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La ricarica può attendere

La ricarica può attendere

Nel nostro Paese ci sono 22 colonnine per auto elettriche ogni 100 mila abitanti, un terzo di quelle attive sulle strade europee. In autostrada, poi, i numeri sono ancora più scoraggianti per un problema di costi e intrecci burocratici apparentemente inestricabili. Intanto Aspi, che gestisce la rete italiana, ha deciso di partire da sola…


Si fa presto a dire transizione energetica. Ma poi occorre mettere i cittadini nelle condizioni di farla, questa benedetta transizione verso la mobilità elettrica. E l’Italia lo sta facendo con una lentezza esasperante. Due esempi: nel nostro Paese ci sono 24 mila colonnine a uso pubblico per ricaricare le auto a batteria, 22 ogni 100 mila abitanti, mentre in Europa la media è di 64 ogni 100 mila abitanti. In Italia sono stati installati 5,1 punti di ricarica ogni 100 chilometri, in Germania invece sono 19,4, in Olanda addirittura 47. Anche per questo la diffusione delle vetture elettriche è ancora molto bassa, seppur in crescita: nel nostro Paese rappresentano appena lo 0,25 per cento del parco circolante, contro l’1,07 dell’Europa. Ma avere una decente rete infrastrutturale per ricaricare le auto elettriche è cruciale per convincere gli automobilisti ad abbandonare il motore a benzina: non tutti hanno il garage con una presa elettrica o lavorano in un’azienda dotata di colonnine. E chi viaggia deve poter contare su punti di ricarica veloci per fare i rabbocchi lungo il percorso.

Da un sondaggio commissionato dalla Continental Italia all’istituto di ricerca Euromedia Research diretto da Alessandra Ghisleri, condotto su 3 mila cittadini, è emerso che oltre il 66 per cento del campione sarebbe interessato ad acquistare un’auto elettrica, ma a frenarlo sono, nell’ordine, il prezzo troppo alto, la scarsa autonomia e la poca diffusione di colonnine per la ricarica. Mentre i primi due ostacoli stanno cadendo, grazie agli incentivi, al progressivo calo dei listini e alla maggiore capacità della batterie, il terzo problema resta ancora aperto.

«Dalla richiesta di installare una colonnina sul suolo pubblico alla sua attivazione passano 18 mesi» sostiene Francesco Naso, segretario generale di Motus-E, associazione che promuove la mobilità elettrica. «Ogni comune ha le proprie regole, è una giungla. E a volte mancano le competenze per gestire una materia nuova che coinvolge società che offrono il servizio di ricarica e fornitori di energia elettrica. Proprio per aiutare gli amministratori e accorciare i tempi abbiamo messo a punto un regolamento standard a disposizione dei comuni. Ai problemi burocratici si aggiungono poi i tempi lunghi per la connessione alla rete elettrica».

Mentre le aziende della grande distribuzione o della ristorazione come Carrefour, Conad, Ikea, Leroy Merlin, McDonald’s si stanno attrezzando per fornire la spina ai clienti che arrivano in auto (molti gli accordi siglati in particolare con Enel X), lungo le strade pubbliche regnano ritardi e confusione. Anche perché le richieste degli automobilisti elettrici stanno cambiando, visto che le vetture in commercio sono in grado di accettare potenze più elevate.

Oggi chi acquista un veicolo a batteria immagina di fare il pieno in garage, nel posto di lavoro (forse) e nella destinazione turistica dove trascorre una vacanza o un weekend. In questi casi può andar bene un punto di ricarica slow (da 3 a 7 kilowatt) o quick (da 11 a 22 kilowatt). Ma lungo la strada, anche in città, ha bisogno di colonnine fast (da 50 a 100 kilowatt) o ultrafast (da oltre 100 kilowatt), che gli permettono di accumulare 100 chilometri di autonomia nel giro di una decina di minuti al massimo, anche a costo di spendere quanto un rifornimento di benzina (mentre a casa spende più o meno un terzo). Di punti di ricarica fast e ultrafast ce ne sono ben pochi, però. Tant’è vero che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha stanziato 750 milioni di euro proprio per finanziare l’installazione delle colonnine più potenti sul suolo pubblico, dove oggi invece ci sono punti di ricarica lenti, che rischiano di essere già obsoleti.

Naturalmente chi si è comprato una vettura elettrica vorrebbe ricaricarla quando affronta lunghi viaggi in autostrada. E qui casca l’asino perché la situazione sulle autostrade italiane è paradossale: nel 2016 l’Aiscat, l’associazione dei gestori delle autostrade, aveva firmato con l’Enel un protocollo d’intesa «per avviare un tavolo di lavoro congiunto sulla mobilità elettrica lungo la rete autostradale nazionale a pedaggio». A cinque anni di distanza il quadro è il seguente: sulle 468 aree di servizio che si trovano lungo le autostrade italiane, appena 41 dispongono di colonnine per le auto a batteria, l’8,8 per cento. I dati raccolti dall’European alternative fuels observator mostrano che le prese di ricarica sulle autostrade e superstrade tedesche sono 764, in Francia 647, in Spagna 137, nel Regno Unito 319. In Italia, ma solo sulle autostrade, i connettori a cui collegarsi per fare il pieno di elettricità sarebbero, secondo le stime di Motus-e, appena 82 (in media due per stazione), meno che in Svizzera.

Ancor più sorprendente è il fatto che il principale gestore, Autostrade per l’Italia (Aspi), abbia soltanto due aree di servizio su 213 dotate di colonnine, cioè lo 0,9 per cento. Un ritardo inspiegabile se si pensa che la legge di bilancio del 2021 prevedeva l’obbligo per le concessionarie autostradali di provvedere ad installare infrastrutture di ricarica elettrica entro il 30 giugno 2021. Invece ben sei gestori non hanno fatto nulla e gli altri sono in grande ritardo. Com’è possibile? Perché negli altri Paesi le autostrade continuano a fare gare per società che offrono ricariche e in Italia si va a rilento? L’accordo con l’Enel sarebbe naufragato, secondo l’Aiscat, perché la società elettrica avrebbe imposto un proprio standard (cosa che l’Enel nega).

Ma probabilmente il ritardo dei concessionari ha una ragione puramente economica: ogni colonnina ultrafast con due prese costa da 70 a 100 mila euro e attrezzare un’area di servizio con almeno un paio di stazioni rappresenta per i gestori un costo di circa mezzo milione di euro, considerando gli oneri di collegamento alla rete elettrica. E poiché di auto a batteria ce ne sono ancora poche, si tratta di un investimento che darà i suoi frutti tra qualche anno. Magari dopo che la concessione autostradale è scaduta.

Di qui la resistenza di alcuni gestori che avrebbero avanzato al ministero dei Trasporti la richiesta di un allungamento delle concessioni proprio per remunerare l’investimento nelle colonnine. Al freno a mano delle società autostradali si aggiunge il groviglio burocratico tra il ministero delle Infrastrutture guidato da Enrico Giovannini e l’Art, l’Autorita di regolazione dei trasporti. In un post su Linkedin l’amministratore delegato di Enel X, Francesco Venturini, ha scritto: «Ricapitoliamo: legge di Bilancio 2021 con l’obbligo per le concessionarie autostradali di provvedere a installare infrastruttura di ricarica elettrica entro il 30 giugno 2021 disattesa. L’Autorità di regolazione dei trasporti il 27 maggio 2021 (cinque mesi dalla pubblicazione della legge) avoca a sé la competenza di stabilire come debbano essere fatte le gare per l’installazione della infrastruttura e si prende 9 mesi (fino a febbraio 2022) per studiare la cosa: sembra uno scherzo ma non lo è.

Alla scadenza dei termini di legge Enel X si propone a tutti i concessionari per infrastrutturare, con ultima tecnologia disponibile, a sue spese e aperta a tutti gli operatori di mercato, tutte le aree di servizio in Italia. Risponde l’Aiscat che, sebbene i concessionari abbiano pedissequamente adempiuto alla legge, purtroppo la competenza non è loro ma del ministero delle Infrastrutture e dell’Art». Insomma, un continuo rimpallo. Intanto l’Aspi, chiusa l’era Benetton, ora è guidata da un manager ex Enel, Roberto Tomasi. Il quale ha deciso che l’infrastruttura di ricarica l’Aspi se la farà da sola attraverso una società dedicata: così a marzo è nata Free To X il cui obiettivo, come spiega il suo amministratore delegato Giorgio Moroni, è «installare 100 stazioni di ricarica in altrettante aree di servizio lungo la rete di Aspi, in modo da averne una ogni 50 chilometri circa.

Le stazioni saranno dotate di quattro connettori su due colonnine, ciascuna delle quali con una potenza massima di 300 kilowatt. Pensiamo di costruirne 50-60 all’anno». Anche gli operatori concorrenti potranno installare le loro colonnine nelle aree di servizio di Aspi, purché garantiscano la neutralità, cioè che qualsiasi utente possa collegarsi e fare il pieno indipendentemente dall’abbonamento che ha sottoscritto.

Una svolta positiva. Anche se desta qualche perplessità il fatto che Aspi abbia preferito fare da sé, «per garantire neutralità sia tecnologica sia commerciale» invece che indire delle gare, come nel resto d’Europa.

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