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Paese che vai, ansia che trovi

Paese che vai, ansia che trovi

Ne soffriamo tutti. Ma non allo stesso modo: in Oriente il senso del collettivo funziona da antidoto (spesso è percepita come sentimento produttivo), in Usa ed Europa si affronta a colpi di psicofarmaci. E anche le religioni hanno un ruolo chiave…


Paolo ha 31 anni, vive a Roma, ha un contratto di lavoro in scadenza e un monolocale in affitto che non sa se riuscirà a mantenere. Dorme poco, di notte pensa a come fare se resterà senza impiego. Laura, milanese 46enne, due figli piccoli, in pandemia ha lavorato in smart working, i bambini hanno studiato in Dad. Si divide tra lavoro e famiglia, con frequenti crisi di panico. Marco ha 48 anni, vive a Torino, un’attività appena chiusa e una nuova su cui investire. Ha chiesto un finanziamento privato. Non può sbagliare. Alla tensione professionale si aggiunge quella familiare, perché si sta separando.

Sono fotografie di molti italiani dominati dall’angoscia, raccolti sui tanti forum di psicologia. Secondo l’ultimo Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia di Censis e Federsicurezza, gli italiani ansiosi sono oltre 6 milioni, soprattutto donne (il 17,9% della popolazione femminile ne è colpita). Non pochi i giovani: 1,7 milioni, pari al 16,3% degli under 35. Ogni anno, spendiamo oltre 400 milioni di euro in benzodiazepine (la prima voce di spesa fra i farmaci di classe C). Mentre nel mondo, dicono i dati Oms, a sperimentare ansia sono 300 milioni di persone, di cui 84 in Europa. Con un costo di mille miliardi l’anno.

«C’è incertezza sul futuro, competitività sul lavoro, problemi economici. In pandemia il ricorso a psicofarmaci è aumentato del 12%» afferma Grazia Attili, psicologa sociale alla Sapienza di Roma. «Si ricorre alle pasticche perché ci si vuole sentire subito in grado di affrontare ogni difficoltà. Oltre al Covid, che ha innescato la paura rimossa della morte, ha avuto un ruolo chiave la mancanza di contatto umano. Siamo una specie sociale: il solo vedere altre persone favorisce la produzione di oppioidi nel cervello e il contatto mette in circolo ossitocina, l’ormone del rilassamento».

Il 2020 infine, secondo uno studio della società di Oracle e WorkPlace Intelligence, è stato l’anno più stressante per il 70% dei lavoratori di tutto il mondo. Ma se l’ansia coinvolge il pianeta intero, cambia la sua percezione, il modo di riconoscerla come un problema individuale o sociale, e di affrontarla. «Vivere in una società competitiva, individualista, tipica di un contesto occidentale incide moltissimo» sostiene Dino Giovannini, professore emerito di Psicologia sociale all’Università di Modena e Reggio Emilia. «In Oriente invece (dove i numeri dell’ansia sono più limitati, ndr) si fa riferimento a una società collettivista. Da noi gli individui si sentono soli. Mentre in Oriente l’idea di fondo – lo abbiamo visto anche nei comportamenti legati alla pandemia – è “lavoro per il mio popolo”. Non esiste l’interesse puramente personale, il livello di identità sociale è forte. Per i giapponesi l’azienda diventa la casa. Non a caso, se non ottengono i risultati professionali, capita che scelgano il suicidio».

In Oriente, l’approccio contro l’ansia è più legato all’ascolto e meno al farmaco. Si cura con yoga, meditazione. E spesso viene percepita come positiva, una sorta di senso di attivazione produttiva. In Nord America, invece, il trattamento è più aggressivo: farmacologico o a base di corsi sempre più numerosi (e fantasiosi) di mindfulness. Il sintomo viene affrontato a colpi di pillole e iniezioni di autostima. «Negli Stati Uniti non c’è la mentalità dell’aspettare» precisa Attili. «Nessuno vuole perdere tempo ad ascoltarsi, come fanno in Oriente. Anche se di recente questa attenzione al rapporto corpo-mente ha fatto nascere pure da noi percorsi di yoga, agopuntura…».

Nelle società collettiviste, orientali e africane, riconoscersi parte di un gruppo genera una sicurezza identitaria che si fa antidoto. «Le persone restano in contatto anche se non ne traggono benefici, la loro identità è legata al gruppo di appartenenza» dice Giovannini. «Nel modello individualista, in Europa, Nord America, Australia e Nuova Zelanda, le persone danno priorità a obiettivi personali e tendono a non valorizzare relazioni che non consentano di ottenere vantaggi».

Lo conferma uno studio del Dipartimento salute mentale di Trieste, secondo cui in gruppi di emigrati senegalesi gli elementi di coesione culturale, come le confraternite islamiche, costituiscono un potente fattore protettivo rispetto al rischio psicopatologico. In Africa, se vogliamo fare una distinzione più sottile, dagli anni Cinquanta avrebbero maggiore impatto i disturbi depressivi, rispetto a quelli ansiosi. E, aggiunge la rivista Brain and Beahviour, se l’ansia ha in America il suo habitat naturale, in Brasile raggiunge il 9,3% della popolazione, con il maggior numero di casi al mondo (2017).

Ad alimentare «il fuoco» dell’ansia, precisa Attili, è anche il mondo social, eterna vetrina in cui si è esposti al giudizio altrui: «Si vive con un narcisismo di fondo, che se non trova un riscontro positivo ci fa sentire frustrati» precisa. Dello stesso avviso Giovannini. «Se nessuno ti mette like o hai pochi follower, scatta la bassa autostima». Un tipo di insicurezza, questo, inesistente in passato. Dove, peraltro, non mancavano fonti di angoscia esistenziale. Per i Greci era la «melancolia», letteralmente «bile nera», stato d’animo tra inquietudine e malumore citato già nella medicina di Ippocrate. Nel Medioevo solo la religione poteva dare sollievo. In epoca illuminista si curava con erbe e decotti, psicoterapia e farmaci arrivarono a fine Ottocento. «I 300 milioni di ansiosi di oggi sono una cifra sottostimata» afferma lo storico Giordano Bruno Guerri. «L’ansia è una condizione che tocca almeno metà popolazione mondiale».

Secondo Guerri, è anche una questione di culture religiose, oltre che di epoche o geografie. «Pensate a quanto sia ansiogeno il cristianesimo, con il ciclo peccato- punizione. Lo è molto meno il buddhismo. Non si sa se gli orientali siano meno ansiosi perché hanno prodotto buddhismo e confucianesimo o se li abbiano prodotti perché più sereni. E poi, consideriamo il fascismo…».
Che c’entra con l’ansia? «In epoca fascista l’ansia era vissuta nel collettivo. Quando Benito Mussolini affermava “L’impero è tornato”, voleva incitare il popolo a essere grande e virile. Ma questo generava la paura di non essere all’altezza: l’uomo doveva essere marito e guerriero, la donna sposa e madre esemplare. Il film Una giornata particolare è il monumento all’ansia di quel periodo. Un sentimento presente in ogni epoca, e che oggi trova mille altre espressioni».

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