Shin Dong-Hyuk
Getty
News

Io, fuggito dal Campo 14

Shin Dong-Hyuk, 32 anni, è l’unico evaso da uno dei tanti centri di prigionia del regime nordcoreano. Lì dentro era nato, ma la sua famiglia era rinchiusa da due generazioni. Oggi arriva a Milano a testimoniare i misfatti dei nuovi lager

Torna oggi a Milano (c/o Libreria Rizzoli, Galleria Vittorio Emanuele II, Milano - h. 18,30) Shin Dong-Hyuk, esule nordcoreano fuggito dai campi di prigionia a 23 anni. Ambascaitore ONU per i diritti umani, ha raccontato la sua odissea nel libro "Fuga dal Campo 14” (Codice edizioni). Noi l'avevamo intervistato appena uscito il libro. Ecco l'articolo che raccontava il nostro incontro.

Ogni volta che termina di parlare in pubblico, Shin Dong-Hyuk viene circondato da persone che vorrebbero abbracciarlo o soltanto stringergli la mano. Quasi sempre questo ragazzo di 32 anni e 50 chili si ritrae esibendo sguardo basso e sorriso imbarazzato: là dov’è nato, e dove ha passato oltre due terzi della vita, i contatti umani erano (e sono) vietati dal regolamento, e le manifestazioni d’affetto punite con la fucilazione.
Shin è l’unico a essere nato in un campo di concentramento nordcoreano e a essere riuscito a scappare per raccontarlo. Ha visto la luce nel 1982 tra le baracche del Campo 14 di Kaechon, il più grande «spazio di rieducazione e lavoro collettivo» della Corea del Nord. La sua unica colpa era quella di avere uno zio che nel 1951, durante la guerra civile, era fuggito al Sud: e le famiglie dei disertori, come stabilì a suo tempo il «Grande Leader» Kim Il Sung, vanno internate per tre generazioni consecutive.


Shin è l’ultimo discendente di una famiglia disgraziata come il suo quasi coetaneo Kim Jong Un lo è di una élite forgiatasi nella dittatura. Concepito durante uno dei cinque incontri coniugali annui concessi ai prigionieri, Shin ha passato l’infanzia a studiare e lavorare, convinto che all’orizzonte si nascondessero soldati americani armati e invidiosi delle loro vite spartane.
A 14 anni le guardie lo hanno sistemato in prima fila per assistere a una delle tante esecuzioni: i due condannati a morte erano sua madre e suo fratello, colpevoli di aver architettato un piano di fuga che lui stesso aveva scoperto e denunciato. A 23 anni, nel 2005, è scappato dal campo: non cercava la libertà, non sapeva nemmeno cosa fosse, cercava solo qualcosa da mangiare.
Ora Shin mangia in continuazione, ma i medici che lo hanno esaminato dicono che non ingrasserà mai perché il suo metabolismo è stato modellato irreversibilmente dalla fatica, dalle torture e dalla fuga a piedi attraverso le montagne. La sua storia, raccontata dal giornalista americano Blaine Harden nel bestseller Fuga dal Campo 14 (appena pubblicato in Italia da Codice edizioni) evoca paragoni illustri: da Primo Levi ad Alexsandr Solgenitsin.
Ma forse è qualcosa di più. Perché Shin non è stato rubato a una vita precedente e lo strappo esistenziale che racconta, con tutte le conseguenze traumatiche del caso, è quello con un presente fatto di hamburger, abiti colorati, smartphone e libertà di parola. E perché di Auschwitz sappiamo ormai tutto, mentre di quel che accade a nord del 38esimo parallelo non conosciamo quasi nulla.

Più o meno un mio concittadino su dieci è stato incarcerato almeno una volta nella vita per motivi politici: perché scatti basta possedere una Bibbia, una radio a onde medie o dimenticare la data di nascita di uno dei membri della famiglia Kim

Oggi qual è la situazione dei detenuti nordcoreani?
Degli oppositori politici in cella non si ha notizia. Più o meno un mio concittadino su dieci è stato incarcerato almeno una volta nella vita per motivi politici: perché scatti basta possedere una Bibbia, una radio a onde medie o dimenticare la data di nascita di uno dei membri della famiglia Kim. I «rieducabili», quelli che come me vengono destinati ai campi di lavoro, sono tra i 150 e i 200 mila.
Com’è la vita quotidiana all’interno del Campo 14?
Infernale e alienante: non esistono altri termini per definirla. Appello, lavoro, pranzo, lavoro, cena. Luci spente presto. Pidocchi. Odore di cavolo e mais misto a sangue e sudore. Sette giorni su sette.
Che rapporto aveva con le guardie?
Di sottomissione totale. Hanno potere di vita e di morte assoluto su chi vive dentro al campo. Al 14 i detenuti scontano tutti la stessa pena: l’ergastolo. E sognano tutti la stessa cosa: morire in fretta.
Si suicidano in molti?
Nessuno. Il suicidio è vietato dal regolamento.
Lei a 14 anni ha denunciato sua madre. Com’è possibile fare una cosa del genere?
È possibile solo inquadrando il contesto, dove per evitare violenze e fame sei disposto a qualsiasi cosa. L’avevo ascoltata pianificare la fuga con mio fratello maggiore, e chiunque non denunci una cosa del genere viene impiccato con la bocca piena di sassi. Ho dovuto farlo. Speravo di ottenere cibo extra e la promozione a capoclasse, perché i capiclasse danno più botte di quante non ne prendano.
Che cosa ha provato assistendo all’esecuzione di sua madre e suo fratello?
Nessuna emozione particolare: solo sollievo perché non era toccato a me, e la consapevolezza che fosse giusto così. In fondo odiavo mia madre.
Perché?
Mi aveva partorito pur conoscendo l’inferno che mi sarebbe toccato. È il motivo per cui moltissime donne, nei campi, abortiscono o uccidono i neonati subito dopo averli dati alla luce. Lei non lo fece.
Cosa le direbbe, se potesse rivederla?
Le chiederei perdono. Purtroppo non posso più farlo. Ma posso dire una cosa a voi occidentali, che conducete una vita normale ma spesso vi scontrate con le vostre madri.
Che cosa vuole dirci?
Ringraziate sempre i vostri genitori per avervi fatto diventare quel che siete, qualsiasi cosa siate diventati. Ringraziateli tutti i giorni, prima che sia troppo tardi.
Suo padre è ancora recluso nel campo?
Non saprei. Anche ammettendo che non l’abbiano fucilato dopo la mia fuga, lì dentro pochi riescono ad arrivare a 50 anni.
Un mese fa, di ritorno da un viaggio a Pyongyang, il segretario leghista Matteo Salvini ha raccontato che in Corea del Nord vige un forte senso di comunità, e che i bambini possono ancora giocare per strada.
Dica a questo signore che io non ho mai giocato in vita mia, e che il popolo nordcoreano un giorno si ricorderà di chi ha diviso tavole imbandite con chi lo torturava.
Le torture sono una routine diffusa?
Sì, e sono capaci di farti ammettere qualsiasi colpa. A ogni piccola mancanza, ti tocca un’amputazione (Shin ha perso una falange del dito medio sinistro per aver fatto cadere un attrezzo da lavoro, ndr) o un giro nei sotterranei, dove il soffitto è alto 80 centimetri e devi stare a quattro zampe. Nelle baracche ci sono vasche d’acqua per affogare i detenuti, ganci attaccati al muro per appenderli in posizione fetale sopra il fuoco, flaconi d’acqua mista a peperoncino da versarti nel naso.
Sta descrivendo scene da Olocausto.
È molto simile, in effetti. Quando i sudcoreani e gli americani mi hanno mostrato le immagini dei lager nazisti mi sono messo a piangere come un bambino. Sto ancora cercando di diventare un uomo, dalla bestia che ero. Ho letto che alla fine della Seconda guerra mondiale molte persone dissero: «Se solo avessimo conosciuto le atrocità che venivano compiute dai nazisti, avremmo agito prima e meglio». Bene: ora che io vi ho raccontato la mia storia e vi dico anche che Google Earth mostra ogni singola porzione del Campo 14, quelle atrocità le avete davanti agli occhi. Agite.
Ritiene impossibile una ribellione dall’interno?
No, ma potrebbe volerci ancora molto tempo, troppo. La popolazione è esausta, ma è anche stordita da più di 60 anni senza reali contatti con il mondo. Pensano davvero che l’inferno sia fuori, e fino a poco tempo fa lo pensavo anch’io.
Perché è fuggito, allora?
Un altro detenuto, che aveva vissuto all’esterno, mi aveva detto che fuori c’era da mangiare. E io avevo tanta fame. Se si escludono topi e lumache, non assaggiavo carne da anni.
Carne a parte, di che cosa sa la libertà?
Non so, non riesco ancora ad abituarmi. Pensavo che poter mangiare, dormire e muovermi senza chiedere il permesso bastasse per superare gli incubi ed essere felice. Invece non lo sono. Ma credo che non lo sarò mai.

I più letti

avatar-icon

Gianluca Ferraris

Giornalista, ha iniziato a scrivere di calcio e scommesse per lenire la frustrazione accumulata su entrambi i fronti. Non ha più smesso

Read More