- Il governo avrebbe potuto riprendersi le concessioni di Autostrade, dividerle, prolungarle e portarsi a casa una quarantina di miliardi di euro. Invece la battaglia legale imperversa e il gruppo di Ponzano Veneto continua a incassare lauti pedaggi. Mentre il processo non è mai iniziato.
- L’Italia nel grande freddo
- Ma L’IMPRESA eccezionale è restare aperti
Non curi la manutenzione di uno dei ponti più famosi d’Italia, sotto il quale muoiono 43 persone, e dopo due anni e mezzo lo Stato ti paga a peso d’oro per uscire da Autostrade. Il tutto in un Paese dove se dall’opera di un piccolo imprenditore fosse caduto un calcinaccio in testa a qualcuno, sarebbero scattati immediatamente sequestri e manette. Invece la storia del Ponte Morandi, crollato a Genova il 14 agosto del 2018, in questo Natale 2020 di crisi economica e divieti, rischia di diventare un monumento ai regali di Stato e all’ingiustizia. Il processo penale non è neppure cominciato, mentre giornali e tv raccontano da mesi la complicata battaglia legale tra governo e Atlantia, la holding dei Benetton che controlla l’88 per cento di Autostrade, con i Cinque stelle che minacciavano la revoca delle concessioni, mentre Pd e Italia viva (che vanno d’accordo solo su questo) sono per questa opaca trattativa, con vendita di Aspi a chi dicono loro.
Intanto, mentre i due governi Conte cincischiavano, i resilientissimi Benetton hanno potuto continuare a riscuotere i pedaggi come se nulla fosse accaduto. In attesa che passasse la nottata, che il Pd tornasse al governo e che arrivasse il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, travestito da Babbo Natale, con una ventina di miliardi da mettersi in saccoccia. Il tutto, al termine di una partita che lo Stato ha giocato interamente nel campo dell’avversario, che è un oligopolista incallito. Mentre avrebbe potuto, e forse ancora potrebbe, riprendersi le concessioni autostradali, dividerle in quattro o cinque lotti, allungarle a trent’anni, metterle a gara in piena trasparenza e portarsi a casa una quarantina di miliardi.
Per capire come finora Stato e Benetton si siano affrontati sul terreno sbagliato, basta leggere il documento di un ente pubblico. Nove paginette che non vengono dal ministero delle Infrastrutture, che con Paola De Micheli è tornato saldamente in mani piddine dopo la roboante parentesi del grillino Danilo Toninelli, e neppure dal Mef, che con Gualtieri e tutto l’entourage di Massimo D’Alema sta provando a costruire l’ennesima «operazione di sistema» con i soliti amici delle solite banche d’affari, come l’ex Goldman Sachs e Cdp Claudio Costamagna. Si tratta del parere con cui l’Autorità di regolazione dei trasporti (Art), guidata da Andrea Camanzi, il 14 ottobre ha criticato pesantemente il Piano economico finanziario (Pef) di Autostrade, senza la cui approvazione (da parte del Mit) è impossibile capire se il prezzo di Aspi è giusto. Prima di discutere i numeri del piano, l’Art ricorda che oggi Aspi gestisce 2.856,4 chilometri di rete, dalla Milano-Napoli alla Caserta-Salerno. E osserva: «L’estensione delle tratte gestite risulta ampiamente al di sopra del massimo individuato (oltre 315 chilometri) al punto 2 della Misura di regolazione approvata con la citata delibera n. 70/2016 per gli ambiti ottimali di gestione, valore al di sopra del quale non si rileva la presenza di significative economie di scala». Tradotto in parole povere, lo Stato concedente non avrebbe alcun interesse ad affidare più di 315 chilometri di autostrade allo stesso soggetto.
Ma dopo gli errori del passato, messi nero sul bianco dallo stesso Mit con il rapporto ispettivo che era stato preparato per la procedura di revoca, De Micheli e Gualtieri non hanno pensato che sarebbe il caso di «spacchettare» le concessioni, metterle a gara ed evitare così di creare un nuovo mostro, ovvero un altro semi-monopolista dopo i Benetton, per vent’anni cresciuti all’ombra di Romano Prodi e Pier Luigi Bersani, e prosperati tra un Enrico Letta e un Graziano Delrio, fino al loro ultimo, irriducibile fan, Matteo Renzi. Gli effetti di questa partita distorta si scaricheranno sui pedaggi che pagheremo per i prossimi decenni. La prima, pesante, anomalia, era già nella concessione Mit-Aspi, laddove si dice che lo Stato dovrà pagare al concessionario, in caso di revoca per colpa di quest’ultimo, anche i mancati guadagni, che nel caso di specie sono pari a 22 miliardi. Si tratta di un caso classico di «patto leonino», vietato dal codice civile, e per non farsi ricattare sarebbe bastato portarlo dal giudice e farlo cassare. Invece, il governo del raffinato giurista Conte che ha fatto? Si è autoridotto la «penale» a un terzo, infilando il codicillo-killer nel decreto Milleproroghe, subito impugnato dai Benetton.
Ma anche qui è tutta una messa in scena, perché con questo «abuso», il governo ha trasformato in legge una semplice clausola contrattuale (illegittima). A metà luglio, il tormentone della revoca va in soffitta, in cambio di un accordo tra governo e Atlantia per la vendita di Autostrade. In realtà, questa strombazzatissima pace può essere stracciata in qualunque momento, perché si tratta di un semplice memorandum d’intesa. La partita della nazionalizzazione si decide nel Pef, che alla fine il Mit ha approvato con qualche correzione. In un Paese normale, il prezzo di Aspi sarebbe costruito sommando vari mattoncini, dai rischi legali al valore delle opere, passando per i flussi finanziari da qui alla fine della concessione. Invece qui si ha la netta sensazione che si parta dal prezzo finale e lo si faccia diventare «congruo» procedendo come gamberi, con un importo ricostruito a posteriori in una trattativa tra l’amministratore delegato di Atlantia, Carlo Bertazzo, il capo di gabinetto della De Micheli, Alberto Stancanelli, e il capo di gabinetto di Gualtieri, Roberto Chieppa.
Nel piano che Aspi si fa approvare dallo Stato alla vigilia della vendita, le concessioni durano fino al 2038, nonostante il generoso Delrio le avesse allungate al 2042 (con questo «sconto», Aspi rinuncia a 16 miliardi). Gli incrementi tariffari, che sempre con Babbo Delrio erano al 2,2 per cento annuo, dopo le confutazioni dell’Art scendono all’1,64 per cento (1,75 per cento nella prima versione del Pef). Attualmente sono al 70 per cento dell’inflazione, che l’anno scorso era pari allo 0,6 per cento, quindi siamo di fronte ad aumenti che valgono ben tre volte l’inflazione. Ma il fatto è che a comprare Aspi non sarebbe più soltanto la Cassa depositi e prestiti, controllata dal Mef e dalle fondazioni bancarie, ma anche gli australiani di Macquarie e gli americani di Blackstone, che prenderebbero il 30 per cento ciascuno, lasciando Cdp al 40 per cento.
Nel nuovo piano, gli investimenti futuri rimangono invariati a 13,5 miliardi, come le manutenzioni ordinarie, ferme a 7 miliardi, e gli indennizzi al concessionario (3,4 miliardi). I dividendi sarebbero pari a 20 miliardi di euro e poi ci sarebbero da assorbire 10 miliardi di debiti pregressi. I rendimenti sono quindi molto alti e che senso ha che il governo e la Cassa li lasci in maggioranza ad altri soggetti? Perché gli automobilisti devono pagare un rendimento del 12 per cento ai fondi privati stranieri, anziché riconoscerli tutti alla nostra beneamata Cassa, che in fondo, come ci dicono sempre, «gestisce il risparmio postale degli italiani»?
Insomma, assistita da Mediobanca, Atlantia ha indetto una gara privata e l’offerta in pole position è quella con Cdp e i due fondi stranieri, uno vicino al compratore e l’altro al venditore. Questa cordata ha offerto 9 miliardi per l’88 per cento di Aspi, valutandola complessivamente 10,2 miliardi. Ma i Benetton, al momento, dicono che sono pochi.
L’aspetto più incredibile è che il Pef approvato dalla De Micheli assegna ad Aspi un valore sostanzialmente uguale alla cifra che i Benetton incasserebbero se fosse revocata la concessione per colpa del ministero del Tesoro. Insomma, Cdp, Macquarie e Blackstone rileverebbero Aspi senza che ai signorotti di Ponzano Veneto venga addebitato neppure un centesimo per il crollo del Ponte Morandi. Ora, l’ultimo ostacolo è il Cipe, che il 15 dicembre dovrebbe mettere il timbro finale sul Pef e ha come presidente il premier Conte e come segretario l’unico grillino che potrebbe ancora fermare il regalo ai Benetton, ovvero Riccardo Fraccaro.
Se invece il governo scegliesse la strada del libero mercato, i risultati potrebbero essere ben diversi. Si tratterebbe di fare una gara, dividendo le concessioni di Aspi in quattro o cinque lotti. Con parte dell’incasso, lo Stato pagherebbe gl’indennizzi ad Aspi stessa (3,4 miliardi), e poi basterebbe allungare le concessioni al 2050 per portare a casa una cifra tra i 40 e 50 miliardi di euro. A quel punto, i nuovi Pef sarebbero stabiliti a seguito di gare pubbliche e non all’ombra di un trattativa privata tra un manager e due capi di gabinetto. Inoltre, lo Stato potrebbe sempre chiedere ai Benetton i danni per il Morandi, facendoli decidere pubblicamente e in trasparenza in un’aula di tribunale e non nel chiuso di una stanza ministeriale o, peggio ancora, di una banca d’affari. E invece, per lo sfizio anti-mercato e demagogico di nazionalizzare un privato che ha fatto il «cattivo», lo Stato si assume tutti i suoi rischi, senza capire che basterebbe separare il destino delle concessioni da quello del concessionario.
Viene quasi da sospettare che gli attori di questa partita vogliano semplicemente prendere il posto dei Benetton, per comportarsi allo stesso modo e a spese di tutti.
(continua la prossima settimana)
L’Italia nel grande freddo

Per il Paese sarà un Natale «confinato» con la crisi dei consumi (il reddito delle famiglie in contrazione del 6 per cento), il ristagno delle attività economiche (il Pil segna un -9,1 per cento a fine anno). E in settori strategici come il turismo il timore è di non esserci più nel 2021.
di Carlo Cambi
E’ arrivato il gelo. L’inverno però non c’entra, anche se l’immagine simbolo del docu-thriller a reti unificate che stiamo vedendo nell’Italia infetta dal virus cinese sono le piste da sci intonse, le funivie immobili, il deserto nelle strade di montagna, il vuoto desolante negli alberghi. In questo quadro appare appannato il dibattito sul Natale: messe blindate, niente cenoni, impianti di sci chiusi, niente spostamento tra le regioni. Gli italiani continuano a inseguire l’andamento dei «colors disunited» per scoprire se vivono in giallo o in arancione e al posto del vecchio «che tempo fa?» oggi ci si chiede che «colore sarà?». C’è chi fa le carte per sapere se arriverà il vaccino, c’è chi ha messo la vita di relazione in stand by; mentre solo chi, con lo stipendio pubblico, sta in smart working – che in realtà è uno «short working» non essendoci alcun controllo sulla produttività – ha certezza del domani. Per gli altri il gelo è nel portafoglio; lo avevamo anticipato, la conferma è arrivata dalla Cgia di Mestre: tredicesime ridotte causa cassa integrazione. Si perderanno per strada circa 3 miliardi di euro, c’è chi vedrà l’assegno della gratifica restringersi anche del 50 per cento, chi invece incassa è lo Stato che preleva sugli assegni di Natale 10,4 miliardi.
Ci sono altri dati che vengono taciuti ma che fanno paura, al netto della preoccupazione crescente degli operatori economici i quali già hanno fatto sapere che lo stop al turismo invernale manda in fumo 12 miliardi di euro e 140 mila posti di lavoro gettando sul lastrico l’economia delle zone alpine e appenniniche, che lo stop ai ristoranti brucia 41 miliardi con 90 mila attività già fallite, che il «mezzo shopping» di Natale vale 10 miliardi di minori consumi e che ci sono 300 mila aziende pronte a portare i libri in tribunale con un milione di posti di lavoro persi. A preoccupare è la gelata dei consumi, l’ibernazione dei fatturati che il premier Giuseppe Conte cerca di mitigare con i ristori finendo per assomigliare alla Piccola fiammiferaia di Hans Christian Andersen.
La necrofila contabilità quotidiana sui contagiati e i caduti sul fronte del virus fa passare in secondo piano altre cupissime cifre che illustrano un Paese bloccato, un’Italia – per dirla con Alessandro Manzoni – «percossa e attonita». C’è, sempre sul fronte sanitario, un pacchetto spaventoso di cifre: aumentano i suicidi ormai oltre 4 mila, ogni giorno si contano almeno 15 tentativi e da quando è cominciata la pandemia il consumo di psicofarmaci si è incrementato dell’8 per cento, gli affetti da sindromi depressive sono passati da poco meno di 2,8 milioni dell’anno scorso a quasi 3,5 milioni di quest’anno. In quest’ansia che stringe alla gola il Paese c’è un mercato che cresce: è quello degli stupefacenti. La cocaina ha avuto un incremento del 127 per cento, le morti per overdose sono cresciute dell’11 per cento e i consumatori di stupefacenti sono quasi 9 milioni. Secondo la Fondazione Veronesi nel corso del 2020 l’abuso di alcol è aumentato e riguarda circa il 43 per cento della popolazione con tassi allarmanti tra le donne che vivono sole e tra adolescenti. Stordirsi, fuggire dalla gabbia di regole spesso confuse e contraddittorie, cercare un altrove: sembra essere questa la richiesta muta che questi dati gridano. Paolo Crepet, psichiatra e psicologo, ha fatto più volte notare: «Nel Comitato tecnico scientifico a cui si appoggia il governo non c’è neanche uno psicologo, è un errore marchiano anche perché è evidente a tutti che la crisi si sta trasformando in una crisi di paura».
L’Italia rischia dunque un collettivo attacco di panico derivante dall’incertezza sul futuro. I primi a soffrirne sono i ragazzi costretti alla didattica a distanza. Il governo per la riapertura delle scuole parla di metà gennaio. Protestano – per ricordarne solo alcuni – i ragazzi del liceo Gioberti di Torino, del Curiel di Padova, del Visconti di Roma, del Calini di Brescia, delle medie Compagni di Firenze, che hanno dato luogo, e continuano, a manifestazioni creative contro la didattica a distanza. La psicologa e scrittrice Vera Slepoj riflette: «I ragazzi sottratti alla socialità scolastica rischiano di portarsi dentro ferite psicologiche che possono condizionarne la loro capacità di relazione».
La depressione psicologica che schiaccia tanto i consumatori quanto i produttori si trasforma in un enorme danno economico. L’Ocse dice che il nostro Pil arretrerà del 9,1 per cento quest’anno, ma la ripresa sarà lentissima (più 4,3 nel 2021 e 3,2 l’anno dopo) il Fondo monetario vede uno «sprofondo» del 10,6 e una crescita molto modesta per gli altri due anni, il governo resta fermo alle sue valutazioni (meno 8,9 per cento quest’anno, più 5,8 il prossimo).
Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, è tranchant: «Faccio fatica a capire qual è la direzione del governo. Conte è bene che stia attento a parlare di ristori, ci sono centinaia di migliaia di persone che aspettano ancora la cassa integrazione e le imprese sono in ginocchio. Tutti i decreti emergenziali si sono tradotti in risparmio e non in consumi perché la gente non si fida». Carlo Sangalli presidente di Confcommercio chiede «ristori e moratorie fiscali tempestive, o si prepara la ripartenza o si muore».
C’è stata una perdita di potere di acquisto del 5,6 per cento e una riduzione del reddito medio del 6. I dati dell’inflazione a novembre resi noti dall’Istat dicono che l’Italia è ferma: meno 0,2 per cento su base annua perché non c’è domanda di energetici, ma il carrello della spesa costa l’1,5 in più. Tradotto: i consumi vanno a picco. Lo sanno benissimo gli operatori turistici che, insieme con cultura e spettacolo, sono i più colpiti dalla crisi. Per ora il ministro competente Dario Franceschini, capo delegazione del Pd nell’esecutivo, si è limitato ai bonus vacanze: dei 2,4 miliardi ne stato speso solo uno. Nulla a fronte di un settore che vale il 13 per cento del Pil, che ha perso 60 milioni di turisti stranieri e l’80 per cento del fatturato. Lo denuncia Manola Pascucci, tour operator e titolare di un’agenzia di viaggio a Chiusi e a Chianciano nel Senese. «Il mio fatturato è crollato del 90 per cento e non mi hanno dato nulla. Franceschini ha stanziato 10 milioni di euro nell’ultimo decreto ristori e prima altri 400 milioni: se si dividono per la platea degli operatori che ci facciamo? Io fatturavo 2 milioni con 7 dipendenti ai quali non è arrivata ancora la cassa integrazione, fino adesso ho fatturato 180 mila euro. Chiudo? Anche perché siamo stati esclusi dal bonus vacanze che noi come agenzie non potevamo accettare e abbiamo sulla testa la spada di Damocle dei voucher: le vacanze non godute dai clienti che dobbiamo rimborsare. Se fra quattro mesi chi non è partito, perché ci hanno chiuso dal 23 febbraio, vuole indietro i soldi anziché rinnovare il viaggio noi possiamo solo fallire. Né Franceschini né Gualtieri, ministro dell’Economia, si rendono conto che hanno distrutto una filiera che vale centinaia di miliardi e milioni di posti di lavoro».
Manola guarda alla sua Val d’Orcia disperata: non si sono fatti matrimoni ed eventi, l’agriturismo è crollato, le terme chiuse. La domanda è impietosa: la base produttiva, una volta che sarà finita la pandemia, esisterà ancora? I commercialisti stimano che perderemo 460 mila imprese artigiane, nel turismo la situazione è addirittura peggiore. Venezia, Firenze e Roma da sole hanno perso 8 miliardi di fatturato, più o meno due terzi di quanto vale lo stop agli sci. Gli alberghi chiusi sono l’80 per cento su 33 mila strutture. I ristoranti già saltati sono 90 mila.
Lo studio Coop su «tendenze e consumi 2020» avverte che la spesa per viaggi è arretrata ai livelli del 1974, frutto della distruzione della classe media che dichiara nel 38 per cento dei casi di temere di dover far fronte a seri problemi economici nel 2021. Le stime su quando il turismo si riprenderà sono drammatiche. Secondo l’Enit non prima del 2023, secondo Federalberghi bisognerà attendere fino al 2025. Ma quanti dei 33 mila alberghi, dei 300 mila ristoranti, delle 20 mila agenzie turistiche saranno rimaste in piedi? Il tema dunque non è che Natale sarà, ma cosa resterà dopo Natale.
Ma L’IMPRESA eccezionale è restare aperti

Saracinesche abbassate. Bollette che si accumulano. Clienti che passano agli acquisti sul web. Il Natale che attende esercenti e imprenditori sarà durissimo. Alcuni resistono, ma tanti sono destinati alla chiusura.
di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni
Dove c’era un sogno, adesso c’è una saracinesca abbassata. E perfino la speranza sta nell’ombra, intermittente fra i Dpcm e i conti da pagare. È questo il ritratto impietoso e doloroso del Bel Paese che sta rinunciando a lavorare, e che non ha più forze neanche per esercitarsi nell’arte dell’arrangiarsi. «Alla fine è più economico stare chiusi», spiega amareggiata Samantha Corradin, proprietaria insieme al compagno Simone Lucini della Locanda Torriani a Cremona. «Cucinare per due consegne a sera non ha senso. Magari capita, come è successo a noi, di non battere neanche uno scontrino nel corso della giornata. E questo fa ancora più male». Il riferimento è alla foto della chiusura di cassa di qualche settimana fa, postata su Facebook e diventata virale, che riportava un saldo finale di zero euro. Esattamente come accaduto anche a Michele, che fa il barbiere in provincia di Salerno e confessa di aver deciso di sprangare il suo negozio: «Rinuncio dopo vent’anni di carriera. Dopo il primo lockdown con qualche sussidio avevo provato a resistere e stringere la cinghia. La seconda ondata mi ha abbattuto totalmente: ora sopravvivere è un’impresa». Nella sua situazione, come rivela mostrando una chat di WhatsApp con i colleghi della zona, sono in decine. «Qualcuno» continua «ha già cominciato a vendere su eBay l’attrezzatura. La verità è che a fare paura è il futuro. Chi ci dice che l’emergenza finirà a dicembre? E se si dovesse arrivare in questo stato fino a marzo?».
Domande destinate a restare senza risposta, che agitano migliaia di imprenditori e si condensano in storie tragicamente simili. Come quella di Donatella Messina del ristorante Il Maneggio a Modena: «Ho rilevato il locale a maggio, ad agosto si è verificato un grande incendio, ma non mi sono persa d’animo. Ho lavorato per ripartire. E ci sono riuscita il 14 novembre. Peccato che, dopo mezza giornata di lavoro, Modena sia diventata zona arancione. Fine dei giochi». Nel medesimo girone infernale gravitano però anche nomi altisonanti come lo chef Filippo La Mantia che, dopo aver riaperto il suo rinomato Oste e cuoco a Milano il 4 maggio, ha deciso di arrendersi: troppi i costi per lo spazio di duemila metri quadri, dove lavoravano 35 persone. Meglio ridimensionarsi. Chiusura definitiva invece per Attimi dello chef stellato Heinz Beck nella CityLife di Milano (al suo posto andrà la catena fusion Wagamama), e del ristorante Perbellini di Isola Rizza, a due passi da Verona, trent’anni di storia e insignito della prima stella Michelin nel 1996. L’elenco è interminabile. La sintesi è tristemente offerta da una fotografia: un uomo su una sedia di vimini in una sala desolata, lo sguardo nel vuoto, la mascherina che pende da un orecchio. Si tratta di Giuseppe Tonon, ristoratore di Oderzo, in Veneto, ritratto dalla figlia Elena. Per quanto continui a stare aperto, considera la chiusura delle attività ristorative alle 18 come «la mazzata finale». Una mazzata che sta radendo al suolo l’economia italiana come confermano i dati disarmanti che ha fornito la Confesercenti: «La seconda ondata» fa sapere l’associazione di categoria «ha chiuso del tutto oltre 190 mila negozi nelle regioni rosse, a cui si aggiungono altre 68 mila attività in Veneto, Friuli Venezia-Giulia ed Emilia Romagna, a cui è stato imposto lo stop di domenica e almeno altri 50 mila negozi nelle gallerie commerciali per cui il divieto di apertura, invece, si estende a tutto il weekend».
Molte di queste attività, secondo la presidente Patrizia De Luise, potrebbero non riaprire più: «Dopo il primo lockdown sussidi e bonus vari hanno aiutato a sopravvivere tanti commercianti, ma ora la seconda ondata è vissuta come un cappio da cui è difficile liberarsi». Il problema vero è che «la pandemia ha mostrato i tanti nervi scoperti del sistema-Paese: dall’ambito burocratico fino a quello infrastrutturale. I ritardi accumulati nel corso dei decenni ora dovremmo recuperarli nel giro non di anni, ma di mesi».
A complicare la partita, c’è la concorrenza dell’online, specie di chi, come il colosso Amazon, gode di condizioni fiscali agevolate: «Non è un discorso contro il mercato online» aggiunge la De Luise, «ma di battaglie ad armi impari. Ci sono commercianti che in questo periodo hanno provato a modernizzarsi, ma hanno dovuto rinunciare per i costi impraticabili». Ed ecco, allora, che al vulnus squisitamente fiscale (in Parlamento c’è ampia discussione sulla cosiddetta Web tax) si accompagna quello burocratico da una parte e digitale dall’altro. Nei giorni del Black Friday le distanze si sono rivelate incredibili: a causa delle restrizioni nei canali di vendita fisici, Confesercenti ha stimato che circa 700 milioni di euro sono stati «travasati» dai negozi fisici a quelli sull’online. E se le restrizioni dovessero continuare fino alla fine dell’anno, il web potrebbe strappare ulteriori 3,5 miliardi di euro di spesa fra regali e acquisto di beni per la casa e la famiglia.
Fra i più colpiti il mercato editoriale, le cui perdite sono stimate oltre i 900 milioni di euro. «Abbiamo cercato di ingegnarci», tte Andrea Geloni dell’attivissima libreria Nina di Pietrasanta. «Prima con Libri da asporto, un servizio che ci consente di spedire praticamente gratis, dunque con video, interviste, consigli, recensioni online. Abbiamo trovato un modo per utilizzare il tempo, e aiutare le persone a casa a riappropriarsi della lettura. Proviamo a vivere questo periodo come una sfida, che ci obbliga innanzi tutto a rafforzare i legami con il territorio e con i nostri clienti». Altrettanto complessa la questione che riguarda negozi di abbigliamento, calzature e accessori: le restrizioni hanno chiuso quasi 58 mila imprese su 135 mila. E decine di migliaia hanno scelto di abbassare definitivamente la saracinesca.
Le vittime sono trasversali: si va da grandi marchi come Zara (chiuderà 1.200 negozi in tutto il mondo) e H&M (sette i punti vendita sbarrati in Italia), a brand storici. L’industria fiorentina di jeans Rifle, per esempio, ha interrotto la produzione lasciando a casa 96 dipendenti. Adesso sono in cassa integrazione, e sperano che qualcuno possa rilevare l’azienda. Il rischio è il tracollo: la disoccupazione nel 2020 si attesterà al 9,4 per cento e, come nota l’Unione nazionale consumatori, «la preoccupazione è che non sia più scontato avere a fine anno una caduta del Pil a una sola cifra».
Su quest’Italia che muore è toccante il racconto dello scrittore Edoardo Nesi, già Premio Strega nel 2011, che con il suo Economia sentimentale (La Nave di Teseo) riflette sulla crisi italiana partendo dalla sua storia di imprenditore nel Pratese: «La percezione dello stato del Paese è un po’ drogata dagli annunci televisivi, dal governo e dall’incompetenza generale. Tutti i giorni ricevo chiamate e segnalazioni di situazioni drammatiche, arrivano da commercianti grandi e piccoli che non sanno come fare. Il blocco del commercio è un ganglio fondamentale della creazione di ricchezza o povertà, ma non viene considerato. Proprio come il problema psicologico».
Sono i dati a rivelare come la crisi sta sgretolando l’ossatura del sistema Italia. Secondo l’Istat il 40,65 per cento delle micro imprese rischia di chiudere a causa della pandemia: il 65,2 per cento delle imprese di alloggio e ristorazione (800 mila occupati); il 61,5 per cento del comparto sport, cultura e intrattenimento (700 mila addetti).
Il mondo del teatro è tra i più colpiti. «Sto perdendo tutto», dice l’attore abruzzese Giovanni che ha una sua compagnia con cui fa laboratori nelle scuole e organizza spettacoli ogni sabato e domenica in un piccolo teatro. «Ho rilevato e restaurato questo spazio con i miei risparmi» racconta a Panorama. «Abbiamo aperto a gennaio, ma dopo due spettacoli siamo stati costretti a fermarci. Ora, dopo una piccola parentesi, ci hanno chiuso di nuovo». Nel frattempo, però, bollette e affitto sono da pagare, esattamente come il mutuo sostenuto per l’arredamento: «Avevano garantito che ci sarebbero state delle agevolazioni, ma quelle previste non bastano perché non abbiamo più entrate» continua Giovanni. Che, nel frattempo e in attesa di tempi migliori, ha dovuto lasciare a casa alcuni dei suoi teatranti. Altre persone ora in cerca di nuovo lavoro.
