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Ruggeri: «Sono sempre lo stesso non allineato»

Ruggeri: «Sono sempre lo stesso non allineato»

Enrico Ruggeri ripercorre con Panorama la sua carriera controcorrente raccontata nel libro 40 vite (senza fermarmi mai). «Mi hanno bollato come artista di destra, ma io sono fatto così, dico quello che penso».


«Colpevole di ostentazione fallica per il modo con cui agitavo l’asta del microfono sul palco: negli anni Settanta mi è successo anche questo. Le femministe mi volevano menare» racconta tra l’ironico e il divertito Enrico Ruggeri. «Erano tempi strani quelli dei miei esordi. Nei primi anni Settanta molti degli artisti che amavo, Lou Reed, David Bowie, Roxy Music, Sparks erano assolutamente “gay friendly” e quindi invisi alla sinistra extraparlamentare che voleva il cantante macho con la barba e la camicia a scacchi. Tutto tranne quell’immagine alla Oscar Wilde che per l’appunto avevano band come i Roxy Music. Quella della sinistra extraparlamentare omofoba è una storia che adesso tutti omettono, ma posso assicurare che era proprio così» ricorda, lui cantautore non allineato, nato artisticamente in un’altra era della musica: «Quando il primo contratto prevedeva l’incisione di cinque album, c’era anche il tempo di sbagliare, di aggiustare il tiro. Oggi, nell’era della musica gratis da ascoltare con lo smartphone devi fare un singolo ogni tre mesi, un singolo che poi arriva al pubblico spezzettato con una manciata di secondi postati sui social, così, alla fine, nel migliore dei casi, della canzone ti ricordi soltanto il refrain e non quello che c’è prima o dopo…», racconta a pochi giorni dall’uscita dell’autobiografia 40 vite (senza fermarmi mai), edita da La nave di Teseo.

È la storia di Ruggeri lungo quattro decenni di canzoni (il primo luglio presenterà il libro ad Ascoli Piceno, in dialogo con Alessandro Gnocchi, nel corso della Milanesiana ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi). Ruggeri artista di destra: è questa l’etichetta che gli è stata affibbiata molto tempo fa. «Mah, io ho sempre espresso le mie opinioni. Viviamo, e non da oggi, in un’era di pregiudizi, di opposte tifoserie. È di destra dire di non aver creduto alla narrazione del Covid che ci hanno propinato? È di destra, dopo aver approfondito la questione, dire che secondo me Chico Forti (gli ha dedicato il brano L’America, ndr) è innocente? O forse il problema è che lo ha riportato in Italia il governo Meloni? Non ragiono per schemi, e infatti sul Medio Oriente sono molto colpito da quello che sta succedendo a Gaza» sottolinea. Sono opinioni schiette quelle di Ruggeri, un uomo che vive e respira la musica come una passione viscerale e travolgente: «È la prima cosa a cui penso quando mi sveglio al mattino. Spero che l’attuale condizione del mercato musicale si trasformi in uno stimolo creativo per i giovani. Negli anni d’oro, se eri veramente paraculo, vendevi un milione di copie, se eri sincero ventimila. Ovvio che si ponesse la questione rispetto a quale strada scegliere. Oggi, se sei paraculo vendi cinquemila copie, se non lo sei 4.800. Tanto vale provare a fare cose di qualità!».

In merito alla sua carriera dice: «Strategicamente parlando, non rifarei mille cose, ma mi affeziono alle persone e non sono cinico come molti colleghi che se uno dell’équipe non va al massimo lo sostituiscono. Io ho collaborato con le stesse persone per venti, trent’anni. Erano la mia famiglia. Chi veramente vuole il successo non si comporta così. In questo ambiente ci sono casi di uomini e donne che si sono svenate per la carriera dell’artista con cui lavoravano e che sono state lasciate a casa senza riguardi. Ma io sono fatto così» ribadisce. «Ho sempre saputo che non avrei riempito San Siro e che però non sarei scomparso dalla scena musicale. D’altra parte, non faccio un tipo di musica plebiscitaria. Certo, nei primi anni Novanta, i pianeti si sono allineati in maniera incredibile e per almeno cinque anni sono stato un formidabile venditore di dischi». Dalle turbolente serate milanesi di quel tempo, Ruggeri si è congedato con un brano, Notti di calore: «Tornavo a casa pensando di aver buttato via il tempo. Quel periodo ha segnato per me l’avvicinamento e il distacco per sempre dalla cocaina. Prima di tutto perché fa male e poi perché non tolleravo più l’idea di stare fuori dall’Hollywood a fraternizzare con un imbecille alle tre del mattino. M’immaginavo che poi quel tizio vedendomi in tv avrebbe detto a qualcuno altro che era mio amico. E questo mi faceva vergognare» racconta.

Nel ventaglio delle sue mille esperienze musicali c’è anche quella stravagante e per certi versi unica di un disco-fantasma: «Nel 2011 il mio manager mi presenta un signore italiano sposato con una donna cubana che mi chiede senza troppi giri di parole se voglio registrare un disco a Cuba. Una manciata di miei pezzi arrangiati dall’Orquesta Sinfónica Nacional, da cantare in spagnolo in duetto con i migliori cantanti dell’isola. Un po’ sospettoso, attendo che succeda qualcosa e qualcosa succede. Ci invitano a Cuba in uno studio splendido con musicisti e vocalist eccellenti. Registriamo per dieci giorni e poi torniamo in Italia. A quel punto avviene il distacco dal mio manager, l’unico che aveva contatti per quell’avventura e all’improvviso realizzo di non avere in mano niente, né un contratto né un numero di telefono. Non so nemmeno chi sia il proprietario del master. E così il progetto svanisce nel nulla come un fantasma. Per fortuna in rete ci sono alcuni video che testimoniano quelle registrazioni altrimenti sarei passato pure per millantatore…».

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