La foto di un uomo con il volto nascosto dalla kefiah, fucile automatico in spalla e cartucciera, occupa mezza pagina. Accanto a lui, il titolo di grande dimensione declama: «Islam doesn’t mean peace…», Islam non significa pace. È solo uno dei servizi apparsi sull’ultimo numero di Sawt al-Hind, giornale a suo modo patinato rivolto ai musulmani del Subcontinente indiano ma che riscuote successo ovunque, tra chi si sta radicalizzando. Perché mentre siamo distratti dal Covid-19, il mondo della jihad, la guerra santa degli integralisti islamici, non si ferma. Sobbolle, comunica e, forte delle infinite possibilità offerte dalla tecnologia, moltiplica la sua capacità di recapitare articoli che istigano a spargere sangue in nome di un «bene più alto», l’avvento del regno di Allah sulla Terra.
Ancora oggi il media «principe» per trasmettere messaggi di questa natura rimane il giornale. Gli jihadisti in passato hanno pubblicato magazine diventati famosi e oggi chiusi. Inspire per esempio, che nel 2010 promosse la svolta della «jihad open source»: ciascuno poteva diventare attentatore in autonomia seguendo poche semplici istruzioni. Costruire ordigni usando una pentola a pressione (titolo: «Come fare una bomba nella cucina di tua mamma»), noleggiare un’auto e investire le persone, far saltare in aria gli edifici. Oppure Dabiq, che pubblicò un manifesto inneggiante allo scontro di civiltà e influenzò Mohamed Lahouaiej-Bouhlel nel compiere la strage di Nizza del 2016: 86 persone falciate con un camion sulla Promenade des Anglais. Tra il 2016 e il 2017 c’è stato anche Rumiyah (Roma, intendendo la presa della città eterna come conquista della civiltà occidentale) che consigliava di armarsi di coltelli, facili da usare e nascondere.
alcuni giornali cartacei inneggiantin alla jihad

I giornali citati sono stati individuati dalle polizie del mondo e infine hanno chiuso i battenti. Oggi non fanno più notizia, né loro né quelli nuovi, anche perché la sconfitta nel 2019 dell’autoproclamato Stato islamico, con la morte del suo califfo Abu Bakr Al-Baghdadi, dà l’impressione che non abbiano senso. Niente di più sbagliato. Le parole della jihad sono tornate in varie pubblicazioni e grazie alla tecnologia rimbalzano di computer in computer, di cellulare in cellulare, ai quattro angoli della Terra.
«Innanzi tutto i giornali chiusi anni fa si trovano ancora facilmente sui social o nel deep web, se vuoi davvero cercarli come lo vuole chi sente l’attrazione della jihad» dice a Panorama Jonathan Matusitz, docente presso la Central Florida University il cui sesto libro sul tema, appena uscito, si intitola Communication in global jihad (Routledge). «Quelle parole non hanno una durata come accade per i quotidiani occidentali. Sia perché contengono istruzioni ancora valide su come costruire bombe, sgozzare o investire la gente sia perché l’ideologia è ancora quella: convincere la comunità islamica globale, la cosiddetta Ummah, a partecipare alla jihad. Se sei un vero musulmano, sostengono, sei obbligato a commettere atti terroristici contro gli infedeli e contro coloro che vengono definiti “apostati”, cioè gli islamici moderati che ancora non uccidono in nome di Allah».
E questo ci porta al titolo di cui parlavamo all’inizio. Islam non significa pace. «Infatti, si traduce con “sottomissione”» ricorda Matusitz, «quella dei musulmani ad Allah e quella dei non musulmani ai musulmani, per un nuovo ordine mondiale che obbedisca alla sharia, la legge sacra islamica».
Dunque ci sono giornali «vecchi» ma sempreverdi, e giornali nuovi. «Ne esistono di ufficiali, pubblicati da organizzazioni jihadiste, e di non ufficiali, pubblicati da varie entità di sostegno alla lotta islamica» spiegano a Panorama i ricercatori del Middle East Media Research Institute – Memri – che si occupa tra l’altro di monitorare la minaccia terroristica della jihad scovandone le pubblicazioni. «Citiamo Al-Naba, il settimanale ufficiale dello Stato islamico, creato dal suo “Central media bureau”, oppure Sumoud, mensile dei talebani. Come mensile è anche la testata dei sostenitori dell’Isis in Kashmir: Sawt al-Hind» (che è il giornale citato all’inizio dell’articolo).
Ricordiamo ancora Mujalla Tehreek-e-Taliban Pakistan (in un recente articolo ha incolpato della pandemia «gli ebrei e i loro pupazzi»), o Al Risalah, Al Fath e soprattutto One Ummah, il magazine ufficiale di Al-Qaeda che in settembre aveva minacciato di punire chiunque mostrasse nuovamente le vignette di Charlie Hebdo (infatti il professore che le aveva tirate fuori in classe, Samuel Paty, è stato decapitato da un diciottenne ceceno che non andava neanche in moschea ma passava molto tempo sui social).
Un’altra pubblicazione di successo è Gaidi Mtaani, composto e diffuso dalle menti di Al Shabaab, gruppo terrorista molto attivo in Somalia e Kenya. Tra i giornali non ufficiali il più recente è Wolves of Manhattan, edito dal gruppo qaedista Jaysh Al-Malahem Al-Electroni, e Balagh, mensile pubblicato in Siria da un circolo di religiosi il cui scopo è genericamente quello di sostenere la jihad.
È sempre il Memri a spiegare come prendono forma questi periodici. «A scrivere possono essere religiosi, sceicchi o leader, ma di solito non si firmano gli articoli, né si sa dove vengono pensati e assemblati, la loro struttura però è sempre più o meno simile. C’è un editoriale che dà la linea sull’attualità; un racconto dei fatti accaduti secondo il loro punto di vista; un approfondimento; un articolo su questioni spirituali e teologiche, per esempio come si giustifica un attacco suicida davanti a Dio. Segue una sezione che commemora i martiri e inneggia alla gloria del sacrificio della propria vita».
Infine, una parte pratica: «Pubblicano un po’ di manuali fai-da-te: navigare su internet senza farsi individuare, sfuggire ai droni, dare fuoco ad auto e foreste dove si trovano abitazioni, costruire ordigni».
Di pubblicità non ce n’è ma sono inseriti poster con infografiche a sintetizzare il pensiero jihadista. «Una volta composto, il giornale è trasformato in pdf» proseguono gli esperti del Memri «e caricato on line su siti di condivisione file, come archive.org o 4shared.com, dopodiché il link per scaricarli è copiato sui social media e da lì diventa virale. È così che i giornali si trasforma ancora oggi in uno dei massimi sistemi di indottrinamento per i futuri jihadisti».
«Di denaro per crearli ne serve poco, trattandosi di giornali online» spiega ancora Jonathan Matusitz «ma comunque i finanziamenti non mancano perché la propaganda è fondamentale per questi gruppi. Fondi possono arrivare dal Qatar e dal contrabbando di petrolio, dal traffico di esseri umani e da donazioni private fatte da simpatizzanti». Simpatizzanti come i due tunisini fermati a Bologna a inizio dicembre, che avrebbero usato il reddito di cittadinanza per finanziare un jihadista che vive nel loro Paese. «Moltissimi tra coloro che si radicalizzano non hanno studiato il Corano, però una connessione internet ce l’hanno tutti e alla fine possono accedere a decine di migliaia di contenuti pericolosi» dice ancora Matusitz. «Scaricano i giornali e si chiudono in casa a leggerli e rileggerli finché non c’è un auto-indottrinamento. Così si diventa lupi solitari: terroristi senza legami con alcuna organizzazione».
Solitari ma uniti in quella che è stata definita «jihadisfera», il mondo virtuale fatto di connessioni tecnologiche tra estremisti, ovunque essi siano: deep web, Twitter, addirittura TikTok, Element, Telegram. E circolano non solo articoli, ma anche video accurati e tutorial. L’informazione distorta parte da agenzie di stampa come Amaq News Agency (cui l’Isis affida quasi sempre le sue rivendicazioni), Thabat (che adesso pubblica anche un suo settimanale) e Al Hayat media center, specializzato in video. È così che si arriva alla «nuova generazione di estremisti islamici votati a una jihad personale» come ha detto l’ex capo dell’intelligence francese Bernard Squarcini commentando i sette attacchi terroristici che hanno scosso il Paese d’Oltralpe nel 2020. Compreso quello che ha fatto tre morti a Nizza il 29 ottobre: l’assassino, il ventunenne tunisino Brahim Aouissaoui, era sbarcato da poco a Lampedusa e solo nell’ultimo anno aveva scoperto la fede più accesa, senza entrare in alcun gruppo terroristico ma nutrendosi della forte «atmosfera jihadista» – come la definisce un articolo del New York Times – che pervade i social media dopo il collasso dello Stato islamico in Siria.
Non è un caso se il 27 novembre la polizia ha arrestato un italiano residente in provincia di Cosenza, ritenuto responsabile di auto-addestramento con finalità di terrorismo. Partecipava a gruppi di stampo jihadista su piattaforme social sfuggenti come Telegram, Rocket Chat, Riot, studiando svariate tecniche per assassinare «infedeli». Ed è soltanto una delle operazioni che hanno smascherato questi «privatisti» della jihad sul nostro territorio.
Però la lotta sul piano della tecnologia sembra essere impari. Le autorità occidentali che vanno a caccia di contenuti radicalizzanti li eliminano come possono, ma il giorno dopo rispuntano, magari in altre piattaforme su cui non si riesce ad agire in modo immediato. «Copie di giornali o altri contenuti sono occultati in canali di riserva» dice a Panorama Raphael Gluck, cofondatore di Jihadoscope, organizzazione che monitora e documenta la diffusione del terrorismo on line e sui social network. «E tornano sempre a diffondersi, qualche volta raggiungendo i social media più famosi, come Twitter o Facebook. Se rimangono online abbastanza a lungo da essere notati da potenziali lupi solitari, lo scopo dei jihadisti è ottenuto.
Sono molti i messaggi che incoraggiano a diventare terroristi autosufficienti. «Si suggerisce di compiere attentati nonostante il lockdown abbia svuotato le città dai turisti, perché il coronavirus distrae gli impianti di sicurezza» continua Gluck. Il recente giornale qaedista Wolves of Manhattan consiglia ai lettori di distribuire mascherine intrise di veleno. Per i jihadisti ciò che sta accadendo è un segno di Dio, e intendono avvantaggiarsi del fatto che è più facile coinvolgere le persone costrette a rimanere in casa davanti a cellulari, tablet e quant’altro. Questo è il tipo di clima che c’è oggi e la sfida che ci aspetta per il 2021».
«Dobbiamo aspettarci una nuova Nizza da un momento all’altro» ammonisce Anne Speckhard, direttore dell’International Center for the Study of Violent Extremism (Icsve) che si occupa da anni di «leggere» la mente dei terroristi. «Le persone che si trasformano in lupi solitari possono essere rifugiati, nuovi immigrati, musulmani di seconda generazione ma anche occidentali convertiti. Molti si sentono frustrati e arrabbiati. E il coronavirus sta peggiorando le cose. In Inghilterra ci sono musulmani che rifiutano il vaccino perché si è sparsa la voce che il governo vuol fare esperimenti su di loro. Non so come finirà tutto questo ma una cosa è certa: più aumentano paura, confusione e disoccupazione, più si spiana la strada al nuovo jihadismo».
Sui social jihadisti, in particolare su Telegram, gira una macabra cartolina di «buone feste»: un albero di Natale affiancato da alcuni candelotti di esplosivo. Si accompagna all’audio di un inedito «nashid», il canto religioso islamico. Titolo: Uccidi lentamente con odio e rabbia. Forse non sarà un anno rassicurante, neanche da questo punto di vista.