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Tu sei ciò che ascolti

Tu sei ciò che ascolti

Boomers, Gen X, Millennials, Generazione Z: comunità anagrafiche dai gusti differenti che non parlano in alcun modo tra di loro. Chi è nato nell’epoca dei vinili oppure nell’era di rock e pop ha come riferimenti mostri sacri quali Bob Dylan, Lucio Battisti, Beatles e Rolling Stones, Madonna e Vasco Rossi. Chi è giovane oggi, invece, è devoto a generi come trap e rap fatti di melodie e testi imbarazzanti, storpiature sonore e linguistiche figlie di un abbassamento culturale. Da parte di chi suona, ma anche di chi sente.


Una pioggia inarrestabile di strabilianti successi, milioni di clic per tutti, travolgenti numeri social: a leggere i comunicati stampa che accompagnano le infinite uscite discografiche di questo tempo sembrerebbe di vivere nell’età dell’oro della musica. E invece no, l’età dell’oro se n’è andata da un bel pezzo. La realtà è un’onda di mediocrità e sciatteria che ha investito l’arte della canzone come mai prima d’ora.

Dirlo chiaramente non significa essere passatisti o nostalgici: basta ascoltare e guardare i protagonisti di una scena musicale, italiana e internazionale, dove le eccezioni di qualità (che ci sono) affogano nel rumore assordante di melodie e testi imbarazzanti. Storpiature sonore e linguistiche figlie dell’abbassamento progressivo del livello di cultura musicale e generale. Da parte di chi «suona», ma sia ben chiaro, anche da parte di chi ascolta.

Studiare davanti a uno spartito, entrare seriamente nelle pieghe delle contaminazioni tra suono e mondo digitale, immergersi, almeno un po’, nella storia, nella letteratura e nell’arte fa di un musicista un artista nel senso compiuto del termine. Arrabattarsi con qualche software che crea musica preconfezionata e apparire ossessivamente sui social per esistere non fa di nessuno un artista. E nemmeno un intrattenitore.

Ovvio quindi che chi è cresciuto ascoltando Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Led Zeppelin, Pink Floyd, Oasis e Abba, ma anche Lucio Battisti, Fabrizio De André e i grandi cantautori italiani, non trovi punti di riferimento nelle rime e nelle sonorità di Drake (uno dei rapper più cliccati al mondo) o ancor meno in quelle di Sfera Ebbasta. I nomi storici che abbiamo appena citato sono diventati «musica classica». I loro album sono opere senza tempo, evergreen che sono stati e sono colonna sonora della vita di milioni di persone.

Dischi e canzoni che con tutta probabilità i giovani leoni della musica contemporanea usa-e-getta e i loro fan non hanno mai ascoltato e mai conosceranno. Perché il tempo di ascoltare un disco dall’inizio alla fine, e non 30 secondi di un brano su Instagram, richiede attenzione, concentrazione, inclinazione all’ascolto e, naturalmente, curiosità culturale in senso lato. La frattura generazionale, in atto dalla fine degli Anni Novanta ad oggi, è evidente così come è evidente il declino progressivo dell’arte di intrattenere con le note. Quando le case discografiche, attraverso la figura dei direttori artistici, filtravano i dischi da pubblicare, non tutta la musica spazzatura arrivava alle orecchie del pubblico. Oggi, basta un tablet per illudersi di aver scritto una canzone da promuovere su Instagram e TikTok.

Non solo: alla cultura dell’album come opera concettuale e coerente si è sostituita quella del singolo brano, la canzoncina che deve «spaccare» e trasformare un illustre sconosciuto in una star destinata a diventare meteora in un paio d’anni al massimo. C’è in giro moltissima brutta musica per adolescenti ispirata al mito dei soldi facili, della gang di strada, della volgarità e della violenza (anche verbale) gratuita. Lo dice la cronaca, vedi l’ultimo episodio in ordine di tempo che ha avuto per protagonisti Jordan Jeffrey Baby e Traffik, due trapper popolari tra i giovanissimi, ora in carcere con l’accusa di rapina aggravata dall’uso del coltello e dalla discriminazione razziale ai danni di un operaio di 41 anni d’origine nigeriana, a Carnate, in provincia di Monza. Ovviamente i due si erano filmati e avevano postato la loro impresa sui social. Che dire…

Ha perfettamente ragione Enrico Ruggeri quando sostiene che: «Siamo nell’era dell’arte intesa come rivalsa sociale. Oggi, i giovani virgulti della musica, i tronisti e gli influencer dicono in fondo le stesse cose, ostentano la ricchezza, si invidiano tra loro per un orologio… È un atteggiamento maldestramente mutuato dai rapper americani che sfoggiano anelli e limousine. Però quelli sono artisti di sostanza, mostrano quell’approccio come sberleffo alla società che li esclude. Facevano così anche i jazzisti afroamericani negli anni Cinquanta. Qui e ora, non c’è nulla di tutto questo, solo una cafonesca rivalsa sociale».

Dalla musica come arte alla musica come sfogo, come cantilena da recitare in stile mantra, per di più soltanto in italiano. Sì, perché uno degli aspetti più sconcertanti è che la Generazione Z, i giovani e i giovanissimi di casa nostra (lo dicono con evidenza le classifiche e i numeri dei clic in streaming), ascoltano quasi esclusivamente artisti «local». Soprattutto rapper e trapper. Se fosse per comprendere meglio i testi, ci sarebbe di che preoccuparsi visto che la scena attuale, a livello di parole, non è popolata da novelli Mogol… Per fortuna ci sono i Måneskin, quattro poco più che ventenni che, cantando anche in inglese, hanno conquistato il mondo a suon di rock’n’roll. E, in ambito internazionale, ci sono i Coldplay, che sul palco portano gioia e intrattenimento puro.

La musica intesa come bellezza e creatività ha bisogno di aprirsi al mondo. Esattamente quel che faceva un certo Lucio Battisti che ogni settimana (lo ricorda lo stesso Mogol nei suoi racconti) si faceva spedire dagli Stati Uniti un pacco di dischi made in Usa perché era curioso, musicalmente geniale e affamato di novità. Essere in mezzo a centomila persone che cantano Sally con Vasco Rossi è emozione pura, è la rappresentazione della canzone che diventa cultura popolare di massa. Niente a che vedere con l’esaltazione dell’ego, con la contemporanea esigenza spasmodica di apparire a tutti i costi per esistere, di sfoggiare auto, gioielli e orologi per far vedere che sei un cantante che ce l’ha fatta.

Per chi non ne avesse mai sentito parlare, è consigliata la visione di un leggendario tour dei Pink Floyd, quello di The Wall, quando i quattro artisti si esibivano nascosti dietro un enorme muro di mattoni bianchi che veniva innalzato sempre più canzone dopo canzone. Nessuno li vedeva, ma tutti godevano della magia della loro musica. Che, quando è arte, non ha bisogno di altro.

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