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ANSA/ DANIEL DAL ZENNARO
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Silvio Berlusconi a Panorama: "Io? Ci sono e rimango"

Intervista con il leader di Forza Italia: dalla Francia alla Rai, dal M5S al Governo e le prossime elezioni. "Sarò sempre in prima linea"

Da sempre la Francia e Parigi in particolare occupano un posto privilegiato nel cuore di Silvio Berlusconi. Da studente si dilettava, lui al microfono e Fedele Confalonieri al pianoforte, a intrattenere il pubblico con le melodie degli chansonnier.

Erano i tempi della Lambro Jazz Band e a mezzanotte precisa il giovanissimo Silvio imbarcato sulle navi da crociera fermava tutto e dava il via a Une voix et une guitare. Lui era la voce... lui la chitarra! Quando a vent'anni, da universitario iscritto a Giurisprudenza, andò nella capitale francese per seguire un corso di diritto comparato alla Sorbona trovò il modo di mantenersi senza pesare sulla famiglia mettendo a reddito la sua passione e così la notte cantava in un cabaret... E come pensate che abbia cullato i figli prima e i nipotini oggi, come ha ammaliato migliaia di supporter tra una dissertazione sulla flat-tax e una sul futuro dell'Italia? Alternativamente con Douce France o l'immortale Que reste-t-il de nos amours di Charles Trenet, con la scanzonata Café du Palais o con le altre 150 canzoni (il numero è approssimato per difetto) del suo repertorio.

E insomma, la Francia.

Per uno di quegli strani incroci della vita, oggi le strade dell'attualità e della vita del Cavaliere portano ancora lì. Questa lunga chiacchierata non può che partire da Parigi, dalla stretta attualità con il risultato delle elezioni che hanno incoronato presidente della Repubblica Emmanuel Macron.

Alla domanda sul neo inquilino dell'Eliseo, seduto nel divano del salotto di Arcore, Silvio Berlusconi assume uno di quegli atteggiamenti che chi lo conosce da oltre vent'anni sa a memoria a che cosa prelude: si rilassa all'indietro, allarga le braccia, china la testa, abbozza un sorriso e guardando prima al soffitto e poi dritto in faccia ti dice con pause ben calibrate: "Ma direttore, qual è la sorpresa... Lo avevo detto...". Poi spiega: "Avevo detto che il risultato di Marine Le Pen al primo turno avrebbe consegnato la Francia a Macron e che la leader del Front National sarebbe stata la miglior alleata della sinistra, pur rappresentando un consenso importante e dei sentimenti diffusi nella società francese. Per un motivo semplice: gli elettori moderati non l'avrebbero mai votata e infatti hanno regalato la vittoria a un candidato che non era il loro. È una vicenda che deve insegnare molte cose anche al centrodestra italiano".

E siamo a un suo cavallo di battaglia. Glielo dico in francese: il rassemblement dei moderati...
E infatti a Salvini e alla Meloni ripeto quello che predico dal 1994: la storia, passata e recentissima, ci insegna che solo se è unito il centrodestra ha chance di vincere. Con i distinguo e le spaccature si perde. Sempre.

Il passato del centrodestra ha avuto tra i protagonisti Fini, Tremonti, Alfano. Il presente, oltre a Salvini e Meloni, ha le facce di Stefano Parisi e Giovanni Toti. Che differenze ci sono?
Non mi chieda giudizi personali sul passato. Posso solo dire che lei ha nominato persone più attente ai loro interessi, ai loro disegni politici o ancor più semplicemente alla loro vanità, che a un progetto comune per l'Italia. Sul presente posso dire questo: Salvini è un goleador che ha cambiato le sorti della Lega. Giorgia Meloni ha determinazione e tenacia: può fare buone cose. Toti è un prezioso collaboratore con il quale non sempre sono d'accordo, ma per il quale ho profondo affetto. Parisi ha potenzialità intellettuali e politiche per il momento poco e mal utilizzate con la creazione di un ennesimo partitino del quale non colgo né la necessità né l'utilità.

Il presupposto di una grande coalizione di centrodestra è quello di ritrovarsi d'accordo su alcuni temi fondanti. Come la mettiamo con le differenze su Europa ed euro?
L'Europa che noi sognavamo, che sognavano grandi statisti come De Gasperi, Adenauer, Schuman, era ben più di un luogo senza guerre e senza confini. Era un grande spazio di libertà, unito da valori comuni, espressione della comune civiltà giudaico cristiana e greco romana e faro di civiltà e di pace per tutto il mondo. Non era certo una burocrazia soffocante e standardizzante, un insieme di regole ottuse e penalizzanti per l'economia, una bandiera retorica dietro la quale nascondersi per imporre scelte impopolari e recessive. Se oggi la gran parte dei cittadini europei detesta l'Europa, la disprezza o almeno le è del tutto indifferente, questo significa che l'Unione europea non funziona. E non si può costruire l'Europa contro le attese dei popoli europei. Se non cambia strada l'Europa fallirà. Ma se fallirà, e io temo davvero che questo possa accedere in un tempo non lontano, saremo condannati alla marginalità, alla debolezza, all'irrilevanza, saremo indifesi da qualunque speculazione finanziaria, con valute deprezzate e disprezzate, ai margini di un mondo globalizzato.

La sintesi di questa Europa unita è la moneta comune, cioè l'euro. È davvero arrivato il momento di prendere coraggio e pensare a metterla da parte con un referendum?
L'euro è una moneta sbagliata, nata in un modo sbagliato e con un cambio assurdo rispetto alla nostra lira. Oggi un euro vale meno di quel che valevano 1.000 lire, altro che 1.936 lire. Ma esiste, e uscirne comporterebbe per noi un prezzo ancora più alto che restarvi dentro. È un tema complesso che non può essere risolto con un referendum, d'altronde tecnicamente impossibile in Italia. La mia idea resta la formula della doppia moneta, come quella delle "AM lire" emesse dagli alleati dopo la liberazione, che sono state la moneta, accanto alla lira, della mia giovinezza e sono state in circolazione sino al 1953. Economisti di primo piano mi hanno confortato al riguardo. L'euro rimane in vigore, soprattutto le importazioni e le esportazioni si continuano a fare in euro, ma noi recupereremmo una parte della nostra sovranità monetaria e potremmo ritornare a stampare moneta con tutti gli enormi vantaggi conseguenti.

Torniamo in Francia. Da Parigi voglio portarla a meno di 500 chilometri a est, a Strasburgo. Qui ha sede la "Grande Chambre" della Corte europea dei diritti dell'Uomo che si pronuncerà sul suo ricorso contro la legge Severino che determinò la sua decadenza da senatore nel 2013. Come vive l'attesa di questo verdetto che può riconsegnarle la cosiddetta agibilità politica?
Aspetto da troppo tempo la decisione di Strasburgo. Ragiono su quella decisione e non mi nascondo mai la verità: anche al di là dei suoi effetti concreti ha un significato immenso. In ballo non c'è solo il mio ritorno politico. Io, comunque vada, sarò in prima linea. Con o senza il nome sulla scheda. Sarò in prima linea con il mio volto, le mie parole, le mie idee a guidare la campagna di Forza Italia. La vera posta in gioco è la grande questione morale e politica. Rivendico, con tutte le mie forze, che mi venga restituita un'onorabilità infangata da una sentenza assurda. Sono stato e sono una persona perbene, un contribuente onesto, e ho il diritto di esigere che la mia onestà venga riconosciuta, se non dall'Italia, dall'Europa, dove siedono giudici che non prendono ordini da nessuno. Giungere alle elezioni senza che Strasburgo abbia fatto chiarezza sarebbe oggettivamente grave. Non solo per me, ma per la democrazia italiana.

Diranno che come tutti i politici anche lei è attaccato alla poltrona... (Berlusconi fa una pausa mentre scuote la testa, accenna a un sorriso che somiglia più a una smorfia) Per me la politica non è assolutamente la vita. Anzi è qualcosa che mi ha rovinato la vita per più di vent'anni. Ma anche adesso il mio senso di responsabilità verso il Paese che amo mi impone di restare in campo per non consentire a forze improvvisate e incapaci, pauperiste e giustizialiste, di vincere le elezioni e di conquistare il potere.

Le muovo allora un'altra obiezione che ripetono i suoi detrattori: la sua discesa in campo e l'impegno in politica è stato necessario soprattutto per tutelare le sue aziende.
La verità, sottolineo la verità, è che le mie aziende sono vissute in pace fino a quando non sono entrato in politica. Dopo il mio ingresso in politica Fininvest è stata costretta a svendere Standa per l'azione dei gruppi di boicottaggio organizzato dalla sinistra, (Bobe = boicottate Berlusconi, ndr) che ha diminuito del 36 per cento i clienti della Standa e di Euromercato. Mediaset è stata sottoposta a un referendum che avrebbe potuto cancellare due reti e anche la pubblicità e con essa l'unica fonte di reddito della tv commerciale. Ma soprattutto le aziende del gruppo sono state oggetto di un'attenzione ossessiva da parte della magistratura, senza alcun risultato concreto. Le azioni giudiziarie, le perquisizioni, i controlli a tappeto si sono moltiplicati negli anni fino a raggiungere cifre impressionanti, colpendo i miei più stretti collaboratori e anche i miei familiari. Non mi sembra sia accaduto lo stesso ad altre aziende, alcune delle quali in seria difficoltà, ma pronte a venire a patti con la sinistra o addirittura a farsene megafono e sostenitore in ambito editoriale. Lei, caro direttore, dovrebbe saperlo meglio degli altri avendo subìto due condanne al carcere senza condizionale per aver fatto semplicemente il suo lavoro. E sa che questo è accaduto perché, da giornalista libero e mi faccia dire, grazie a una famiglia di editori liberali, ha espresso opinioni difformi al "dettato" giustizialista tanto caro, a fasi alterne, alla sinistra.

Chiudiamo il capitolo giudiziario che la riguarda. Guardando indietro vivrebbe diversamente il periodo della sua vita che è coinciso con le "cene eleganti"?
Già, le "cene eleganti". L'espressione è mia, sa? La dissi una sola volta e come mi capita spesso in quello che faccio è diventata storia. Non sfuggo alla sua domanda. Vede, in quel momento della mia vita mi ero separato da Veronica: ero solo, lavoravo e lavoravo. Notte e giorno. Anche il sabato, anche la domenica. Nelle poche ore libere invitavo a cena a casa qualche amico, c'erano fra loro anche delle ragazze... Non potevo immaginare che un comportamento assolutamente corretto desse l'occasione a un uso inaccettabile degli strumenti di indagine, e una invenzione incredibile di fatti non provati... Una storia brutta che ha fatto male a me, alla mia famiglia, a chi mi vuole bene, a tanti miei amici colpevoli solo di aver pranzato a casa del presidente del Consiglio e che ha rovinato la vita a tante ragazze.

Anche nel caso di Matteo Renzi incombe una tegola giudiziaria. Che idea si è fatto dell'inchiesta Consip nella quale tra gli indagati figura il papà dell'ex premier?
Prima di tutto, le vicende del padre di Renzi non dovevano avere a che fare con la dialettica politica, anche perché la responsabilità, ammesso che ci sia, è personale. Se Tiziano Renzi risulterà innocente sarò il primo a esserne contento. Comunque non userò mai contro i miei avversari lo strumento giudiziario come arma di lotta politica, come loro hanno spesso fatto con me. Ne ho subìto troppo a lungo gli effetti, per non denunciare - chiunque ne sia la vittima - quella che è diventata una vera anomalia democratica: l'uso politico della giustizia.

Parliamo di politica pura, allora. Il Partito democratico ha celebrato le sue primarie e Renzi ha stravinto. Perché ritiene che non siano un metodo virtuoso anche per il centrodestra?
Intanto, le primarie del Pd hanno consegnato un risultato largamente atteso che riproduce gli equilibri interni al partito soprattutto dopo la scissione della sinistra. Ma non comprendo, davvero, perché il centrodestra dovrebbe imitare questo metodo che appassiona sempre meno italiani. Un candidato premier si sceglie facendo la sintesi delle idee, dei valori e dei programmi del centrodestra e vedendo chi è meglio in grado di rappresentarli, di convincere gli italiani e di governare il Paese con determinazione, con efficienza, serietà e credibilità. Non attraverso una grossolana conta di chi ha la maggiore capacità di mobilitare militanti organizzati. In ogni caso, fino a quando la materia non fosse eventualmente imposta e regolata per legge, il problema per Forza Italia non si pone.

I giornali descrivono il governo al guinzaglio di Matteo Renzi nella veste di premier ombra. Quanto fa male questo alla credibilità dell'Italia?
Io so che l'Italia ha un presidente del Consiglio che stimo, che si chiama Paolo Gentiloni, e ha un governo che è espressione del Partito democratico, il cui leader è Matteo Renzi. Ovviamente noi di questo governo siamo all'opposizione nel modo più chiaro e coerente, perché i suoi programmi, i suoi contenuti, le donne e gli uomini che ne fanno parte, sono molto diversi da noi. È giusto che il Pd si assuma le responsabilità di quello che fa il governo, anche degli errori e delle scelte impopolari. Mi piace molto meno l'ambiguità, secondo la quale il governo Gentiloni è il governo del Pd quando fa comodo, e quando non conviene diventa un corpo estraneo, da richiamare all'ordine o addirittura da contestare, come è accaduto sulle norme per la legittima difesa. Sembra di tornare ai tempi del vecchio Pci "partito di lotta e di governo", capolavoro della doppiezza coltivata fin dai tempi di Togliatti, ma non certo un buon esempio di correttezza politica e istituzionale. Soprattutto, l'ennesimo tentativo di prendere in giro gli italiani, che a farsi prendere in giro non sono più disposti. Grillo e l'astensionismo crescono proprio così.

È d'accordo con chi crede che Renzi voglia anticipare il voto in autunno per evitare di "subire" una manovra finanziaria che si annuncia devastante?
Chiedere il voto per evitare la manovra economica è il tipico modo di comportarsi di una classe politica che pensa a sé stessa e non al Paese. È giusto andare al voto al più presto, ma lo scopo è quello di consentire agli italiani di decidere il loro futuro, non quello di evitare alla propria parte politica la responsabilità di misure impopolari. Dobbiamo invece mettere in condizione gli elettori di votare per scegliere da chi essere governati, senza condannare il Paese all'ingovernabilità per effetto di una legge elettorale contraddittoria.

Lei è un inguaribile ottimista: l'Italia che arranca, che cresce meno di tutti gli altri Paesi in Europa e che è alle prese con una drammatica crisi occupazionale, ha motivi per esserlo?
Se dovessi raccontare il Paese con un aggettivo direi che vedo un'Italia affaticata. E - come scriveva più di 100 anni fa un grande intellettuale liberale, Giovanni Amendola - non mi piace. Se la politica non si rinnova continuamente e anzi si richiude in sé stessa e diventa un sistema di potere angusto, fatto di professionisti della politica che pensano prevalentemente alla propria autoconservazione, il Paese va a fondo. È questa la malattia, è questa la ragione dell'antipolitica, dello scoraggiamento diffuso.

Nessuna autocritica?
Con me Grillo non c'era e certamente con me non sarebbe cresciuto così. Ma ora bisogna fare i conti con i milioni di voti che vanno a una forza politica improvvisata e pericolosa come il Movimento 5 Stelle. C'è un clima brutto. La metà degli italiani non va più a votare. Chi vota Grillo esprime, sia pure in modo non razionale, una protesta contro l'establishment e quindi una volontà di cambiamento. Chi non vota è rassegnato. La stessa rassegnazione che porta i nostri migliori giovani a cercare un avvenire all'estero, la stessa rassegnazione che porta molti imprenditori a chiudere o che li costringe a vendere agli stranieri, quando devono cedere un'attività, perché non esiste più un acquirente italiano credibile. È successo anche a me, con il Milan.

Ahi, il Milan...
Già, il mio Milan... Mi mancherà enormemente, ma ora che i soldi del petrolio hanno cambiato il calcio, nessuna famiglia per quanto benestante ha più la forza economica per mantenere una squadra ai livelli che il Milan merita. Rimarrò il primo tifoso del Milan, pronto ogni domenica a gioire e a soffrire, come facevo da bambino quando mio padre mi portava allo stadio.

Tiriamo via questo velo di malinconia, provo a farlo chiamandola a rispondere con una metafora calcistica: come si batte Grillo?
Si batte mettendo in campo una proposta politica di qualità, affidata a persone credibili. Si batte inchiodando Grillo alle sue contraddizioni, ai suoi esasperati tatticismi. Come chiunque non abbia un'idea propria davvero radicata, lui può sposare con disinvoltura le posizioni più contraddittorie. Può provare per esempio a dialogare con il mondo cattolico, senza rinunciare al suo linguaggio fatto di odio, di rancori, di indici accusatori puntati, di inquietante violenza verbale. Questo mentre l'emblema della Chiesa di Papa Francesco è il perdono, la mitezza, la misericordia. Mi sembra davvero assurdo.

Esclude allora una nuova versione del patto del Nazareno, magari con l'unico obiettivo di varare una legge elettorale anti Grillo?
Mi faccia fare una premessa: il patto del Nazareno era un accordo sulla legge elettorale e sulla riforma della Costituzione, non un progetto politico. No, non vedo le condizioni perché si possa riproporre oggi. Non esiste un accordo con il Pd in funzione difensiva contro il partito di Grillo. Noi puntiamo a vincere con le nostre idee e i nostri progetti. Se i partiti si illudessero di chiudere la strada a Grillo con accordi di potere, avrebbero sbagliato totalmente strada. Paradossalmente sarebbe il miglior regalo a Grillo, la dimostrazione che le sue fantasiose e talora farneticanti teorie hanno un minimo di fondamento.

Idee e progetti devono fare i conti con la realtà. Iniziamo dall'immigrazione che è un cavallo di battaglia di Salvini grazie anche a un'Europa egoista e priva di visione.
Questa immigrazione è una grande tragedia da gestire. E non si gestisce né con il filo spinato, né con la retorica dell'accoglienza. Questo lo dico a Salvini e lo dico all'Europa. Credo che due doveri, il rispetto per ogni essere umano e la tutela della sicurezza degli italiani, debbano sempre procedere affiancati. I migranti non sono colpevoli, sono sventurati. Ma la migrazione in Italia non è, non può essere, la soluzione alle loro sventure. Abbiamo il dovere di aiutarli, di costringere l'Europa a farsene davvero carico, ma soprattutto abbiamo il dovere di spegnere sul nascere questo infame traffico di esseri umani. Il mio governo c'era riuscito. Sto parlando dei trattati con la Libia e con gli altri Stati africani sul Mediterraneo. È l'unico sistema efficace. Gheddafi, contro un rimborso di 3,5 miliardi di dollari, aveva messo in campo seimila soldati per controllare le coste intervenendo anche sulle imbarcazioni asportando le eliche e qualche parte di motore. Ora serve un nuovo grande piano europeo per ottenere lo stesso intervento da tutti i Paesi costieri. Ma non basta. Occorrerà, sotto la bandiera dell'Onu, realizzare un grande Piano Marshall per i principali paesi di provenienza dei migranti.

Strettamente connesso al grande tema della disoccupazione c'è quello di una povertà che aggredisce sempre di più le famiglie. Dove sta sbagliando la politica?
L'errore è nel non mettere al centro i soggetti deboli. Quando in un Paese dell'Europa, un Paese che fa parte del G7, vi sono 15 milioni di poveri certificati dall'Istat, e di questi 4,6 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta, che significa letteralmente non avere da mangiare e vivere di sussidi ed elemosine, allora c'è un problema colossale che dobbiamo affrontare con urgenza assoluta. Bisogna partire da loro. Non credo sia possibile essere felici quando intorno a te ci sono altri che soffrono. Lo penso davvero: il fatto che anche un solo uomo soffra riguarda tutti noi. È per questo che dobbiamo affrontare l'emergenza povertà. Serve una misura immediata che abbiamo definito reddito di inclusione, e che è ispirata agli studi del grande economista liberista Milton Friedman: sotto una certa soglia di reddito, non è più il cittadino che paga tasse allo Stato, ma è lo Stato che versa denaro al cittadino (ovviamente a certe condizioni di rispetto della legalità e di impegno all'integrazione). Ma non basta, non può bastare. Serve una strategia per le famiglie con più figli, servono risposte puntuali ai nostri anziani, alle nostre mamme: oggi una pensione minima di mille euro è la condizione necessaria per sopravvivere con dignità.

Che effetto fa all'uomo accusato - e che ha sempre smentito - di aver emanato "l'editto bulgaro" sentire oggi Fabio Fazio affermare che mai in Rai, dove lui è una star da oltre trent'anni, la politica ha avuto un'ingerenza come adesso al punto da fargli dire, paventando l'addio, "Così non si può lavorare"?
Vorrei fare, con il suo permesso, due considerazioni. La prima riguarda la fortuna dell'espressione "editto bulgaro", che dimostra come la sinistra sia padrona della comunicazione politica e la usi in modo abile e spregiudicato. Mi viene in mente quello che scrisse George Orwell nel suo capolavoro 1984, spietata allegoria della dittatura comunista, nella quale uno degli strumenti più sofisticati del potere totalitario era la cosiddetta "neo-lingua", cioè l'utilizzo delle parole in un senso diverso, opposto alla realtà, per imporre delle verità inventate di sana pianta. Fu un abile giornalista dell' Unità a coniare questa espressione a commento di una mia dichiarazione che oggi ripeterei tale e quale, e cioè che la Rai - servizio pubblico pagato con denaro pubblico - non può essere usata come un'arma per attaccare e linciare un avversario politico, tantomeno il leader dell'opposizione. Invitai la dirigenza Rai di allora, come invito la dirigenza Rai di oggi, a rispettare questa elementare regola di democrazia. Il fatto che una cosa così ovvia, una difesa della libertà e del pluralismo nel servizio pubblico, sia diventata nel linguaggio dei media l'esatto opposto, dimostra l'abilità della sinistra nello stravolgere la verità. E il fatto che se ne parli ancora adesso, quando oggi come allora le interferenze politiche sulla tv pubblica sono compiute dalla sinistra e non certo da noi, dovrebbe far riflettere le persone in buona fede.

E su Fazio?
È la seconda considerazione, appunto, e riguarda Fabio Fazio. È un professionista della televisione, con il quale spesso non sono d'accordo, ma che conosce e sa usare lo strumento televisivo con grande "mestiere". Lo dico da uomo di televisione: nessuna azienda televisiva si priverebbe di un protagonista come lui, il cui costo - in un sistema di mercato - è ampiamente coperto dal ritorno che dà all'azienda in termini di audience. Voglio aggiungere che Fazio, a differenza di altri giornalisti e uomini di spettacolo, ha le sue idee e non le nasconde, ma è un professionista corretto. Ricordo con piacere un'intervista che mi fece l'anno scorso: fu una pagina televisiva di qualità, rispettosa anche se tutt'altro che appiattita.

Sulla legittima difesa siamo al tentativo di mettere una pezza a una legge papocchio. Lei è per il diritto alla difesa in casa "sempre e comunque"?
Da molto tempo questa è una battaglia di Forza Italia. Il Pd invece ancora la settimana scorsa alla Camera è stato molto ambiguo: da una parte hanno accolto alcune delle nostre proposte, dall'altro non se la sono sentita di scrivere una legge coraggiosa. Il risultato è un testo talmente confuso da sfiorare la comicità, con la norma paradossale che autorizza certe reazioni solo negli orari notturni: il che è infatti diventato oggetto di innumerevoli satire. Questo è molto grave dato che stiamo trattando di un argomento drammatico, nel quale è in gioco la vita delle persone. Io non sono affatto per il Far west, anzi penso che la difesa della vita e della proprietà dei cittadini sia il principale compito dello Stato liberale, la ragione stessa per la quale gli stati esistono. In teoria, uno Stato perfettamente liberale dovrebbe fare solo questo. Quindi se lo Stato non lo fa, la colpa è sua: non certo delle forze dell'ordine, che al contrario, con i mezzi di cui dispongono, fanno veri e propri miracoli, ma neppure dei cittadini che sono due volte vittime quando sono costretti a difendersi da soli. Ma c'è anche una considerazione, mi passi il termine, psicologica...

Cioè?
Mi domando se si pensi davvero a quello che prova una persona perbene che di notte scopre un malintenzionato in casa sua, che vede in pericolo la sua vita, quella dei suoi cari, le sue proprietà frutto di una vita di lavoro. Pensiamo alla paura che prova, all'angoscia, all'incertezza, alla difficoltà di decidere se e come reagire. Parliamo di comuni cittadini, non di professionisti della sicurezza addestrati all'uso delle armi e abituati a valutare con freddezza le situazioni e il grado effettivo di pericolo. Mi domando ancora se si pensi, qualora la vittima usi un'arma e uccida il malvivente, all'angoscia che avrà provato, all'orrore di quel momento, che ne segnerà probabilmente il resto della vita, al senso di colpa che probabilmente si porterà dentro per sempre. Io credo che lo Stato debba essere senza esitazione dalla sua parte. Considerarlo vittima e non colpevole, salvo clamorose evidenze del contrario. Non si deve aggiungere un'ulteriore afflizione a chi già ha subìto una violenza.

Accanto ai temi di tutti i giorni ci sono quelli etici, non meno importanti. La legge sul fine vita è appena stata approvata alla Camera e ha avuto un'accelerazione dopo la vicenda di dj Fabo dove si mescolano malattia, sofferenza, morte ed eutanasia. E Silvio Berlusconi come si pone davanti a ognuna di queste parole?
Amo la vita, fino al punto di fare fatica a comprendere chi voglia rinunciarvi. Io credo che lo sforzo che lo Stato dovrebbe compiere sia quello di aiutare a vivere, non di aiutare a morire, naturalmente nel rispetto della libertà di ciascuno. Da cristiano credo che la speranza sia una grande virtù, che la vita abbia un significato e un valore sempre e comunque. Da liberale vorrei che lo Stato si fermasse sulla soglia di scelte delicate e complicatissime. Vorrei che la decisione sui trattamenti ai quali dev'essere sottoposto un malato fosse affidata all'interessato se cosciente, ai suoi cari se incosciente, in stretta collaborazione con la professionalità e l'etica dei medici. Non vorrei essere un paziente né un medico vincolato a un'espressione di volontà formulata in condizioni completamente diverse, magari molti anni prima, e senza conoscere la situazione specifica del momento, le opportunità di cura, di trattamento del dolore, di accompagnamento sereno nella malattia o verso la morte. Credo che affidare la morte allo Stato sia l'estremo tentativo di una cultura illuminista e materialista di esorcizzarla e non accettarla come parte della vita, di ridurre a norma quella che è una naturale conclusione, da affrontare se possibile con serenità. Anche perché, come diceva un filosofo greco, non ha senso temere la morte: quando c'è lei, non ci sono più io. Ovvero - aggiungo da cristiano - ci sono ancora, ma in una prospettiva che va al di là della morte, la supera e la sconfigge.

Presidente, chiudiamo alzando lo sguardo sul mondo e sui suoi protagonisti. Sul tavolino davanti a dove siamo seduti c'è una sua foto in cui sorride tra George W. Bush e Putin. I tempi del dialogo torneranno?
Devono tornare, guai se non fosse così. Questa foto mi emoziona particolarmente. Era il 2002, a Pratica di Mare. Ricordo come oggi il lungo e appassionato lavoro di preparazione. Arrivai a convincere il presidente americano e quello russo a firmare l'accordo che associando la Russia alla Nato poneva di fatto fine alla guerra fredda...

Ci vorrebbe un Berlusconi a mediare tra Donald Trump e Kim Jong-Un?
Ci vorrebbe molto buon senso, innanzitutto. E certo ci vorrebbe qualcuno in grado di far ragionare e smussare, far sedere al tavolo le parti e trovare un punto di equilibrio. Fermo restando che non si può ovviamente mettere sullo stesso piano una grande democrazia, un Paese amico e alleato come gli Stati Uniti, e un tiranno comunista feroce come il dittatore nordcoreano, che va ovviamente ricondotto alla ragione. Tuttavia le escalation militari sono spesso il modo peggiore di risolvere i problemi. Occuparmene io? Al momento sono "inagibile"...

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Giorgio Mulè