Un gruppo di ricercatori statunitensi ha realizzato il prototipo del primo Frankenstein in miniatura. In grado di muoversi, piegarsi e accogliere sostanze dentro di sé.
Non è esagerato dire che siamo a un passo da un cambiamento cruciale nella tecnologia. Quello che potremmo chiamare l’avvento della macchina «biologica» non è mai stato così vicino, ora che ricercatori statunitensi dell’università Tufts e di quella del Vermont hanno realizzato il primo robot costituito al cento per cento di tessuto biologico. Lo hanno ribattezzato Xenobot perché costituito da cellule prelevate da embrioni della specie Xenopus laevis, una rana endemica dell’Africa.
Ha una forma che somiglia a quella di un paracadute, dimensioni di qualche millimetro ed è in grado di sopravvivere una decina di giorni e spostarsi in ambienti liquidi. È stato costruito a partire da diversi tipi di cellule staminali dell’embrione di rana, assemblate in un modo deciso sulla base di un minuzioso studio computazionale. Per esempio, cellule staminali cardiache individuate in aree specifiche, una volta incubate e plasmate, sono andate a formare la parte contrattile, quelle staminali della pelle la parte esterna. Il risultato è una sorta di prototipo del primo Frankenstein in miniatura: un robot biologico dotato di quattro ciglia mobili (piedini contrattili) e una superficie passiva, capace di piegarsi muoversi e accogliere sostanze dentro di sé.
Finora la ricerca aveva seguito una diversa filosofia, consistente nel far sì che le cellule si differenziassero e auto-assemblassero da sole. Secondo Arti Ahluwalia, professoressa di Bioingegneria e direttrice del Centro di ricerca E. Piaggio dell’università di Pisa, questo studio è innovativo perché è stato guidato dal computer. Finora, le cellule staminali venivano messe in posizioni precise e queste tendevano a migrare autonomamente per raggiungere uno stato di energia libera minima. In questo caso, precisa Ahluwalia, la migrazione non è avvenuta, anche se è probabile che avvenga in tempi più lunghi. Come sottolinea Ahluwalia, la ricerca degli scienziati americani fornisce una nuova procedura con la quale creare altri possibili costrutti biologici per altri possibili scopi.
Questa procedura è un’applicazione dell’intelligenza artificiale basata su un algoritmo cosiddetto evolutivo, cioè capace di scegliere i prototipi con le migliori performance, modificarli leggermente, scegliere ancora quelli con le migliori performance e così via. Nel dettaglio, questa procedura consiste, primo, nell’applicare un algoritmo che fornisce differenti modi di combinare differenti tessuti per ottenere il comportamento desiderato; secondo, nello sperimentare le diverse «creazioni» in differenti ambienti virtuali e nell’eliminare quelli dalla prestazione peggiore; terzo, nel correggere il design dei restanti costrutti e nel ripetere il processo. In sostanza, Xenobot è frutto di un meccanismo che imita la selezione naturale, che agisce, appunto, in natura: vengono selezionati quei costrutti che hanno le caratteristiche più vantaggiose per effettuare determinati compiti in un certo ambiente. Il prodotto finale, Xenobot, è capace di auto-locomozione ed esplorazione di ambienti acquei per un periodo di giorni o di settimane.
Le sue potenzialità sono enormi e non ancora perfettamente conosciute. Il machine learning (la capacità di un algoritmo migliorare la propria performance in maniera autonoma), le simulazioni e le tecniche di biostampa faranno sì che Xenobot o i suoi simili saranno capaci di fare molte cose, dalla medicina ai servizi per l’ambiente. Nel caso della medicina, gli autori dello studio citano espressamente come esempi il rilascio di determinati farmaci in punti precisi o la chirurgia interna, come pure la capacità di esprimere proteine per stimolare certi recettori, se equipaggiati in un certo modo, rimuovere placche aterosclerotiche o individuare metastasi. In questo sarà fondamentale la loro capacità di disfarsi e decomporsi dopo un certo periodo, senza essere tossici.
Secondo Arti Ahluwalia la possibilità di mettere Xenobot nel corpo umano è molto remota per motivi di sicurezza e potenziali rischi (virus, prioni, incompatibilità con il nostro sistema immunitario). Tuttavia le sue cellule potrebbero essere umanizzate nel futuro con diverse tecniche ancora allo studio. Nel caso dell’ambiente, le applicazioni sono molto più promettenti: i futuri Xenobot potranno essere capaci di scovare e digerire prodotti tossici o nocivi per l’ambiente o identificare molecole di interesse in ambienti inaccessibili ai robot. L’applicazione che è più facile prevedere, viste le loro dimensioni non proprio piccolissime, è quella di assorbire inquinanti come il petrolio in mare.
La ricerca di Xenobot rappresenta un filone parallelo a quello, che per ora ha fatto più passi in avanti, della realizzazione di tessuti umani in vitro grazie all’uso dell’intelligenza artificiale in 3D. Lo scopo della bio-stampa, dice Ahluwalia, che ha effettuato importanti ricerche in questo campo, è ricostruire il più fedelmente possibile, e in tutte le scale, la complessità di un tessuto. La stampa avviene strato per strato sulla base di un modello 3D digitale, come una Tac o una risonanza magnetica. Le testine della stampante 3D contengono «bio-inchiostro», ovvero biomateriali, come per esempio particolari idrogel bio-inerti per sostenere il tessuto, fattori di crescita, cellule umane e altre biomolecole. Così vengono creati, per esempio, fegati artificiali grazie alla sovrapposizione di strati di epatociti e altre cellule peculiari di quest’organo, tra le quali quelle che compongono gli stessi vasi sanguigni. Se l’uomo prima costruiva oggetti tecnologici in metallo, plastica e altri materiali sintetici, che una volta dismessi venivano smaltiti dall’ambiente in tempi molto lunghi, adesso siamo passati a una tecnologia «biologica», frutto sia di una rinnovata sensibilità per l’ambiente sia di un progresso nelle applicazioni delle conoscenze sulle staminali.