In Ungheria una potente cosca aveva preso il controllo di un istituto di credito per investire in criptovalute e riciclare i soldi della droga. Così le associazioni mafiose calabresi si dimostrano al passo con i tempi, tra monete virtuali, affari sporchi e truffe internazionali.
La Wall Street della ’ndrangheta si trova in un elegante palazzo di via Szent István, la strada alberata che attraversa, come una vena pulsante, il cuore di Budapest, in Ungheria. Da queste parti Giovanni Barone passava di tanto in tanto a incontrare il suo avvocato, Edina Szilágy. Un’avvenente professionista specializzata in diritto commerciale e con buoni agganci con il mondo imprenditoriale italiano.
Barone è l’uomo d’affari che la Procura di Catanzaro ha arrestato, poche settimane fa, con l’accusa di aver messo insieme un impero milionario in combutta con la cosca capeggiata dal superlatitante Pasquale Bonavota. Diventato oggi, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, il nuovo «nemico pubblico numero uno» della giustizia italiana. «’Ndrangheta evoluta», l’ha definita il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che si «posiziona a un livello superiore rispetto all’articolo 416 bis» e che, partendo da un paesino della Calabria, «riesce ad avere un respiro internazionale». In Ungheria, dicono le carte dell’inchiesta che ha portato in manette 25 indagati (tra cui la Szilágy), la cosca aveva preso il controllo di un istituto di credito per investire in criptovalute e riciclare i soldi sporchi della droga provenienti dall’Aspromonte. Un sistema, spiega un investigatore a Panorama, che «neutralizza qualsiasi tipo di indagine patrimoniale. Le monete virtuali viaggiano in un universo parallelo a cui noi non abbiamo accesso». La banca della ’ndrangheta aveva inoltre programmato l’acquisto di una «quantità indefinita» di bolivar venezuelani che solo per un problema tecnico non è andato a buon fine. Un tesoretto da conservare dall’altra parte dell’Atlantico per ogni necessità.
Le informative descrivono Barone come un prestidigitatore in grado di far sparire il denaro nel cappello di un reticolato di società che dominavano il mercato europeo, e non solo. Con la cartiera Slm marketing, per esempio, stampava a ritmi forsennati false fatture per compensare i fatturati delle altre aziende del gruppo, è l’accusa dei pm calabresi. Con le sigle inglesi e danesi, invece, acquistava e gestiva beni in giro per il mondo, tra cui lo yacht «Nelly Star», così chiamato in omaggio della sua prima moglie. Con i trust a Cipro, infine, andava a caccia di imprenditori in difficoltà a cui offrire aiuto con l’obiettivo poi di trasformarli in prestanome o in suoi «spicciafaccende». Barone non si nascondeva, a differenza dei profitti che macinava in nome e per conto, sostengono i magistrati, della cosca di Sant’Onofrio. Per Pizzo Calabro – in provincia di Vibo Valentia – dove possiede una villa faraonica, era solito farsi vedere al volante di una costosissima Bentley che guidava fino a Cortina, dove trascorreva le vacanze natalizie con amici e familiari.
Nel febbraio 2022, invece, era seduto nelle primissime file del Teatro Ariston di Sanremo per presenziare alla messa laica del Festival. Un po’ uomo d’onore un po’ viveur. Gli investigatori hanno scoperto l’esistenza e l’operatività di una decina di società a lui riconducibili direttamente o indirettamente, tra cui la britannica 6 Degrees Uk limited (che in due operazioni ha movimentato 500 mila euro sui conti correnti danesi per non meglio chiarite operazioni finanziarie) e le ungheresi Demetra kft, Luxury re kft, Maensi costruction kft, Ares properties kft e, soprattutto, la Veritas menedzement kft.
Specchietto per le allodole utilizzato per truffare tre milioni di euro a un gruppo di sceicchi dell’Oman, compreso un viceministro, interessati a rilevare il 30 per cento della società «al solo scopo», scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, «di acquistare, sviluppare e vendere il Dohany Residences di Budapest». Un complesso residenziale di lusso che si trova accanto alla Grande sinagoga e a poche centinaia di metri dal Teatro dell’Opera. I soldi degli arabi, invece, sono finiti direttamente sui conti correnti dei fiancheggiatori di Barone lasciando ai sultani solo la minaccia di una ritorsione legale. Ma di questo reato, Barone e la sua banda non hanno dovuto rispondere. «Per effetto della riforma Cartabia sarebbe stata necessaria la querela della parte offesa e non siamo riusciti a rintracciarla» ha spiegato Gratteri. L’Oman, infatti, «non fa parte del trattato di Schengen per cui non c’è un accordo bilaterale» di collaborazione e dunque la strada della rogatoria internazionale per far firmare l’esposto «ci avrebbe fatto perdere molto tempo».
L’ultimo colpo della gang, prima degli arresti, è stato portato a termine con una impresa francese, la Capitalisation et exploitation financière, che ha acquisito il 90 per cento del capitale della Immobiliare S&L – Fc srl, con sede in Milano, «attiva nella costruzione di edifici residenziali» e scelta solo perché «proprietaria di un terreno agricolo sito nel comune di Briatico (sempre in territorio vibonese, ndr), nonché di un fabbricato a più piani in corso di costruzione, sito nel comune di Pizzo Calabro». Perché Budapest sarà pur sempre la capitale dove girano i soldi, ma la Calabria è la terra dove devono tornare.