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A passeggio per Venezia con l’ultimo doge

A passeggio per Venezia con l’ultimo doge

Gianmaria Donà dalle Rose, discendente dei nobili che hanno guidato la Serenissima, racconta aneddoti della città segreta, fuori dalle solite rotte turistiche.


«Ho sempre passeggiato molto a Venezia, mai con un’idea fissa. Anche perché a Venezia la fissità è impossibile». Comincia con un pensiero spiazzante il viaggio per le calli immobili di un luogo un po’ cammeo e un po’ museo, che il mondo immagina fermo dentro una stampa del Canaletto. Ma bisogna fidarsi di Gianmaria Donà dalle Rose, che potremmo definire «l’ultimo doge» se lui non ce lo vietasse gentilmente «per non farmi prendere in giro dagli amici».

Veneziano dall’eterno ritorno (vive anche a Milano, ovviamente in corso Venezia), manager McKinsey e Rcs, per 20 anni presidente di Fox Italia e Spagna, di dogi ne sa qualcosa: fra gli antenati ne ha avuti tre. Tutti nel Cinquecento. Francesco, l’unico sepolto fuori dalla città; Nicolò, che combattè a Lepanto e resse le sorti della Serenissima solo per 35 giorni. E Leonardo, il più leonino e irregolare, che litigò con il Papa e finanziò Galileo Galilei per l’invenzione del cannocchiale. Dal ritratto sulla parete del soggiorno, adesso è qui con aria burbera ad ascoltarci.

Si parte con «un percorso senza inizio né fine» dentro un mondo di terra e acqua popolato da 50.000 sopravvissuti. «Trent’anni fa eravamo 100.000 abitanti, poi il crollo. L’importante è che Venezia non sia museificata, ma resti viva. Servono i giovani, la cultura, le fondazioni e un turismo diverso da quello mordi e fuggi». Dalla finestra del palazzo in campo Santa Giustina indica i tetti in direzione Canal Grande: lì passavano le navi da crociera, oltre i camini del terzo piano, oltre gli abbaini, più alte del campanile di San Marco. «Per fortuna ce le hanno tolte dall’orizzonte. Ma andiamo».

Oltrepassiamo il ponticello privato – segnale supremo di eccellenza sociale – e ci incamminiamo seguendo la traccia del suo libro fresco di stampa, Sette giorni a Venezia (Edizioni Settecolori, pp. 232, 15 euro), illuminante nel sottotitolo: «Una flânerie artistica tra sestieri, bacari e campielli». È l’altra Venezia, quella non esplorata dalle guide. Quella di Ezra Pound e Hugo Pratt, con gli scorci di William Turner e la colonna sonora di Antonio Vivaldi il mattino e Igor Stravinskij la sera. Quella di Gianmaria bambino che andava al Cannaregio a vedere la Reyer giocare a pallacanestro nella chiesa sconsacrata della Misericordia, «con Tonino Zorzi in panchina e i giocatori che centravano gli affreschi a pallonate».

Davanti a palazzo Labia, oggi sede della Rai, si ferma. «Il miliardario spagnolo Carlos de Beistegui lo acquistò nel 1949 e due anni dopo vi organizzò il Ballo orientale, quello che molti hanno definito il ballo del secolo. C’erano l’Aga Khan, Barbara Hutton, Cecil Beaton, Salvador Dalí, Winston Churchill, i duchi di Windsor. I costumi furono disegnati da Pierre Cardin, nato a Treviso, che quella sera vide decollare la carriera di stilista. I miei genitori erano tra gli invitati. Messe a letto le mie due sorelle (io non ero ancora nato) andarono a piedi e trascorsero ballando la più magnifica serata della loro vita mondana».

Il fascino delle flâneries è in una frase mai pronunciata, «parola di testimone», che accompagna discreta i racconti e a un certo punto li interrompe; non si può rinunciare a uno spuntino, per esempio all’Osteria da a’ Marisa, considerata da Arrigo Cipriani la miglior cuoca di Venezia. Domande e risposte. Perché il Ghetto si chiama così? «Perché c’erano le fonderie dove si gettava il bronzo per fondere le bombarde della poderosa flotta della Serenissima. Getto. La «g» da morbida sarebbe diventata dura per la massiccia presenza di ebrei tedeschi».

Perché lord Byron si rifugiava all’isola di San Lazzaro degli Armeni? «Perché ogni tanto si pentiva degli stravizi e sentiva il bisogno di ritemprare corpo e mente nella piccola comunità di monaci, dove la leggenda vuole che si fosse fermato Stalin a fare il campanaro. Byron si purificava anche nuotando; nel 1818 percorse a bracciate tutta la costa del Lido e per ricordare l’impresa gli sportivi veneziani istituirono la coppa Byron, che adesso chissà perché è finita in Liguria».

Passeggiando con l’ultimo doge si scopre che l’Inferno di Dante Alighieri prende spunto dalle fucine dell’Arsenale; fuoco, pece e fracasso. E si impara a percorrere in silenzio certe calli di Dorsoduro per sentire il bastone di Ezra Pound, il più grande poeta del Novecento, scandire i passi sul selciato. Un profeta vestito di bianco che faceva la spesa nei negozietti con la figlia. «Sorgono poteri antichi e a me ritornano/ Grazie al tuo dono, o sole veneziano».

Gianmaria indica una targa: «Filippo De Pisis abitava qui. In soggiorno troneggiava e qualche volta svolazzava il suo adorato tucano, di cui mi pregio di possedere il ritratto fatto dal maestro. Aveva un flirt con il portinaio di casa nostra e quando veniva a trovarci si fermava spesso da lui. Costui dopo la guerra si ritrovò un’importante collezione di quadri».

Avanti fino al sestiere di San Polo, il regno di Carlo Goldoni (c’è la Casa Museo), di Tiziano, dei tesori dei Frari e di Nene Giacomuzzi Donà, che il pronipote nel libro tratteggia così: «Era una zitella magrissima e altissima, unanimemente considerata una delle donne più brutte di Venezia. Non usciva mai dal sestiere. Parlava a raffica in veneziano stretto: una mitragliata di parole che ti faceva voglia di buttarti a terra per schivarle. Mia nonna la adorava, mio padre la detestava». È tutto spontaneamente stupendo, fra immortalità pubblica e aneddoto privato.

San Marco è San Marco, basta ricordare cosa disse Henry James davanti a tanta bellezza: «Avevo lasciato l’Europa, ero in Oriente». La pausa rifocillante è prevista alla Giudecca, vicino alla chiesa palladiana del Redentore: trattoria Altanella, gnocchi di patate al nero di seppia di nonna Irma. «Qui Gabriele D’Annunzio era un habitué e pare proprio che abbia cenato con i compagni d’avventura prima di imbarcarsi sui Mas della regia marina alla volta della Beffa di Buccari, nel 1918».

Per proseguire verso il Lido del jet set serve la barca, nessun problema perché Gianmaria Donà l’ha ormeggiata sotto casa. «Un giorno, appena partito, rimasi a secco di benzina e mi accorsi che mi avevano rubato il serbatoio. Buon segno, significa che la città è ancora viva».

Ecco la sagoma del Grand Hotel des Bains, dove Aristoteles Onassis conquistò Maria Callas con pesci fritti e champagne sulla spiaggia. E dove Meryl Streep, il giorno della conferenza stampa de Il Diavolo veste Prada, scandalizzò le giornaliste italiane di fashion dicendo: «Della moda non me ne frega niente, mi vesto da Macy’s». Sette giorni a Venezia non bastano, servono sette vite per una città eterna al pari di Roma. L’ultimo doge non può che avere l’ultima parola: «Però l’eternità di Roma va solo guardata, quella di Venezia va anche difesa».

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