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Massimiliano Latorre e Salvatore Girone al tribunale di Kollam, in India, il 2 giugno 2012 (Ansa).
Inchieste

Marò, fine dell’odissea

Dopo dieci anni è finalmente archiviato il procedimento per accusa di omicidio contro i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, nell’attacco alla petroliera Enrica Lexie. Agli atti, che Panorama ha esaminato, restano però molte zone d’ombra. Soprattutto nell’inchiesta svolta dalle autorità indiane.


Quello che non può realisticamente essere messo in dubbio riguarda la chiarissima e oltremodo motivata convinzione dei marò di trovarsi in presenza di un attacco dei pirati» scrive il 28 gennaio il giudice per la indagini preliminari Alfonso Sabella nel decreto di archiviazione dell’inchiesta italiana su Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La fine di un’odissea durata dieci anni, da quando i fucilieri di Marina del reggimento San Marco sono stati accusati di avere ucciso due pescatori indiani, Valentine Jelestine e Aiesesh Pinku, il 15 febbraio 2012, al largo delle coste indiane mentre scortavano la petroliera italiana Enrica Lexie.

Panorama ha esaminato le carte che evidenziano incongruenze nelle ricostruzioni degli indiani, sulle perizie balistiche, dubbi sulla presenza o reale intenzione del peschereccio St. Anthony e incognite che resteranno tali. La certezza, secondo il magistrato, è che «il caso va comunque ricondotto all’esercizio della legittima difesa, almeno, putativa (presunta, ndr) e tutt’al più, a un eccesso colposo (...) che sarebbe definitivamente prescritto».

Per questi motivi il procedimento giudiziario è stato archiviato, rendendo infine la serenità ai marò: sono stati in carcere per tre mesi, bloccati in libertà vigilata nell’ambasciata italiana per quasi quattro anni e con il rischio di una condanna a morte, secondo la legge indiana.

«15 Febbraio 2012 - 31 Gennaio 2022 F I N E !!!!!» scrive a caldo sulla sua pagina Facebook il capo di prima classe Latorre. «Oggi mi sono svegliato per il primo giorno da Uomo e Militare libero» continua il marò. E aggiunge: «Questa archiviazione equivale a una Piena assoluzione (...). È per me un grande riconoscimento, perché ho sempre detto la verità!». Latorre, dopo l’ictus che l’ha colpito in India, non è più operativo al San Marco, ma lavora in un ufficio dello Stato maggiore della Difesa a Roma.

Girone è a Bari in Capitaneria di porto, ma sul profilo Facebook pubblica un post che non risparmia punzecchiature: «Si chiude un capitolo della mia vita dal peso non indifferente che ha lasciato in me grosse ferite ancora aperte nei confronti di un sistema in cui credevo molto. (...) l’incompetenza politico-diplomatica che inizialmente ha mal gestito la nostra vicenda non ha mutato il mio essere riconoscente e credere ai valori etici e morali del nostro Paese».

A pagina 2 del decreto di archiviazione, il primo dubbio: «Emerge come, sulla corretta ricostruzione dei fatti, sussistano (...) contrasti tra quella operata dalle autorità indiane (...) e quelle emergenti dagli atti (…) nel presente procedimento con particolare riferimento al fatto che fosse il peschereccio St. Anthony (...) l’imbarcazione verso cui Latorre e Girone avrebbero comunque diretto gli spari».

Sabella ricostruisce nei dettagli il caso basandosi soprattutto sulle testimonianze di Latorre, sia recenti che del lontano 2012 e 2013, confermate dagli altri marò della squadra di protezione a bordo e dall’equipaggio. Il 15 febbraio 2012, alle 16,25, ora italiana, a 22 miglia da Allepey, in acque internazionali, scatta l’allarme sulla nave Lexie per «una barca priva di numero identificativo (...) che si stava avvicinando in rotta di collisione alla petroliera».

L’area è a rischio pirati e Latorre con Girone si attivano, «conformemente alle regole d’ingaggio», con segnali luminosi e facendo vedere le armi sopra la testa. L’imbarcazione non cambia rotta e allora vengono utilizzate le sirene. Senza successo. «Quando il natante era a 500 metri io e Girone abbiamo sparato 4 colpi ciascuno di cui i primi 3 traccianti che sono ben visibili sempre» testimonia Latorre. «Girone che osservava con il binocolo mi disse che a bordo vi erano persone armate». I marò sparano altre due raffiche si avvertimento e, solo a 100 metri dalla nave, l’imbarcazione riprende il largo.

Latorre è «certo» che i colpi «sono caduti tutti» in mare «perché sollevano una colonna d’acqua». Un fuciliere di Marina scatta tre foto al natante, ma in lontananza. I marò e gli ufficiali della nave sono convinti non si tratti del St. Anthony, che più tardi arriverà in porto a Cochin con i cadaveri dei due pescatori a bordo.

Anche il pubblico ministero, Erminio Amelio, non è persuaso che fosse davvero il St. Anthony il natante affrontato dai marò. Tutto si basa sulla denuncia del proprietario, Freddy, ma «l’incertezza e l’impossibilità di effettuare ulteriori accertamenti (...) sull’identità dell’imbarcazione che puntava contro l’E. Lexie è un altro elemento che induce a escludere la responsabilità del delitto (di omicidio, ndr) contestato agli indagati».

Fabio Anselmo, legale di Latorre, osserva con Panorama che «la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero probabilmente ha un’impronta ancora più netta verso la totale estraneità dei marò». Al contrario, l’ammiraglio di divisione Alessandro Piroli, incaricato dalla Marina di indagare, mettendo a confronto le foto scattate dalla nave e il peschereccio sostiene che «si può osservare una stretta compatibilità tra le descrizioni e le immagini dei due natanti».

Le carte dell’inchiesta confermano anche la trappola degli indiani, che chiedono alla nave di tornare indietro inventandosi la storia dell’identificazione dei pirati. L’armatore acconsente e nessuno si oppone da Roma. «Come sarebbe risultato palese successivamente, quella richiesta delle autorità marittime indiane in realtà costituiva un mero stratagemma per far giungere nelle loro acque territoriali la Enrica Lexie in quanto non corrispondeva a verità la notizia del fermo di due imbarcazioni sospette di pirateria» scrive Sabella. Così i marò vengono arrestati e restano in carcere per tre mesi.

Un’altra zona d’ombra è la perizia balistica indiana, la quale indica compatibili con il calibro 5,56 i proiettili che hanno ucciso i pescatori. Il Gip evidenzia come la perizia «risulti alquanto sintetica e non segnali in alcun modo come si sia giunti alle conclusioni». Non solo: mancano le foto al microscopio, le rigature dei proiettili e altri dettagli cruciali.

Un dato inquietante è che i proiettili mortali sarebbero stati esplosi dai fucili mitragliatori AR 70/90 in dotazione ad altri due marò della squadra anti-pirateria. Il pubblico ministero sottolinea che, nonostante numerose rogatorie, le autorità di Delhi «non hanno ritenuto di trasmettere i relativi reperti» in mano agli indiani.

Ennesimo «buco nero» cui si somma un’altra ipotesi sul peschereccio, ossia che: «la sconsiderata manovra di avvicinamento alla Enrica Lexie fosse, invece, finalizzata a porre in essere atti di pirateria». A bordo si trovavano 11 persone, troppe per le dimensioni dell’imbarcazione; e l’alto numero di parabordi, che al momento del ritorno in porto non c’erano più, è «compatibile con un proposito di abbordaggio». L’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi, dimessosi per protesta quando il governo Monti rimandò i marò in India, non ha dubbi: «È confermato che le prove non ci fossero. Ma Latorre e Girone sono rimasti dieci anni con una spada di Damocle che pendeva sulla testa».

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Fausto Biloslavo