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Viaggio nei ristoranti centenari

Viaggio nei ristoranti centenari

Ci hanno mangiato Camillo Benso Conte di Cavour, Luigi Pirandello, nobili e aristocratici. Sono locali storici con menù ancorati alla tradizione. Nati come trattorie oggi sono mete di culto per intenditori e patrimonio da tutelare. Questi sono i migliori.


Potrebbe capitarvi di scorgere un signore con occhialini cerchiati d’oro e una barba a gorgiera che ordina un pasticcio di riso, uova e carciofi o ancora, se fa freddo, un gran bollito con una bottiglia di Barolo. Sta al suo tavolo nella saletta del Risorgimento tra velluti rossi e stucchi dorati. Chi è? Direte voi. Ma il Conte Camillo Benso di Cavour! Oppure potreste sentir ordinare una pasta e fagioli alla fiorentina. Ma quanti siete a prenotare? «Uno, nessuno e centomila» risponderebbe l’avventore, Luigi Pirandello.

Possibile? Con un po’ di fantasia sì. Prenotando all’antico Ristorante del Cambio che sta in piazza Carignano 2 a Torino dal 1757 ed era la mensa aziendale di Cavour, scegliendo un tavolo da Il Paoli in via dei Tavolini dove dal 1827 si è ritrovata tutta la letteratura mondiale che ha eletto Firenze ad alcova del sentimento, accomodandosi a La Campana nell’omonimo vicolo nel cuore di Roma dove si mangia da più di mezzo millennio e si sentono gli echi di presenze illustri.

Messi un po’ da parte i «cuochi d’artificio», la cucina torna ad ancoraggi più tradizionali nel menù, ma anche ai luoghi dove la liturgia gastronomica si officia in confidenza con la storia e con le buone maniere. È una tendenza che emerge in tutt’Europa. Se i francesi da sempre esaltano il pedigree delle loro tavole, a stupire sono gli spagnoli. Hanno conquistato una certa notorietà culinaria sulla scorta di personaggi come Ferran Adrià che concepiva i piatti al grido di «todo es chimica» e ora fanno retromarcia: a Madrid 12 ristoranti ultracentenari sono stati dichiarati con tanto di legge «spazi culturali e turistici di particolare importanza cittadina e interesse generale». E in Italia? Si fatica a far percepire l’eccezionalità di alcune botteghe del gusto. Eppure è lì che si tutelano e si perpetuano quei valori che il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e quello per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida hanno raccolto nella candidatura della cucina italiana a patrimonio culturale dell’Unesco.

Massimo Montanari, il più autorevole degli storici della cucina che presiede il comitato scientifico che ha curato il dossier, spiega: «Elemento costitutivo della cucina italiana è la straordinaria varietà di declinazioni locali, una biodiversità legata alla realtà fisica del paesaggio e delle risorse, ma soprattutto alla ricchezza culturale frutto di una storia complessa. Il secondo elemento distintivo, la sostenibilità, viene dall’apporto decisivo della cultura popolare, per sua natura attenta alla massima valorizzazione delle risorse, dunque nemica dello spreco, nella costruzione del patrimonio gastronomico: il frutto di una sistematica interazione fra tradizione contadina e modelli aristocratici o borghesi». E dove tutto ciò è diventato patrimonio comune e si è conservato se non nei ristoranti storici? Il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio intende tutelarli per legge. «Abbiamo ragionato» dice l’ex ministro leghista «con i gestori sull’età – 70 anni – e le caratteristiche che identificano i locali storici, e individuato un budget di 150 milioni di euro in tre anni per le spese per l’affitto o il restauro dei locali, la riduzione o l’esenzione da imposte e tributi».

Un passo in avanti per evitare chiusure come quella della Madonnina, in zona Ticinese a Milano, una trattoria che operava da tre secoli. Si tratta di tutelare non solo i locali, ma la cucina che offrono. Come la cotoletta petroniana del Diana che a Bologna apre in via Volturno da oltre un secolo, come la ribollita o la fiorentina che si mangiano dal Latini in via dei Palchetti a Firenze, o il gulasch inimitabile di Suban a Trieste. Il grifo, ossia musetto di vitello, della Buca di San Francesco ad Arezzo merita un viaggio. I ristoranti Arche e 12 Apostoli a Verona sono lo scrigno della pearà (una salsa povera per accompagnare il bollito), la Bottega del Vino offre soppressa e polenta grigliata in mezzo al meglio dell’Italia in cantina. Alla Matriciana davanti al Teatro dell’Opera di Roma si mangia ovviamente il piatto che dà il nome al ristorante, ma tra i bassorilievi di gesso si sentono ancora le ordinazioni dei regi funzionari; il locale aprì con l’annessione al regno d’Italia.

Non si è stati a Napoli se non si è assaggiato il pulpetiello della Bersagliera in Santa Lucia. Palermo s’esprime col farsumagro della Casa del Brodo dal Dottore, da Giannino a Milano il risotto giallo è prezioso, al Gallo a Ravenna i passatelli sono quelli che mangiava Garibaldi, alla Birraria Ottone a Bassano del Grappa gli asparagi alla Bismark sono un imperativo, così come il cappon magro e la focaccia col formaggio hanno il sapore della tradizione dalla Manuelina a Recco. A Valeggio il nodo d’amore diventa poesia pura all’Antica locanda Mincio. Provare l’emozione della costiera mangiando spaghetti al sugo di mare da ’O Canonico 1898 in piazza a Sorrento racconta di altre epoche turistiche; il ristorante Al Vèdel a Vedole, nel Parmense, è il sancta sanctorum del culatello così come gli agoni o il risotto del Crotto del Sergente a Como dischiudono la cultura gastronomica lombarda con il recupero del mitico ossobuco. Sono questi, e ce ne sono infiniti altri, i luoghi dove la cucina italiana come la vuole raccontare al mondo la candidatura Unesco si fa storia e cultura per tornare a essere tendenza.

Ma ci sono due ultimi indirizzi da tenere in conto. Il primo è la Salumeria Hosteria Giusti a Modena, in via Farini. Lì si affetta dal Seicento e si mangia dall’Ottocento; ma il primato di longevità spetta Al Brindisi, è un’enoteca con cucina che sta a fianco al duomo di Ferrara. Aprì nel 1435 con l’insegna «Hostaria del Chiucchiolino». È la più antica d’Europa. E se non è un monumento questo…

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