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Noi, figli di un bio minore

Noi, figli di un bio minore

Il Green new deal, il piano Ue per l’alimentazione «corretta», è un attacco all’agricoltura di qualità. Non solo: il Nutri-score, l’etichetta a semaforo, boccia i prodotti sani come il Parmigiano e promuove le bibite piene di dolcificanti.


Com’era verde la mia Europa. Più che un programma politico continentale pare uno slogan pubblicitario, ma pare che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen abbia una sorta di sindrome ecologista. È iniziata la grande trattativa sulla Pac – Politica agricola comune – che deve valere fino al 2027, ma l’accordo è lontanissimo.

Perché Ursula vuole offrire agli europei un piatto sostanzialmente vegano e i Paesi mediterranei invece insistono per difendere le coltivazioni tradizionali. La leader Ue forse pensa ai verdi tedeschi, che ce l’hanno con gli allevamenti di maiali dove gli operai lavorano quasi in schiavitù, dove si annida il coronavirus e dilaga la peste suina, ma dovrebbe farsi una passeggiata tra le spighe del grano marchigiano.

La traduzione del sogno verde della von der Leyen – elettoralmente interessato pensando a casa propria – si chiama Green new deal. Tradotto, una batosta per le campagne italiane e la distruzione della biodiversità e delle produzioni di specialità. È il paradosso del «nuovo accordo verde» continentale applicato all’agricoltura: strizzando l’occhio al veganesimo, dicendo che bisogna invertire il trend del cambiamento climatico e che vanno premiate le estensioni verdi, rischia di fare un gran favore alle multinazionali e di condannare a morte economica migliaia d’imprese agricole e artigiane del gusto.

Questo settore italiano ha una produzione lorda vendibile di 60 miliardi, con 950.000 occupati. Con l’agroalimentare produciamo circa 180 miliardi di fatturato con qualcosa meno di 500.000 addetti, abbiamo più Dop e Igp di tutti, l’export dei nostri primi 200 prodotti vale 38 miliardi, ma potremmo arrivare a 80. La nostra è l’agricoltura a maggiore valore aggiunto, i terreni costano da tre a quattro volte tanto che nel resto d’Europa (in Italia un ettaro vale sui 18.000 euro, a in Francia ne vale 6.000).

Uno studio dell’Ismea rivela che se, in media, nell’Ue le attività secondarie (agriturismo, energie rinnovabili) e i servizi (tutela del territorio) incidono per il 3,8 e il 4,8%, in l’Italia si sale all’8,2 e all’8,8%. Sul bio abbiamo oltre 2,1 milioni ettari in coltivazione, con incrementi costanti del 3% all’anno, e il 15% della superficie coltivata in Italia è a regime biologico, il doppio della media europea. Le aziende certificate del comparto sono oltre 80.000. È un primato assoluto in Europa, dove il mercato del «naturale» vale circa 27 miliardi e dove l’Italia da sola ne fa oltre cinque. I generi più richiesti sono frutta (23,2%), ortaggi (19,2) e derivati dei cereali (17,1) proprio quelli che il New green deal vuole limitare per far spazio alle fasce boscate.

Il blocco del Nord insiste però per far passare il Green new deal così come è stato concepito, e non accedere al modello italiano: boschi estesi, contributi a chi abbassa «l’impronta carbonica», premio al pascolo e non alla coltivazione mediterranea. Ma il vero scontro si gioca su di un «cavallo di Troia» che le multinazionali dell’agroalimentare hanno piazzato nella fortezza della difesa delle produzioni di specialità: il Nutri-score. È la famosa etichettatura a semaforo ideata da nutrizionisti francesi a capo dei quali c’è l’epidemiologo Serge Hercberg.

Questo sistema ha però un difetto: si basa sulle sostanze contenute degli alimenti in rapporto a possibili malattie quali cardiopatie, obesità, diabete; ma senza misurare né le quantità, né tenendo conto delle abitudini alimentari. Così una Coca-Cola light, prodotta con i dolcificanti di sintesi, ha bollino verde, mentre un prosciutto di Parma o di San Daniele ha quello rosso.
Però piace tanto al politically correct europeo e si va verso un’adozione nella Comunità dell’etichetta a semaforo intesa come «informazione sintetica al consumatore». Peccato sia fuorviante.

Lo sostengono sei Paesi con l’Italia in testa (con noi ci sono Cipro, Lettonia, Romania, Grecia e Repubblica ceca) che con la ministra Teresa Bellanova, come già prima con Gian Marco Centinaio, ha provato a frenare il Nutri-score chiedendo che non sia applicato ai prodotti Dop e a quelli mono-ingrediente: come l’olio extravergine d’oliva, il prosciutto, il Parmigiano e il Grana padano e tutti i formaggi italiani che sono sotto un attacco pesantissimo. Con il rischio ulteriore, se avanza l’offensiva vegana nel Green new deal, di non avere più latte per produrli.

Il Nutri-score, raccomandato dall’Ue, sta per diventare legge in Germania. Ufficialmente perché la von der Leyen, insieme a Janusz Wojciechowski, il commissario all’Agricoltura, vuole imporre la dieta più sostenibile possibile. Significa strizzare l’occhio a vegani e vegetariani partendo dalla bufala che gli allevamenti animali intensivi – ce ne sono soprattutto in Germania dove appunto è esploso prima il Covid e ora la peste suina, con Berlino che non può più esportare carne di maiale per oltre 5 miliardi in Cina – sono i primi responsabili dei danni ambientali. Ma la verità forse è un’altra.

Danone e soprattutto Nestlé – la più ricca multinazionale dell’agroalimentare (ha un fatturato sui 90 miliardi, 4.000 marchi e vende dall’acqua minerale San Pellegrino al cibo per cani) premono perché il Nutri-score diventi legge. Il motivo? Vendere con l’etichetta a semaforo distoglie il consumatore dall’origine del prodotto e lo invita ad avere comportamenti compatibili con gli interessi della multinazionale. Il ceo di Nestlè Ulf Mark Schneider – non a caso tedesco – spinge la compagnia a diventare una «health company», producendo alimenti funzionali e integratori. E ai vegani bisogna vendere molte vitamine e proteine di sintesi.

Dietro l’offensiva vegana all’alimentazione onnivora, dunque, si nascondono interessi colossali. Come la pianta della quinoa. È indispensabile per i vegani (offre proteine) ma ha ridotto in miseria i peruviani che se ne cibano da millenni. Secondo l’Unicef, il 19,5% dei bambini peruviani oggi soffre di malnutrizione perché la quinoa è decuplicata di prezzo e non ce n’è più per gli abitanti del Paese sudamericano. Lo stesso vale per gli anacardi, indispensabili per fare gli pseudo-formaggi che il Nutri-score premia col bollino verde mentre condanna il Pecorino romano. Gli anacardi si producono in Vietnam, dove agli agricoltori vengono riconosciuti due euro al giorno.

Il politically correct alimentare ha inciso anche in Paesi come la California, primo produttore di mandorle al mondo. Ebbene per ottenere una mandorla servono quattro litri di acqua, e oggi la California è a secco. I luoghi comuni sul consumo di carne che prosciuga le fonti vanno quindi rivisti, però continuano a permeare la politica agricola comunitaria. Chi ci rimette? Sicuramente l’Italia, che invece del Nutri-score vorrebbe le etichette di origine.

Ma l’Europa non ci sente perché significa cambiare i rapporti commerciali. Come col grano. In Italia si sta affermando l’idea di produrre pasta da solo grano italiano (quello duro) ma gli accordi internazionali – come il Ceta, quello con il Canada che piace tanto all’Europa del Nord – potrebbero soffrirne. Così rischiamo di non avere più contributi sul grano da parte dell’Europa. Eppure siamo ancora un Paese deficitario: produciamo grano per quattro milioni di tonnellate e ci bastano solo per cinque mesi. Ma continuiamo a perdere produzioni cerealicole perché le nostre sono bio e si coltivano collina; quelle degli altri sono intensive e si estendono in pianura.

Ecco un’altra contraddizione: si vuole introdurre il Nutri-score ma di bloccare il glifosato (un diserbante tossico) non se ne parla. Sarà un caso che a produrlo sia la Monsanto comprata quattro anni fa dalla Bayer tedesca per 66 miliardi? Forse è vero che siamo figli di un bio minore.

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