Al Qaeda e Isis: come cambia il marketing del terrore
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Al Qaeda e Isis: come cambia il marketing del terrore

Le differenze di strategie comunicative tra i due gruppi fondamentalisti: gli jihadisti fai-da-te

Cinque giorni dopo che i tagliagole dello Stato islamico hanno decapitato il giornalista James Foley, un altro reporter americano, Peter Theo Curtis, è stato liberato da un secondo gruppo jihadista, Jabhat al Nusra, la branca di Al Qaida in Siria. Due storie analoghe con due finali drammaticamente differenti. Non è per una serie di circostanze fortuite che uno è potuto tornare ad abbracciare i suoi cari a Boston mentre l’altro è stato trasformato in strumento di propaganda e poi selvaggiamente ucciso davanti a una telecamera: è l’esito di due strategie competitive nel marketing del terrore. Il diverso trattamento dei prigionieri americani illustra una differenza consolidata fra al Qaida e lo Stato islamico non soltanto nel condurre il jihad ma nel reclutamento globale di volontari e nella costruzione di una narrazione favorevole presso il mondo islamico.

Per lo Stato islamico l’esposizione della brutalità è lo strumento più efficace per diffondere il suo verbo di morte. Così, nel caso di Foley, ha messo in piedi quella che l’analista Robert Kaplan definisce una “produzione cinematografica sofisticata e professionale appositamente costellata di simboli potenti”. La tuta arancione dei detenuti di Guantanamo, i capelli rasati, il deserto alle spalle, la lama corta invece della spada per rendere la decapitazione ancora più lenta e atroce.  Altri gruppi, come Ansar Bayt al Maqdis, hanno assunto la stessa strategia: ieri i terroristi, probabilmente legati allo Stato islamico, di stanza nel Sinai hanno diffuso un video in cui decapitano quattro persone, accusate di essere "spie del Mossad".

Per al Qaida, invece, gli eccessi di violenza filmati e diffusi in rete rischiano di essere controproducenti, perché alienano il mondo musulmano invece di suscitare l’ardire di unirsi al jihad. E’ innanzitutto una guerra di conquista dei cuori e delle menti. E’ possibile che Jabhat al Nusra abbia deciso di liberare Curtis a ridosso della morte di Foley, dopo averlo tenuto prigioniero (e averlo torturato) per due anni, proprio per marcare la differenza con i metodi del Califfato, riciclandosi così come alternativa “compassionevole” alla cieca bestialità degli uomini di al Baghdadi. La disputa non è nuova.

Nel 2005 Ayman al Zawahiri, attuale capo di al Qaida e allora braccio destro di Osama Bin Laden, ha scritto una lettera ad al Zarqawi, leader del franchising qaidista in Iraq noto l’efferatezza delle sua gesta, mettendolo in guardia: “Il califfato non verrà mai stabilito senza il sostegno popolare”. Le decapitazioni di Zarqawi e la foga assassina delle sue squadracce verso gli sciiti avevano finito per danneggiare l’immagine di al Qaida preso il popolo di cui aveva necessariamente bisogno per raggiungere il suo obiettivo finale, il califfato. Poco dopo Zarqawi è stato ucciso da un bombardamento americano. Secondo l’agente che ha pubblicato il racconto della vicenda sotto lo pseudonimo Matthew Alexander, qualcuno l’aveva tradito.

Lo stesso Bin Laden nelle lettere ritrovate nel suo rifugio in Pakistan lamentava che l’eccessivo ricorso alla violenza aveva permesso al governo americano di instillare nell’opinione pubblica l'idea che al Qaida non rappresentasse l’islam, dunque quella in corso non era una guerra di religione. Aveva persino pensato di cambiare nome al gruppo per ricostruirsi una reputazione più moderata, per dir così. Chi si è staccato e ha cambiato nome, invece, sono gli eredi di Zarqawi, i massimalisti dello Stato islamico che hanno creato il califfato senza indugiare nelle tappe di avvicinamento, si sono dati alla caccia ai “crociati” occidentali, passano a fil di spada gli odiati sciiti ma anche i sunniti che non abbracciano l’interpretazione estrema della dottrina imposta da al Baghdadi. Questo è il brand dello Stato islamico, in competizione con l’immagine gradualista che al Qaida vuole dare di sé per non alienarsi del tutto il mondo arabo. Nel caso dei giornalisti americani, una strategia di marketing può fare la differenza fra la vita e la morte.
 

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Mattia Ferraresi