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Ci vorrebbe un piano Marshall

Ci vorrebbe un piano Marshall

  • Chi era il generale americano George Marshall, mago dell’organizzazione e Nobel per la pace. L’uomo che aiutò il presidente Harry Truman a fare risorgere dalla crisi economica l’Europa dopo la seconda guerra Mondiale. Perchè servirebbe un uomo così anche oggi.
  • A che punto è la corsa per il vaccino? Decine tra aziende, laboratori, multinazionali e università stanno cercando un modo per renderci immuni al virus della Covid-19. I tempi? C’è anche chi parla di pochi mesi… E sono italiani.


Tutti, dai politici agli imprenditori, dai sindacalisti fino agli albergatori e gli agenti di viaggio evocano il suo nome: quello di un generale americano, studente mediocre all’istituto militare della Virginia, ufficiale di successo a West Point, mago dell’organizzazione e autore di un piano che cambiò la storia del mondo e che gli valse il premio Nobel per la pace. Il generale si chiamava George Marshall e il programma di aiuti che porta il suo nome è invocato in questi giorni come modello per rilanciare l’economia italiana squassata dall’epidemia del Coronavirus.

Per la verità, ogni volta che l’Italia si trova in difficoltà rispolvera il sogno di un Piano Marshall, ovvero di un forte impulso all’economia finanziato con denari pubblici, possibilmente europei. Ma naturalmente le condizioni storiche in cui il vero Piano Marshall nacque erano ben diverse da quelle attuali. Eravamo alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa era distrutta, in Italia si soffriva letteralmente la fame: la razione minima di pane al giorno era di 150 grammi, la metà di quella raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità. E al di là dell’Atlantico prosperava un Paese ricco e potente, intenzionato ad esportare nel mondo i valori della libera impresa e preoccupato dalla minaccia del comunismo sovietico. Per aiutare gli europei a risollevarsi, compresi gli ex-nemici tedeschi, l’amministrazione del presidente Harry Truman decise nel 1947 di varare l’European recovery program (Erp). Si trattava di un programma quadriennale, sotto la direzione degli Stati Uniti, che prevedeva una serie di sovvenzioni e di prestiti per un controvalore di 17 miliardi di dollari, equivalenti a circa 190 miliardi di dollari di oggi. Il piano, messo a punto insieme ai governi europei, venne avviato nella primavera del 1948 e si concluse formalmente nel giugno 1952. L’intenzione era di aiutare anche l’Unione sovietica e i Paesi dell’Europa dell’est, che però rifiutarono. Così le nazioni che vennero coinvolte nel programma furono 17: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania Ovest, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia, Svizzera e Turchia.

A gettare il seme di questo progetto senza precedenti fu, nel 1947, Marshall, appena nominato segretario di Stato da Truman. Lo fece con un importante discorso pronunciato ad Harvard: «Non occorra che io vi dica, signori, che la situazione economica mondiale è molto grave. Nel considerare le esigenze della ricostruzione europea sono state esattamente valutate le perdite di vite umane, le distruzioni, ma è diventato chiaro che esse sono meno gravi dello sconvolgimento dell’intera struttura dell’economia europea. La ricostruzione è stata gravemente ritardata dal fatto che due anni dopo la fine delle ostilità non è stato possibile mettersi d’accordo sulle condizioni di pace con la Germania e con l’Austria. In questo modo si va rapidamente evolvendo una situazione che non promette nulla di buono per il mondo. Il rimedio consiste nello spezzare il circolo vizioso e di dare alle popolazioni europee la fiducia nell’avvenire economico dei loro Paesi. Gli industriali e gli agricoltori devono essere in grado di scambiare i loro prodotti contro valuta il cui valore deve essere costantemente fuori discussione. È logico che gli Stati Uniti facciano quanto è in loro potere per contribuire a restaurare nel mondo quelle condizioni economiche normali senza le quali non ci può essere stabilità politica, né sicurezza né pace. La nostra politica non è diretta contro alcun Paese o dottrina, bensì contro la fame, la miseria, la disperazione o il caos».

Marshall non era un burocrate qualsiasi ma un uomo eccezionale, la cui storia simboleggia alla perfezione quel pragmatismo che ha fatto amare gli americani nel mondo. Nato nel 1880 a Uniontown in Pennsylvania, figlio del proprietario di un’azienda che produceva carbone coke per gli altiforni delle acciaierie, Marshall sognava la carriera militare. Ma all’inizio non riuscì ad entrare nella prestigiosa accademia di West Point: i suoi voti erano troppo bassi. Dopo il diploma all’istituto militare della Virginia e grazie alle conoscenze del padre, venne finalmente ammesso a West Point dove, a sorpresa, ottenne ottimi risultati diventando un brillante ufficiale. Il 26 giugno 1917 Marshall fu il secondo americano a scendere dalla nave che trasportava le truppe americane in Francia per partecipare alla Prima guerra mondiale. Con il grado di maggiore diventò responsabile delle operazioni della Prima divisione. E dovette constatare di persona la drammatica disorganizzazione dell’esercito americano. Fu anche protagonista di un episodio illuminante sulla sua personalità: quando il comandante del corpo di spedizione americano John Pershing ispezionò la divisione di Marshall e rimproverò l’ufficiale in comando, il generale Sibert, davanti alle sue truppe, Marshall prese letteralmente Pershing per un braccio accusandolo di scaricare su Sibert colpe che erano sue. Il risultato fu che Pershing, colpito dall’audacia di quell’ufficiale, invece di stroncare per sempre la carriera di Marshall lo fece entrare nel suo staff, dove conquistò il soprannome di «mago» dell’organizzazione e venne promosso colonnello.

Diventato capo di stato maggiore nel 1939, Marshall riorganizzò profondamente le forze armate statunitensi, congedò i comandanti più anziani e li rimpiazzò con uomini destinati a diventare famosissimi come Dwight Eisenhower, Omar Bradley e George Patton. Addirittura nel 1944 Marshall era tra i candidati al comando dell’operazione Overlord (lo sbarco in Normandia). Finita la guerra, Truman lo chiamò al suo fianco e gli diede l’incarico che lo fece entrare nella storia. Nel 1953 Marshall fu premiato con il Nobel per la pace e sei anni dopo morì.

Grazie al Piano Marshall l’Italia ottenne dagli americani oltre 1,2 miliardi di dollari (di allora) tra merci, sussidi e prestiti condizionati, cioè con l’impegno di acquistare in America i prodotti necessari: soltanto Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest ricevettero più fondi. Questa pioggia di denaro doveva in primo luogo far rifiorire le industrie energetiche, le aziende siderurgiche e meccaniche, il tessile, la chimica. Vennero finanziate anche migliaia di opere di ricostruzione (case, scuole, ferrovie, porti), si avviarono corsi di riqualificazione per favorire l’occupazione. E oltre 1.500 aziende ottennero i prestiti dell’European recovery program. Su internet si possono trovare gli elenchi che, regione per regione, indicano quali imprese ricevettero gli aiuti. Per esempio in Lombardia 2,7 milioni di dollari andarono alla Montecatini, 2,2 milioni alla Falck, 960 mila dollari all’Innocenti, 700 mila all’Alfa Romeo. Grandi aziende che compaiono insieme a decine di piccole imprese, come la Sartoria F. Camana che ottenne 350 dollari. In Piemonte la parte del leone spettò alla Fiat con prestiti per ben 22 milioni mentre in Liguria chi ricevette di più fu la Finsider con 18 milioni.

Aiuti che furono fondamentali per la ripartenza dell’Europa e per la creazione di un fronte occidentale unito contro l’influenza comunista. Ma che l’Italia rischiò di perdere. Infatti il 20 marzo del 1948, a un mese dalle elezioni politiche in Italia, Marshall dichiarò in modo molto chiaro all’Università di Berkeley che gli aiuti economici e i prestiti agli italiani sarebbero cessati nel caso di una vittoria elettorale delle sinistre. Il 18 aprile la Dc vinse con il 48,5 per cento dei voti e la borsa americana si aprì. Conquistando agli Stati Uniti la gratitudine di un’intera generazione.

A che punto è la corsa per il vaccino

Ci vorrebbe un piano Marshall
ANSA

Decine tra aziende, laboratori, multinazionali e università stanno cercando un modo per renderci immuni al virus della Covid-19. Una corsa per la vita tra chi ancora studia il rimedio e chi lo sta già sperimentando. I tempi potrebbero essere lunghissimi, ma c’è anche chi parla di pochi mesi. E sono italiani.

Cresce il contagio, si infiamma la sfida per un vaccino che funzioni. Nel chiuso di decine di laboratori intorno al pianeta è una corsa contro il tempo per creare l’immunizzazione che miliardi di persone aspettano. Da quando il virus della Covid-19 ha mostrato la sua capacità infettiva, si sono messi all’opera in tanti. Un esercito di ricercatori chini sui microscopi per il bene dell’umanità e per quello del profitto. Negli ultimi due decenni il mercato dei vaccini è cresciuto di sei volte e secondo la società di gestione patrimoniale AB Bernstein valeva oltre 35 miliardi di dollari già prima dell’emergenza coronavirus. A spartirsi l’85 per cento della torta, sempre secondo AB Bernstein, quattro grandi player: gli inglesi di GlaxoSmithKline, i francesi di Sanofi e gli americani Merck e Pfizer. E il mercato adesso non può che crescere, anche solo considerando le 46 milioni di sterline che Boris Johnson ha destinato allo studio di un vaccino, l’assegno da 8,3 miliardi di dollari staccato da Donald Trump per aiutare prevenzione e ricerca, o la volontà di Xi Jinping di puntarvi le fiches cinesi. E sappiamo quanto è determinato.


Ma oggi accanto alle multinazionali farmaceutiche ci sono altre aziende di biotecnologia ben decise a fare la loro parte. L’Organizzazione mondiale della sanità ha rilasciato alcuni giorni fa una bozza con i nomi dei primi 35 candidati a realizzare l’atteso vaccino. Sono quelli di università e aziende sconosciute ai più: dalla danese ExpreS2ion all’israeliana Vaxil Bio, dall’indiana Zydus Cadila alla tedesca CureVac, dall’università del Queensland a quella di Saskatchewan, in Canada. Tra queste anche la statunitense Moderna, società di biotecnologia con sede nel Massachusetts (nota per i vaccini personalizzati contro il cancro), che in febbraio ha bruciato ogni record di velocità tra l’identificazione di un virus e la realizzazione di un vaccino pronto al test: 42 giorni. L’istituto di ricerca di cui è partner, Kaiser Permanente Washington Health, è il primo a iniziare una sperimentazione sugli esseri umani. Sul suo sito corona.kpwashingtonresearch.org proprio in questi giorni sta reclutando 45 persone in ottima salute per la fase 1 del test, utile a trovare il giusto dosaggio e a riconoscere eventuali risposte immunitarie da parte dell’organismo prima della vera e propria esposizione al virus. Si chiama mRNA-1273 e per farselo iniettare in un braccio nel laboratorio di Seattle si sono già candidate online migliaia di persone. Se scelte, riceveranno 1.100 dollari.

Alcuni progetti sono finanziati dalla Cepi (Coalition for epidemic preparedness innovations), ovvero una partnership tra governi, aziende e istituti di ricerca con sede in Norvegia, creata tre anni fa proprio per combattere le epidemie. Quattro sono in corsa (incluso quello di Moderna), altri quattro sono in fase di approvazione, mentre in attesa di valutazione ci sono 48 richieste da ogni parte del mondo. Un’alleanza necessaria, considerando i costi: per sviluppare il vaccino tanto velocemente, ha calcolato l’amministratore delegato di Cepi, Richard Hatchett, servono circa due miliardi di dollari. E non è detto che vi sia un ritorno economico. Nella migliore delle ipotesi non sarà pronto prima di 12-18 mesi, ovvero quando il coronavirus avrà già percorso la Terra in lungo e in largo. «Questo vaccino arriverà in tempi incredibilmente veloci, ma non veloci abbastanza»: non ci ha girato intorno Anthony Fauci, direttore dell’Istituto americano per le malattie infettive NIH, in una recente intervista. D’altro canto, ha commentato, «è plausibile immaginare che il virus non si fermi a una stagione, e che torni il prossimo anno. Per allora speriamo di avere un vaccino». E a quel punto sì, che sarà remunerativo.

C’è anche un’azienda italiana tra quelle che ricevono un finanziamento dalla Cepi, e il suo lavoro è entrato nella lista dei 35 abilitati dall’Oms. Si chiama Irbm e nei suoi laboratori di Pomezia (Roma) ha già messo a punto il vaccino italiano anti-ebola. Amministratore delegato e presidente è Piero Di Lorenzo che, sui tempi, corre più di tutti. «Lavorando in collaborazione con l’Istituto Jenner dell’Università di Oxford saremo pronti in maggio per la sperimentazione del vaccino sui topi e, se le cose vanno come diciamo noi, subito dopo l’estate saremo operativi con quello per l’uomo» dice a Panorama. Come può riuscire dove gli altri prevedono anni? «Abbiamo un vantaggio competitivo. L’Istituto Jenner è alla validazione ufficiale del vaccino per un altro tipo di coronavirus, quella della Mers, lievemente diverso da Covid-19. Così, quando i cinesi lo hanno isolato e sequenziato in dicembre, a Oxford si è subito sintetizzato il gene della proteina “spike”, ovvero la “corona” che crea il contagio. A loro manca solo il vettore per portarlo depotenziato all’interno dell’organismo umano, e qui entriamo in gioco noi con il nostro adenovirus. È praticamente il virus del raffreddore, anch’esso depotenziato, che si carica “sulle spalle” il loro gene e lo fa entrare nell’organismo umano, il quale reagisce e crea anticorpi; quando il virus “cattivo” lo attacca, non può infettarlo perché il soggetto a questo punto è vaccinato, dunque immune. Il nostro sistema è affidabile: lo abbiamo già usato in un milione di dosi per combattere Ebola. Ecco perché stiamo andando velocissimi».

Nella lista dell’Oms sono specificate le varie metodologie usate per realizzare il vaccino. Abbiamo citato l’Istituto Jenner ma ci sono anche Moderna e CureVac, che agiscono attraverso l’ingegneria genetica sulla molecola Rna. Inovio opera sul Dna e in aprile comincerà la sperimentazione umana su pazienti negli Stati Uniti, Cina Corea del Sud. Sempre costruito sul Dna è il vaccino di Applied DNA Sciences insieme all’italiana Takis Biotech, sede a Castel Romano: l’hanno ottenuto clonando un frammento dell’informazione genetica del virus nei filamenti circolari di Dna presenti nei batteri. Il via libera ai test sugli animali potrebbe arrivare entro marzo.

Le sperimentazioni sono lunghe, dicevamo, e in teoria il vaccino arriverà tra molto tempo. In teoria… «Le norme delle autorità regolatorie prevedono tre fasi che durano anni, dunque già parlando di 18 mesi si considera che le autorità accelerino» spiega ancora Di Lorenzo. Ma con una situazione compromessa, come nel caso di questa pandemia, possono essere indotte a dire “sbrighiamoci”. Assumendosi il rischio in nome di una salute pubblica più grande». Meno sicurezza in cambio di più vite. Deve averlo pensato anche Chen Wei, rinomata epidemiologa di Wuhan che si è iniettata, in un impeto di patriottismo, il vaccino da lei stessa creato senza neanche la sperimentazione animale. Come stia non si sa, ma intanto questa corsa l’ha vinta lei.

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