emergenza nei primi mesi del 2020, l’errore clamoroso è stato quello di non avere incluso specialisti di altre aree, oltre a quella medica, per comprendere cosa succedeva. Ma quando una gocciolina si forma ed esce dalla bocca di un soggetto, i medici non sanno descrivere il percorso che fa. Il Comitato tecnico scientifico avrebbe dovuto includere le giuste competenze ingegneristiche, e invece…».

I due professori sono entrambi firmatari, insieme a un’altra trentina di scienziati, di un articolo recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, in cui si è chiesto un cambio di paradigma nel controllo della qualità dell’aria degli ambienti interni. Una presa di posizione arrivata dopo che sia l’Organizzazione mondiale della sanità, sia i Centers for disease control and prevention statunitensi, hanno riconosciuto che il virus si trasmette per via aerea quanto e più che attraverso i droplet.

«Questo fa comprendere come tutte le misure di protezione siano state largamente insufficienti se non inutili, fino ad arrivare a ipotizzare l’uso di plexiglass in spiaggia che è semplicemente ridicolo» sentenzia Buonanno. «Sull’articolo di Science sosteniamo che se sappiamo misurare quanto virus esce dal soggetto, e lo sappiamo fare, allora sappiamo ingegneristicamente eliminare quel virus dall’aria rendendo più sicuri gli ambienti chiusi. Sarebbe l’ora di considerare l’aria come l’acqua che esce dal rubinetto, che grazie a sistemi di filtraggio arriva pulita nelle case».

La tesi è confermata dal professor Joseph Allen della Harvard T.H. Chan School of public health, una delle migliori scuole mediche al mondo, per il quale nessun studio ha mai dimostrato l’utilità delle barriere in plexiglass contro la diffusione del virus. Come ha recentemente dichiarato a Bloomberg, multinazionale delle news: «Abbiamo impiegato un sacco di tempo e soldi nel tentativo di creare ambienti sufficientemente igienici, ma non abbiamo indirizzato tutte queste attenzioni alla vera minaccia, cioè alla trasmissione per via aerea» ha detto Allen, specializzato proprio nello studio dell’aria negli ambienti interni.

Non solo: i divisori potrebbero addirittura essere stati nocivi per la trasmissione del virus. Lo afferma uno studio pubblicato in aprile sempre su Science, mentre una ricerca giapponese citata da Bloomberg avrebbe collegato le barriere in plastica all’insorgenza di infezioni in ambienti con scarsa ventilazione. «L’evoluzione potrebbe essere la cosiddetta “ventilazione personalizzata”, su cui si lavora da anni ma che adesso è diventata importantissima» dice ancora Mazzarella. «Applicando due bocchette per l’areazione in prossimità del soggetto, una “di mandata” e una “di ripresa”, si creerebbe circolazione d’aria all’interno del box grazie alla quale l’aerosol espulso da una persona non arriverebbe agli altri. In questo caso sì, il plexiglass sul posto di lavoro servirebbe».

È passato un anno e mezzo dallo scoppio della pandemia e nel frattempo il business delle materie plastiche destinate a divisori è fiorito. Negli Stati Uniti le vendite sono triplicate fino a raggiungere circa 750 milioni di dollari di fatturato, mentre in Italia – dove i dati del settore sulle vendite non sono così precisi – si può dire che i prezzi sono aumentati almeno del 30%. «Ormai anche aziende che prima si occupavano di tutt’altro si sono messe a fare questo tipo di supporti drogando anche il mercato» spiega a Panorama Andrea Sironi, direttore generale di Sunclear, leader europeo nella distribuzione dei semilavorati plastici, tra cui le lastre con cui si fanno le barriere parafiato. «E i prezzi non scenderanno perché da una parte si è arrivati alla carenza di materia prima, dall’altra Cina e Stati Uniti hanno una fortissima domanda».

C’è da chiedersi cosa ne sarà di tutta questa plastica che ci riempie la vita. «Fortunatamente il monomero dalle lastre si può riciclare con facilità. Prima o poi si assisterà a una grande corsa al recupero, vedrete» dice Sironi. E almeno questa è una buona notizia.

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