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Le corsie oscure del Covid

Le corsie oscure del Covid

Pazienti anziani lasciati da soli nei reparti, legati ai letti perché non c’era sufficiente personale per poterli assistere, «accompagnati» a morire nei casi più disperati. È quanto rivelano a Panorama alcune infermiere che, in pandemia, lavoravano negli ospedali o nei centri vaccinali. Dove, affermano, si somministravano anche sieri scaduti.


Gli anziani venivano legati al letto. L’ordine era entrare nelle stanze Covid il meno possibile. In tanti sono morti così. Senza il conforto di una persona cara. In solitudine». Marina non fa più l’infermiera. Ha smesso. Le era diventato insopportabile eseguire ordini che lei ritiene «disumani». «Ero come una carceriera. Mi sentivo impotente». La sua testimonianza non rientra nelle oltre duemila pagine, depositate le scorse settimane dalla Procura di Bergamo sulla gestione dei primi giorni di pandemia in Val Seriana. Arriva dopo quell’indagine. E alla sua, si stanno aggiungendo altre testimonianze. «L’ordine era fare più dosi di vaccino possibile. Anche quando erano scadute» confessa Emilia, mentre ci mostra le boccette vuote del vaccino Comirnaty, prodotto dalla Pfizer, prese all’hub vaccinale.

Dopo l’inchiesta di Bergamo hanno deciso di raccontare «la loro verità» su quanto sarebbe accaduto in alcuni ospedali, e centri vaccinali, durante l’emergenza Covid. Ci sono voluti mesi per guadagnare la loro fiducia. In cambio hanno chiesto l’anonimato. E qui sono identificate da nomi di fantasia. Le loro testimonianze potrebbero portare all’apertura di ulteriori indagini. L’incontro con Marina ha una data e un luogo: Lombardia, marzo 2023. Per tutto il tempo non ha smesso di tormentarsi le mani. «Ho lavorato nei reparti Covid, di terapia subintensiva e intensiva. Le persone che arrivavano in ospedale erano già in condizioni disperate, perché erano state a casa, per giorni e giorni, trattate solo con “paracetamolo e vigile attesa”. Ma una volta qui, somministravamo loro antibiotici, cortisone, eparina. E allora mi chiedevo, perché quei medicinali non venivano dati prima, nel loro domicilio?». «Poi sono cominciati ad arrivare gli anziani dalle Rsa e dalle Case di riposo» ricorda Marina. «Ci era vietato di restare nelle stanze se non per i trattamenti strettamente necessari. I medici neppure entravano a visitarli. Così dovevamo legarli al letto. Ricordo ancora i loro occhi disperati, pieni di paura». Marina parla anche dei protocolli di cura utilizzati. «Il plasma dava buoni risultati, ma a un certo punto non è più arrivato. Abbiamo cominciato gli antivirali. Con il remdesivir si verificavano pesanti effetti collaterali. Anche i medici hanno scritto alla direzione sanitaria. Ci rispondevano che era il protocollo. Però era mia, la mano che li somministrava. Confesso che qualche volta, di nascosto, l’ho sostituito con soluzione fisiologica».

Il racconto di quei mesi in corsia si fa ancora più drammatico. «Spesso non c’erano posti letto in terapia intensiva. E allora bisognava fare una scelta, dando la preferenza alle persone più giovani. Quelli di 70 e 80 anni restavano fuori». E che cosa succedeva?, chiediamo. Marina risponde a fatica. «Se si aggravavano troppo, non si poteva far altro che “accompagnarli”. Si attuava un protocollo. Con farmaci appositi, morfina e sedativi, e si lasciava che le persone insomma… morissero». E quanti malati ha visto accompagnare alla morte?, domandiamo. «Tanti» risponde seccamente. Sarebbe stata praticata quindi una sorta di eutanasia?

Il racconto di Marina trova riscontri in ciò che denunciano alcuni familiari. Francesco Pirazzoli, 71 anni, viene ricoverato in un ospedale in provincia di Ravenna il 5 marzo 2021. «Lo avevano lasciato a casa, per 11 giorni, senza mai visitarlo. Non sono venuti neppure i medici dell’Usca» accusa sua figlia Cristina. «È entrato il 5 marzo, non hanno provato nemmeno a curarlo. È morto il giorno dopo». «Sono stati usati due medicinali, morfina e Propofol, che insieme inducono rapidamente al coma, fino all’arresto respiratorio» spiega Barbara Balanzoni, consulente tecnico della famiglia. «Lo stesso esito fatale è stato quello del signor Carlo, in un ospedale in provincia di Milano. Era stato ricoverato il 13 luglio 2020 per una polmonite anche se il tampone per il Covid era negativo. Nel giro di pochi giorni gli è stata fatta un’infusione di morfina e midazolam. È deceduto quattro giorni dopo il ricovero». In entrambi i casi, i giudici per le indagini preliminari hanno deciso di non archiviare. In Italia la legge è chiara: l’eutanasia «attiva» è assimilabile all’omicidio volontario (come da articolo 575 del Codice penale). L’unico consenso alla «morte dolce», in caso di fine vita, può darlo solo il malato. O il suo tutore legale. Nessun altro. Neppure in situazioni di emergenza.

«Io non ho dato alcun consenso» ripete Serena Marongiu. Sua nonna Maria viene ricoverata in ospedale, in provincia di Bologna, nel dicembre 2020. Le sue condizioni non sono gravi ma a un certo punto i sanitari avvertono che la situazione è precipitata. «Abbiamo chiesto di portarla a casa, non c’è stato nulla da fare» aggiunge Serena. «La scheda Istat dice che è deceduta di polmonite da Covid. Ma l’hanno portata a morire. Le hanno dato Propofol e morfina. Ora la cartella clinica è in mano a un avvocato. Voglio sapere la verità».

Ci spostiamo in un’altra regione del Nord per incontrare Emilia. Anche lei è un’infermiera, è stata responsabile di alcuni centri vaccinali. «A un certo punto il governatore della Regione ci ha detto che dovevamo ricavare una settima dose. Anche se le direttive ministeriali erano di estrarne al massimo sei per fiala. Per farlo, ci hanno dato siringhe di massima precisione. Dovevamo diluire di più il prodotto. Invece che con 1,8 millilitri di soluzione fisiologica, lo allungavano con 2. Ma così il vaccino era meno efficace. Io non lo somministravo». A riprova, mostra le mail inviate dalla Regione alle farmacie che poi rifornivano i centri vaccinali. Perché nessuno si è opposto?, chiediamo. «Perché hanno usato tutti infermieri richiamati dalla pensione» risponde Emilia. «Ognuno di loro guadagnava tremila euro al mese, oltre alla pensione. Facevano a gara a chi era più veloce a estrarre la settima dose. A un certo punto si è iniziato a vaccinare con sieri scaduti» accusa l’infermiera. «Hanno cambiato le etichette sui flaconcini. L’ordine era di terminare quelli scaduti, prima di cominciare con quelli aggiornati, che erano già arrivati». Quanti effetti avversi ha visto? «Molti, malori e reazioni allergiche. Alcune anche gravi. Ma non bisognava dirlo».

Anna invece è infermiera in una Residenza sanitaria assistenziale friulana. «All’inizio ci avevano detto che i vaccini andavano conservati a meno 80 gradi. Ma da noi la catena del freddo non è stata mai rispettata» rivela. «In pieno agosto, le colleghe del distretto partivano con le dosi e andavano casa per casa con una borsa frigo da campeggio. La cosa più sconcertante è che, dopo il giro mattutino, quando non riuscivano a esaurire le dosi, venivano nella mia Rsa e ci chiedevano i nominativi dei pazienti ai quali somministrarle. Io mi sono sempre domandata a quanti gradi erano state tenute quelle provette».

Poi mostra i fogli di autorizzazione del consenso informato al vaccino di cui è venuta in possesso. Al posto delle firme, a volte ci sono soltanto delle croci. «Spesso a farle erano le badanti» dice. Alcune autorizzazioni vengono dalla Casa di riposo. Anna abbassa lo sguardo. «Più di una volta è capitato di trovarli nel letto, quei poveri anziani. Erano morti così, soli, con il respiratore attaccato alla bocca».

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