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Questa persona non esiste. L’ha creata l’Ai

Questa persona non esiste. L’ha creata l’Ai

L’ultima frontiera dell’intelligenza artificiale è generare volti che sembrano veri ma sono il parto di un computer. Vengono usati per scopi commerciali, potrebbero ingannarci sui social network. Anche perché stanno già imparando a parlare e a scrivere.


Sorridono tanto o appena un po’, hanno lo sguardo serio, imbronciato, distratto oppure preoccupato. Sono biondi, mori, brizzolati, con i capelli radi, in ordine, qui e lì con tre ciuffi ribelli. Giovani, adulti, bianchi, neri, asiatici. Sono persone in apparenza come noi, ma senza certificato di nascita, indirizzo di residenza, conto in banca, né passioni, paure o desideri. Non esseri umani, ma volti generati da un computer. Facce partorite dall’intelligenza artificiale, che dopo avere ricavato da milioni di fotografie gli elementi distintivi del nostro aspetto, si è messa a replicarlo. A clonarne credibili, originali variazioni sul tema. A voler sconfinare nel misticismo, le macchine si sono prese una prerogativa divina: creare la vita, o quantomeno un suo simulacro, a nostra immagine e somiglianza.

Non è un puro esercizio di stile, una dimostrazione di forza tecnologica. Per le persone che non esistono, esiste un mercato: il sito Generated.photos, fondato da un brasiliano che ha messo insieme una squadra di ingegneri, grafici e artisti del ritocco, vende queste foto a partire da 3 dollari l’una per piccole quantità, a un dollaro a chi ne ordina più di mille. C’è pure un abbonamento mensile, in stile Netflix o Spotify: 20 dollari ogni 30 giorni per 15 ritratti in alta risoluzione e licenza d’uso totale. Tradotto: per farci quello che si vuole. Cosa, lo spiega il New York Times, che al tema ha dedicato una lunga inchiesta uscita poche settimane fa: per prima cosa, riempire le pagine web, i volantini e il materiale pubblicitario senza assumere modelli, che non solo costano di più e reclamano sacrosanti diritti di sfruttamento della loro immagine, ma magari non sono felicissimi di apparire in alcuni contesti. Vedi le réclame di cure per l’incontinenza o medicinali per malattie imbarazzanti, i centri per dimagrire, disintossicarsi, impiantarsi i capelli. Generated.photos fa parte di un filone di start-up in espansione: il sito Thispersondoesnotexist.com (questa persona non esiste, per l’appunto) lascia scaricare pure gatti e cavalli, in caso si voglia simulare un allevamento o inventarsi una fattoria. Rosebud.ai garantisce «generated media for storytelling»: le foto diventano brevissimi video, sbattono gli occhi, aprono la bocca. Si animano, per il tempo di un attimo.

Parecchie aziende hanno scelto queste individualità sintetiche per dare una faccia piacevole alla chat dell’assistenza clienti, qualche società per trasmettere all’esterno un ossequio alla diversità nella sua organizzazione. Una certa ditta ha assunto solo uomini sulla cinquantina? Ora può correggere ad arte l’organigramma o condire la sua comunicazione istituzionale con signore avvenenti o giovanotti freschi di laurea. Nessuno potrà mai sbugiardare l’operazione, perché il soggetto scelto per quella rappresentazione, per montare quell’illusione, non ha un curriculum o una dignità da difendere. È un agglomerato di pixel.

Si prospetta un orizzonte virtuale straripante di «fake people», di persone finte, come ha scritto il Washington Post, che pure si è occupato dell’argomento. La premessa è stata trasformare la distanza tra gli occhi, l’ampiezza delle orecchie, le curvature del naso in un’equazione matematica, in uno strumento malleabile, configurabile su richiesta. Basta ordinare tre bionde sorridenti sulla trentina, due sessantenni dal volto rassicurante, per vederseli recapitare come allegato di una mail, per disporne a proprio uso esclusivo. L’esito è una frontiera prima irraggiungibile della sofisticazione, della falsificazione visiva. Con derive presumibili, in particolare sui social network, i siti di dating, le tante arene degli incontri digitali: il rischio di essere raggirati da chi usa queste facce, anche avvenenti, come marionette per ingannarci. Non serve più rubare l’identità altrui, quando se ne possono costruire da zero in quantità, a prezzi modici. Arrivando, come ha scritto l’edizione americana di Wired, a manipolare le elezioni e influenzare l’opinione pubblica, bombardando le bacheche di Facebook o i feed di Twitter dei post di sedicenti (e seducenti) automi che pensano, e scrivono, e ripetono, quello che in pochi hanno orchestrato. La democrazia diventa pilotabile da un’oligarchia evoluta. Si tinge di tecnocrazia.

Il salto in avanti è post-contemporaneo, il rimedio ultra-preistorico: fare attenzione, essere prudenti, diffidare. Sviluppare la consapevolezza che su internet, ormai, niente è come appare. Non credere ai propri occhi e, nemmeno, alle orecchie. O almeno usare il cervello, applicare uno spirito critico. Gli assistenti vocali con cui quotidianamente ciarliamo di che tempo farà o cosa c’è nella lista della spesa, hanno rivelato quanto sia comune, lungo binari prestabiliti, avere un dialogo con una macchina. Presto, ecco, tale scambio potrà evolvere in un’autentica conversazione. Un botta e risposta: «L’abilità dell’Ai di comprendere il linguaggio naturale sia vocale sia testuale si sta sempre più affinando con sistemi di apprendimento automatico, che riescono a imparare complesse combinazioni statistiche di parole e quindi a predire, per ogni contesto, la parola opportuna» spiega a Panorama Valeria Sandei, Ceo di Almawave, azienda italiana leader nell’intelligenza artificiale e nell’analisi del linguaggio naturale. «La gestione del dialogo» chiarisce Sandei «è una componente complessa da modellare nel mondo dell’Ai, dove mantenere la conversazione e la memoria del discorso sono ambiti nei quali si stanno ponendo molti sforzi. I risultati sono già promettenti. I dialoghi saranno sempre più efficaci». E le possibili applicazioni, interessanti: «Per esempio, nei servizi pubblici, legati a contenuti molto specialistici». Se oggi, chiamando il call center di un ente le attese sono infinite, domani a gestire il traffico sarà una macchina parlante. Un centralinista robot che intuirà davvero di cosa abbiamo bisogno e suggerirà come procedere.

Non tutto di queste stampelle di virtuale per il reale, dell’invasione della finzione, è da reputarsi un male: «L’intelligenza artificiale» rileva il Ceo di Almawave «può rendere molti processi snelli e veloci. Può senz’altro migliorare la vita, come nel mondo della salute, dove preziose informazioni possono chiarire un quadro clinico o fornire nuovi elementi diagnostici al medico». Ma oltre a produrre volti e voci, sfornare diagnosi e improvvisarsi burocrati, i computer si sono messi a comporre poesie, racconti, canzoni. Di certo ha ragione Sandei quando dice che «la creatività umana non è sostituibile in quanto legata anche all’imprevedibile, al mutevole, all’emozione, talvolta all’incoerente», ma un po’ deve far riflettere l’esperimento del quotidiano The Guardian, che a una macchina ha commissionato un articolo di giornale. Poche righe dopo l’inizio, il programma ha scritto: «So che il mio cervello non prova sensazioni, ma è in grado di prendere decisioni logiche». E di quelle decisioni, in un modo o nell’altro, saremo noi i destinatari.

Tirando le somme, l’intelligenza artificiale continua la sua furiosa corsa in avanti. Se il suo traguardo non sarà sostituirci, coinciderà quantomeno con la capacità di assomigliarci, confondersi e confonderci. Parlare la nostra lingua, capire quesiti complessi e replicare di conseguenza; mimare competenze umane, in bilico tra doti accademiche e slanci di fantasia. Sentirsi un po’ Dio, creando una sequenza di io che non esistono. Catene d’identità apparenti, posticce, prodotte in serie. Imposture per fini commerciali, tentativi d’inganni, assortiti usi illegali. Uno che è nessuno e multipli infiniti di finti centomila.

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