Con musica classica contemporanea si esibisce nei teatri più prestigiosi del mondo. Dalla sua fantasia sono uscite le note degli spot di Fiat, Lacoste, Nestlé, Ferrarelle e Barilla, oltre che la colonna sonora di Expo 2015 a Milano. Le melodie da lui create sono state utilizzate anche come colonna sonora delle installazioni d’arte allestite per i mondiali in Qatar. Il maestro Roberto Cacciapaglia racconta a Panorama le sue esperienze, l’amicizia con Battiato e il nuovo album, Invisible Rainbows, in arrivo il prossimo febbraio.
Roberto Cacciapaglia è un compositore e pianista che da cinquant’anni crea e sperimenta attirando a sé l’attenzione di un’audience curiosa, attenta, che lo segue con passione in Italia e nel resto del mondo come testimoniano i tour negli Stati Uniti in Russia, in Cina e in Turchia, e le collaborazioni con la Royal Philarmonic Orchestra di Londra e la Moscow Imperial Orchestra. «È un pubblico che capisce, non solo con l’intelletto, ma con tutti i sensi, la mia musica e dove voglio arrivare» spiega. Panorama lo ha raggiunto al telefono a pochi giorni dalla pubblicazione di due nuovi brani strumentali, Atlantis e London Sleeps, anticipazione del prossimo album, Invisible Rainbows, in uscita il 9 febbraio.
Composizioni senza testo in un tempo dove la forma canzone è intrisa di parole, di rime, di strofe infinite. «La parola è un’immagine, un concetto, la musica è un’arte primordiale che libera e lascia liberi perché non offre un significato precostituito. Ecco, la musica strumentale si appoggia allo spazio interno che c’è dentro di noi, permette a ciascuno di trovare il senso che vuole dentro una melodia. È il potere immenso del suono» sottolinea. Il suono creato dagli uomini, ma anche il suono che si avvale della complicità del computer: «Questo tema mi affascina dai primi anni Settanta quando lavoravo nello studio di Fonologia della Rai e collaboravo con il Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa. Il suono elettronico è intrigante se usato con coscienza. Al contrario se ci si lascia prendere la mano, il connubio musica-computer diventa un automatismo sterile. Io negli ultimi anni sto lavorando con software che non utilizzano suoni digitali, artificiali, ma che invece espandono le potenzialità del suono acustico dello strumento suonato da un essere umano» spiega.
«Franco Battiato mi venne a trovare in Conservatorio a Milano nei primi anni Settanta perché era interessato agli strumenti elettronici che sia il Conservatorio sia lo Studio di Fonologia della Rai avevano la fortuna di possedere. Era la strumentazione che a quei tempi utilizzavano i Pink Floyd e Brian Eno. Siamo diventati subito amici e abbiamo iniziato a collaborare. La sera stessa del nostro primo incontro l’ho invitato in una sala da ballo dove mi esibivo per arrotondare. Gli ho mostrato subito il mio lato sacro e quello profano» ricorda divertito. «Abbiamo lavorato insieme in studio e dal vivo nella sua fase più sperimentale. Le performance live erano straordinarie ed intensissime. Tra il suono e le luci stroboscopiche che usavamo sul palco andavamo letteralmente in trance. Ricordo una volta a Rimini di aver buttato giù dal palco un pesantissimo organo Hammond. Con Franco sono andato in vacanza in Egitto: viaggiare con lui era bellissimo perché c’era un mix di profondità e leggerezza. Ci prendevamo in giro da soli rispetto al credere troppo in quello che facevamo come lavoro. Senza cinismo, giusto per prendere un po’ di sana distanza da noi stessi come musicisti» rivela.
«Tra i miei maestri c’è Brian Auger (musicista inglese, tastierista e virtuoso dell’organo Hammond che ha suonato con Rod Stewart, Mina e Zucchero; ndr). Quando avevo 15 anni lo seguii in tour e fu così gentile da permettermi di stare seduto sul palco seduto di fianco a lui mentre suonava l’organo. Un’esperienza fantastica» racconta immergendosi nei ricordi. Come quando ha intrapreso un tour nelle case dei musicisti che hanno fatto la storia: «Mozart a Salisburgo, Beethoven a Vienna, Puccini a Torre del Lago. Poi sono andato a Londra per immergermi nella casa museo di Händel tra clavicembali e partiture dell’epoca. Händel è stato uno dei pochi compositori in grado di commuovere gli inglesi. Durante le sue esibizioni in Inghilterra piangevano tutti. A un certo punto, mi avvio al negozio del museo e mi imbatto in una gigantografia di Jimi Hendrix. Dappertutto ci sono suoi cd, foto e album. Chiedo spiegazioni a un’addetta che con la massima nonchalance mi dice: “Hendrix ha vissuto per tre anni nella casa di Händel senza sapere che quella fosse l’abitazione del compositore tedesco». Quella straordinaria coincidenza a distanza di secoli mi ha colpito così tanto da ispirarmi una composizione che ho intitolato Händel Hendrix House».
