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La burocrazia che frena l’export

La burocrazia che frena l’export

Le nostre produzioni si scontrano con normative che le penalizzano nella competizione globale. Ma c’è anche un problema di «volume» delle imprese.


Ogni mattina un imprenditore, titolare di una piccola azienda, si alza e non sa che dovrà versare circa 400 euro di tributi solo per aver iniziato la giornata di lavoro. Un obolo da pagare per tutto l’anno, festivi inclusi. E se è a capo di un’impresa di media dimensione, la somma lievita fino a duemila euro. Ma a chi vanno quei soldi? Difficile dirlo, trattandosi di una sorta di tassa occulta. La responsabile, però, è nota: la burocrazia, antica piaga del Belpaese. Un freno al Made in Italy, tanto decantato quanto poco sostenuto.

I numeri, prima di tutto. Secondo una ricerca di Assolombarda, «il costo della burocrazia è stimato variare dai 108 mila euro per una piccola impresa ai 710 mila euro per un’azienda di medie dimensioni». Un solo collaboratore deve concentrarsi tra i 45 e i 190 giorni lavorativi per completare gli adempimenti necessari. Addirittura, stando a un dossier della Cgia di Mestre, la stima è di 57 miliardi di euro spesi in un anno dalle realtà produttive per colpa della burocrazia. A questo poi si aggiunge un sistema che incentiva poco l’attività, mentre la concorrenza straniera diventa sempre più aggressiva.

«La criticità principale è l’incertezza sulle regole, cambiano di continuo» dice a Panorama Daniele Iudicone, co-fondatore di Imc Holding, che opera nel settore delle energie rinnovabili. «Faccio un esempio, quello del Superbonus, andato incontro a modifiche, che hanno complicato lo scenario. Non si tratta di essere a favore o contrari al provvedimento, per noi occorre sapere qual è il contesto normativo con cui fare i conti». Così Iudicone racconta la sua esperienza diretta: «Con l’associazione Italia solare abbiamo chiesto chiarezza da parte della politica, in un senso o in un altro. Almeno sappiamo cosa affrontare». Evidenzia l’imprenditore: «In Spagna ci sono norme più stabili che consentono degli investimenti a lungo termine, come dovrebbe essere. Era più indietro rispetto a noi, ma la politica, indipendentemente dai colori dei governi, ha tracciato una rotta, seguita ancora oggi».

Non va meglio nel settore dell’automotive dove la concorrenza straniera ha generato un dumping aggressivo che sta erodendo la competitività dei produttori nazionali e, di contro, non c’è a oggi un aiuto serio e concreto da parte delle istituzioni per le imprese nazionali. «In Italia non è prevista una procedura di omologazione delle barriere stradali, è sufficiente la marcatura «CE» per autorizzarne vendita e installazione. Nei capitolati si chiede magari anche il crash test e il manuale di installazione. Dopodiché chiunque può vendere» afferma Roberto Impero, ceo di MA Road Safety, azienda campana apprezzata anche a livello internazionale per la robustezza e innovazione dei propri dispositivi salvavita destinati alla sicurezza stradale passiva (barriere laterali, attenuatori d’urto, terminali di barriera). E, sottolinea Impero, «Belgio, Norvegia, Irlanda, Germania, Medio Oriente o Stati Uniti richiedono procedure di controllo severissime, che possono durare più di 12 mesi, prima che il dispositivo venga immesso nell’elenco dei prodotti approvati». Ciò comporta un evidente squilibrio tra le imprese italiane che, se vogliono vendere all’estero si trovano le porte sbarrate, e quelle estere che vendono in Italia che, per dirla con Impero, «si trovano le porte spalancate».

Tale situazione determina pericolose conseguenze nel campo della sicurezza: «Ci troviamo a scontrarci con prodotti provenienti da altri Paesi con le aziende italiane che risultano meno competitive. Le imprese allora reagiscono, se ciò che conta sono solo quei tre documenti, riducendo i costi di produzione, producendo barriere più leggere, mettendo meno acciaio. E questo può mettere a repentaglio gli automobilisti. Perché sì il crash test lo passi, ma è differente la prova in laboratorio rispetto a un incidente vero in strada». Ma c’è di più. Impero ha provato a sbarcare nei mercati esteri, ma non è così facile: «In Usa noi abbiamo una società e abbiamo effettuato i crash test secondo la normativa Usa che è molto più stringente. Non solo. Per poter vendere negli Stati Uniti, una legge impone l’uso di acciaio americano e la fabbricazione in sede. In sostanza, finché non produco in Usa, io non posso vendere le mie barriere».

Le colpe, tuttavia, non sono sempre altrui: alcune criticità del made in Italy nascono anche per ragioni culturali. È quello che pensa Antonio Panìco, «preparatore» di manager, proclamato negli ultimi due anni «Business Coach dell’anno» al premio Ceo Today Management Consulting Award. Tutto parte da uno studio che Panìco, con la sua azienda Business Coaching Italia, sta conducendo sulla piccole e medie imprese italiane: «A oggi sono stati raccolti oltre tremila questionari, compilati dagli imprenditori su cinque diversi ambiti analizzati: finanza, marketing, organizzazione aziendale, leadership e vendita. I risultati confermano una scarsa preparazione manageriale e questo indubbiamente rappresenta un freno anche allo sviluppo del Made in Italy nel mondo».

Alle difficoltà endemiche del sistema Italia – burocrazia, costo del lavoro e tassazione elevati, oltre agli attuali rincari delle materie prime – si affiancano difficoltà proprio del «sistema-azienda». Aggiunge Panìco: «Nel nostro Paese c’è una scarsa propensione da parte della classe imprenditoriale a sistematizzare e organizzare i processi». Mancano spesso competenze manageriali. «La ragione è anche storica: la piccola e media imprenditoria ha in genere un’organizzazione artigianale e questo fa sì che ogni volta che nasce un’azienda ciò a cui, giustamente, si pensa è fare un buon prodotto. Ma questo, da solo, nella nella competizione globale non basta: se abbiamo grande creatività, spesso non si dispone di “intelligenza organizzativa”. È un limite cruciale per le nostre imprese». Secondo Panìco, dunque, «quando nascono le aziende italiane pensano sì alla realizzazione di un buon prodotto, ma non progettano fin dall’inizio come poter diventare grandi» a differenza di quel che accade all’estero.

Solo che poi si torna al punto di partenza, al quadro di incertezza che frena gli investimenti. Spiega ancora Daniele Iudicone di Imc Holding: «Certo, c’è chi si accontenta di un’impresa medio-piccola. Ma d’altra parte c’è una difficoltà a garantire la crescita delle aziende, che ambiscono ad ampliare le dimensioni, puntando a uno status internazionale». Da qui la tentazione: trasferirsi altrove, in Paesi che favoriscano la nascita e lo sviluppo delle compagnie straniere. Senza freni, anzi tendendo una mano. E c’è una ragione se, come riferisce Assolombarda, il 58 per cento degli investitori preferisce evitare l’Italia: troppe normative complicate. Anche perché la pressione fiscale è nota: l’Italia è quinta in Europa per carico di tasse.

Lo Stato non aiuta una crescita in questo senso, come rileva Panìco: «Spesso mi sono trovato davanti imprenditori che mi dicevano: “Non voglio più crescere perché altrimenti aumenta il livello di tassazione”. Questo è inconcepibile: oggi in Italia il sistema fiscale premia il risultato mediocre: più guadagni, più ti tasso; meno guadagni e più ti aiuto; e se diventi ricco, ti massacro». Ma c’è un altro tassello che manca per ultimare il ritratto di piccole e medie imprese frenate nell’export. Alessandro Gatti, fondatore di MaisonFire che produce caminetti bio d’arredo, mette in risalto la mancanza di elasticità e prontezza delle Pubbliche amministrazioni: «Faccio un esempio: ho mandato una mail al mio Comune e da settimane nessuno si è degnato di fornire una risposta».

E il discorso sembra valere anche per una dimensione al di fuori dei nostri confini. «Le ambasciate di altri Paesi» spiega Gatti «sono praticamente degli uffici commerciali, mentre per l’Italia non è così: per esperienza ho cercato di stabilire contatti per avere delle indicazioni sulle aziende che potevano diventare partner». Il modo perfetto per «punire» le eccellenze del Made in Italy.

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