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Quel tempo di Parigi insaziabile di sapori e di vita

Quel tempo di Parigi insaziabile di sapori e di vita

Un nuovo libro riscopre antiche cronache di buongustai e bonvivants, in un’epoca in cui nella capitale francese si mescolavano opulenti pasti gourmet e sesso. Cent’anni fa.


Se Proust, invece di una madeleine, avesse mangiato ostriche dell’isola di Gardiners, arselle, zuppa di vongole, granchi saltati in padella, un paio di aragoste e un’anatra laccata alla pechinese, chissà che capolavoro avrebbe scritto, altro che la Recherche. Basterebbe questa nota per capire chi ci si trova di fronte, leggendo Tra i pasti: un appetito per Parigi, di Abbott James Liebling, un quasi romanzo in 160 pagine uscito per Edizioni Settecolori, nella collana dal titolo alla Walt Whitman, Foglie d’erba.

Liebling (1904-1963) era un giornalista americano, ebreo d’origine tedesca, di ambizioni letterarie. Dovette accontentarsi di stendere resoconti su incontri di pugilato – nobile arte che brevemente praticò – e mandare corrispondenze, da Parigi e non solo, per il prestigioso The New Yorker, dove gli articoli somigliano a saggi o a colte divagazioni, pur restando nel recinto del giornalismo. Ovvero merce deperibile: chi ricorda i pezzi di Hemingway o, per lasciare l’anglosfera, le corrispondenze di Montanelli, le interviste di Biagi, le inchieste di Bocca? Eppure bene ha fatto l’editore a proporre in Italia il libro di Liebling, autore parzialmente riscoperto negli Stati Uniti, in virtù di uno sguardo acuto su una città sempre al centro del mondo culturale e del costume, quale Parigi.

Se nell’Ottocento era la capitale del mondo – secondo Walter Benjamin che ne percorse i «passages» con le lanterne filosofiche e poetiche -, nel decennio dopo la Grande Guerra la Ville Lumière, ancora carica di segni e riti della Belle Époque, attirava l’intelligenza internazionale. Scrittori, artisti, sognatori, élite fuggite dalla rivoluzione russa. Un mondo che il giovane Liebling, approfittando di un anno di studi alla Sorbona regalatogli da papà (commerciante di successo), scoprì a morsi, da uomo ghiotto di cibi, di cultura, di peccati: Parigi ne offriva in abbondanza.

I saggi che compongono il volume, molti apparsi sul New Yorker, sono frutto di visite parigine successive al decennio d’oro, ovvero scritte negli anni Cinquanta. Tuttavia l’autore svolazza, con la penna, a quel lontano anno sabbatico 1926, a una città ricca di bordelli e ristoranti. Al cambio, per un americano costavano pochissimo: con un dollaro si mangiava da Dio in locali dalla cucina generosa di burro e carni, aragoste e caviale, Champagne e tartufi. Non ci sono nomi famosi nelle pagine, anche se possiamo immaginare che gli Hemingway, le Colette e Gertrude Stein, i Samuel Beckett, i Picasso, gli Henry Miller, i Salvador Dalì, gli Ezra Pound fossero nei pressi, intenti a tracannare gli stessi bicchieri di Bordeaux e a divorare cosciotti di agnello lardellato, allodole, salsicce in crosta. Yves Mirande, commediografo di qualche fama che si accompagnava in lieti bagordi con Liebling, ricorda: «Le cene vertiginose erano il preludio di notti sfrenate. Era la grande époque delle cortigiane. Giocatrici d’azzardo, belle giocatrici con una certa distinzione naturale nei modi e un je ne sais quoi di buona educazione, un atteggiamento di sfida e avventatezza che non scadeva mai nella volgarità». Mirande, che aveva una relazione con Madame G., ostessa speciale, ricorre più volte nel libro. Come magnifico ghiottone, al pari dell’autore, e uomo capriccioso, capace di bersagliare con manciate di caviale una domestica che lo irritava.

Le corrispondenze gastronomiche di Liebling sono irriverenti, non fanno sconti; non c’è il balletto delle cortesie che spesso si ravvisa ai giorni nostri e talvolta indica intelligenza di intenti tra giudicanti e giudicati. L’autore era un mangione senza freni, di forte appetito anche sessuale; pur non essendo un adone, anzi era grasso da far paura (dirlo sfiora il body shaming) e trascinava piedi piatti e dolorosa gotta da un tavolo all’altro, ebbe una vita sentimentale turbinosa, che a noi interessa poco. Le sue considerazioni sul cambiamento di Parigi, dagli anni Venti alla ritrovata democrazia dopo il nazifascismo, vengono affidate a cenni, intermezzi nell’ossessione del suo scrivere, i piatti fumanti. Eccone un esempio. «È un rischio impegnarsi per un’intera serata con una persona che non si vede da anni. Ciò è particolarmente vero in Francia di questi tempi. Il conoscente della Liberazione, filoamericano in modo quasi imbarazzante, potrebbe essere diventato uno scribacchino del Partito Comunista. Il giovane giornalista idealista della Resistenza un editorialista del giornale reazionario di un magnate dell’industria tessile. L’apologeta di Vichy conosciuto a Washington nel 1941, che definiva De Gaulle un traditore e una creazione dei servizi segreti britannici, ora potrebbe dirvi che il Generale è la cosa migliore che esista». Di voltagabbana è pieno il mondo, lo sappiamo, meglio lasciarsi conquistare dalle salse buonissime e micidiali, dagli Champagne cavati da cantine scampate alle bombe. Liebling, di stanza a New York, tornava nell’amata Parigi appena possibile. Ogni volta per ritrovare un ristorante, provare un vino, mangiare con un conoscente. Di amici veri non ne aveva. Anche gli amori, che vi furono, come i matrimoni (tre mogli), non erano la sua tazza di tè. Scrive: «La funzione dei due sessi, se leggo bene gli autori della nostra epoca, è quella di annoiarsi a vicenda». Parla di letteratura (tentò un romanzo, non lo finì), ma dice della vita, come ogni vero scrittore.

Il libro è stato accolto in Italia dagli applausi della critica, stanca di leggere resoconti culinari anemici, rispettosi della sostenibilità nel piatto, preoccupati di informare più sulla qualità salutare del cibo che sulla goduria primordiale connaturata all’atto necessario del nutrirsi. Ci uniamo ai pareri positivi, perché la Parigi che esce da queste pagine è un film denso di sapori, una città che non si finirà mai di scoprire nelle mille incarnazioni. Però piano con gli entusiasmi. Abbiamo avuto Mario Soldati, ghiottone sapiente, e l’immenso Aldo Buzzi, scrittore comasco-milanese (anche viaggiatore e regista di cinema), scomparso a 99 anni nel 2009. Nel suo L’uovo alla kok uscito da Adelphi nel 1979 – e negli altri suoi titoli – la golosità unita a sapide divagazioni culturali non è inferiore agli appetiti di Liebling. Che ci sia Milano anziché Parigi, pazienza.

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