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E pure l’Ateneo finisce nel dimenticatoio

La necessità di dover riaprire le scuole polarizza attenzioni e proteste. L’università, invece, vive più che mai in un cono d’ombra. Lezioni ed esami, azzarda il ministro Manfredi, potranno ricominciare a marzo. Forse. Peccato però che nessun problema sia stato davvero affrontato.


Se Lucia straripa, Gaetano medita. Se la professoressa di Biella incendia, l’ex rettore della Federico II di Napoli estingue. Se il ministro dell’Istruzione battaglia, quello dell’Università concilia. I dioscuri sono ugualmente idolatrati dai Cinque stelle, ma l’assonanza finisce qui. Azzolina, con tardiva e maldestra incontinenza verbale, trascina la scuola in trincea. Manfredi, con silente e felpata accondiscendenza, lascia scivolare gli atenei nel dimenticatoio. Nessuno ne parla più. Non si alza un sopracciglio.

Eppure Giuseppe Conte è uno stimato professore ordinario di diritto privato. Ma il suo ultimo accenno risale al 10 novembre 2020, durante l’inaugurazione dell’anno accademico alla Luiss di Roma: «Ricordo il mio primo periodo alla Sapienza e il senso di disorientamento. Nella consapevolezza di quanto sia decisivo il contatto umano e intellettuale, stare in presenza e guardarsi negli occhi, abbiamo deciso di inserire questa deroga, ma solo per gli studenti del primo anno, visto che sono quelli più a rischio di dispersione».

La dispensa è durata qualche settimana. Il manipolo di matricole s’è affacciato in classe per poi venire rapidamente riconfinato a casa, in balia dell’alienante didattica a distanza. Tutto sbarrato da quasi un anno: un altro dei poco invidiabili record europei infranti. E se la scuola continua a catalizzare attenzioni e proteste, l’università sembra si sia eclissata. Oltre 1,7 milioni di studenti abbandonati al loro destino.

In alcune regioni, però, le superiori hanno riaperto. Contagi permettendo, le altre si preparano a farlo. Manfredi invece prende tempo. Continua a ricordare che ogni decisione spetta ai singoli rettori, d’accordo con i comitati regionali. Ma anche dove le superiori, hanno ripreso al 50 per cento, gli atenei restano chiusi. «Siamo stati completamente tagliati fuori dalle indicazioni dei Dpcm» spiega a Panorama Marina Brambilla, prorettore della Statale di Milano con delega ai servizi per gli studenti. «E non vale solo per la didattica, ma anche per le residenze: dobbiamo decidere se e come tenerle aperte. La responsabilità è solo nostra. Si è deciso, in nome dell’autonomia universitaria, di non normare niente. Questo s’è tradotto nello stallo. Si sa cos’è aperto e cosa no: negozi, palestre ed estetisti. Parlano di tutto, meno che dell’università. Siamo diventati trasparenti».

Adesso il ministro promette che lezioni ed esami ripartiranno dal secondo semestre: a inizio marzo, insomma. Oltre a quelle matricole che stanno tanto a cuore al premier, tornerebbero in presenza la metà degli studenti degli altri anni. Forse. «I ragazzi sono stati molto responsabili e collaborativi, ma ora emerge chiaramente la sofferenza» racconta Brambilla. «Vivono nell’incertezza. Arrivano messaggi confusi: persino nella stessa città, ci sono situazioni molto diverse. Per non parlare delle differenze tra una regione e l’altra. Sentono parlare di zone bianche e gialle e si domandano: “Per noi cosa cambia?”».

I pericoli, però, sembrano simili a quelli delle superiori. I trasporti, certo. Problema ignorato per mesi da entrambi i ministeri, nonostante gli accorati appelli del Cts. Ed è proprio il Comitato tecnico scientifico a esortare alle riaperture. Il 18 ottobre, per esempio, ricorda che è «fondamentale sostenere il mondo della scuola e dell’università a cui il sistema paese deve necessariamente adeguarsi». Dunque, urge «considerare l’adozione di orari scaglionati per l’ingresso in presenza». E i ragazzi più grandi hanno perfino maggiore consapevolezza dei rischi, possono usare mezzi privati per arrivare a destinazione, le aule delle facoltà sono più grandi.

Eppure, per le superiori, governo e regioni battagliano. I governatori rivendicano i rinvii. Sono obbligati a fornire precise indicazioni. Invece, sugli atenei, nemmeno un fiato. E se la combattiva Associazione nazionale presidi non perde occasione per rintuzzare l’esecutivo, la Conferenza nazionale dei rettori fischietta mani in tasca. Neanche un appunto da rivolgere a Manfredi. Che, del resto, è stato presidente della succitata Crui fino al 10 gennaio 2020 prima delle dimissioni d’obbligo.

A fine 2019 il dicastero, dopo l’uscita di scena di Lorenzo Fioramonti, viene difatti spacchettato. L’ex magnifico della Federico II diventa appunto ministro dell’Università e della Ricerca. E all’Istruzione finisce Azzolina. «Due grandi persone» esulta dunque il Blog delle Stelle. E sul nominato sviolina: «Si tratta di una persona di indiscussa professionalità, che conosce quel mondo avendolo vissuto per anni sempre con grande impegno. Una scelta che ci rende felici anche per un altro motivo: finalmente arriva un riconoscimento alle università del Sud. Lo avevamo chiesto con forza, perché il Sud ha tutte le potenzialità per rilanciarsi. Gaetano Manfredi saprà fare molto bene».

Luigi Di Maio, allora leader dei Cinque stelle e già svogliato studente dell’ateneo napoletano, è entusiasta. Così come il presidente della Camera, Roberto Fico, fiero partenopeo. Ma la matrice della nomina rimane democratica. Il fratello del ministro, Massimiliano Manfredi, è stato deputato del Pd. E a settembre 2020 diventa consigliere regionale in Campania, eletto nella lista del governatore Vincenzo De Luca. Che, lo scorso ottobre, decide per primo di richiudere scuole e università, dove s’erano palesate le prime matricole. Azzolina assalta: «È una decisione gravissima, profondamente sbagliata e anche inopportuna». Manfredi, invece, nicchia. Ma poi dimostra la sua notoria signorilità «augurandosi» un incontro, per discutere l’ordinanza.

Del resto, il ministro è uomo di poche e ponderate parole. Lo scorso luglio, dopo mesi passati a rimuginare, giura: «La ripresa a settembre sarà essenzialmente in presenza. Dobbiamo riportare gli studenti nelle aule». A settembre si ripresenta sulla scena: «Le lezioni stanno riprendendo in tutte le università» assicura. «C’è un modello misto che prevede una occupazione delle aule al 50 per cento e in contemporanea la didattica a distanza per i fuorisede». In definitiva, «tutto quello che si può fare per garantire continuità è stato fatto».

A novembre, quindi, rinfranca: «Il funzionamento è stato regolare, con una continuità dell’azione dall’inizio della pandemia». Certo, ammette, «forse nel dibattito pubblico la discussione è più assorbita dai temi della scuola, dove i problemi da risolvere creano maggiore pressione». Però, insomma, se l’è cavata alla grande. Altroché. E il nuovo semestre, con la paventata ma improbabile riapertura, si annuncia sfavillante. «Invece siamo ormai intrappolati nell’inerzia. Il ministero è immobile da mesi: non si esprime nemmeno sulla ristrutturazione delle aule o il trasporto pubblico. Si rimette solo alla buona volontà degli atenei» assalta Aurelio Tommasetti, per nove anni rettore a Salerno, responsabile nazionale Università della Lega. «Servono linee guida chiare. Bisogna programmare il rientro in presenza, per un ritorno alla normalità anche parziale. Le attività a distanza non possono essere l’unica soluzione».

Lezioni dal divano, niente socialità, professoroni in pigiama. «Sta passando un messaggio deleterio: l’insegnamento online, alla fine, avrebbe lo stesso valore di quello in presenza» spiega Tommasetti a Panorama. Tutti i docenti si sono dovuti reinventare esperti di didattica a distanza, con alterne fortune. Anche perché un conto è far lezione a piccoli gruppi. Un altro è, come nella maggior parte dei casi, avere classi con trecento alunni che su una piattaforma digitale si trasformano in altrettanti e indefinibili pallini rossi. Interazioni irrealizzabili. «L’università telematica, che prima era una specie di sotterfugio, ora sembra che sia il futuro. Per molti magari è una comoda scappatoia, ma è solo un estraniante rimpiazzo. Io insegno economia aziendale. Faccio esami dal 1994, ma le prove scritte, adesso, sono impossibili. E poi, di fronte ai sacrifici degli studenti, diventa anche più difficile bocciare qualcuno. Abbiamo distrutto tutto. Per tornare nelle condizioni normali ci vorranno anni».

Intanto, il dibattito scientifico ferve: zona bianca, gialla, rossa o arancione? Scuole, palestre, estetisti, bar, ristoranti continuano a smoccolare, tentando di adeguarsi alle sfumature cromatiche pur di sopravvivere. Per le università, invece, non cambia mai niente. Restano abbandonate nel loro fortilizio accademico, aspettando quel Dpcm che non arriva mai.

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