Seimila concerti, 25 milioni di dischi venduti, 55 anni di carriera. E un nuovo disco live in arrivo. La Premiata Forneria Marconi si confessa: dai successi negli States negli anni 70 (furono la prima band d’esportazione) all’impazzimento della folla in Giappone e a quella volta in tournée che, in un «omaggio» a De André, si sono dimenticati le parole del brano. Storia degli ultimi esponenti di un’idea di musica romantica mai politicizzata o ideologica. L’antidoto a quella attuale «di plastica e fatta al computer».
«Lo abbiamo fatto per primi e ne siamo fieri» raccontano Patrick Djivas e Franz Di Cioccio, rispettivamente bassista e batterista della Premiata Forneria MarconiPremiata Forneria Marconi, il gruppo che ha fatto scoprire al mondo l’esistenza del rock italiano.Non ieri e nemmeno l’altro ieri, ma negli anni Settanta, mentre l’Italia dei concerti era preda della furia ideologica di quelli che sfondavano i cancelli dei palasport nel nome della musica gratis per tutti. «Arriva un elicottero sul tetto di un hotel a Charlotte in Carolina e ci porta nel retropalco dell’autodromo. Qualche minuto di soundcheck e via, davanti a 250 mila persone. Dopo di noi, gli Allman Brothers, i Beach Boys e gli Emerson Lake & Palmer». Il sogno di cinque ventenni che diventa realtà mezzo secolo prima dei Måneskin.
Via dall’Italia verso l’America per entrare dalla porta principale del music business a stelle e strisce. A fare da passepartout un manager italo americano, Frank Barsalona, abilissimo quanto kitsch, che li accoglie, nei dintorni di New York, immerso nella piscina della sua villa faraonica con la cornetta di un telefono senza fili collegato a un radiocomando e un piccolo buddha (un regalo di Mick Jagger) al centro di una terrazza in legno a picco sul fiume Hudson, come come racconta Franz nel libro Due volte nella vita (Aerostella). «Un altro mondo rispetto all’Italia… Non sono mancati i momenti naïf da italiani negli States. Una volta facemmo incazzare sul serio la polizia di Bel Air perché, nel paradiso dei ricchi californiani, popolato da milionari e Rolls Royce, ci mettemmo a stendere i panni in giardino come se nulla fosse. Non contenti, per ovviare all’assenza di persiane oscurammo i vetri della nostra dimora con i sacchi neri dell’immondizia. Ricordo che un poliziotto ci disse “Ma da dove venite? Secondo voi questa gente paga una villa 10 milioni di dollari per vedere i vostri vestiti appesi e teli neri di plastica alle finestre?”» racconta Patrick.
La PFM non canta canzoni, suona musica: rock, classica, folk, jazz. Lo fa da cinquant’anni riempiendo teatri e arene in tutto il mondo, infischiandosene completamente delle mode e dei trend musicali, mettendo in scena l’arte del suono, la voglia di stupire, di sperimentare di rendere ogni spettacolo unico e diverso dagli altri.
«Abbiamo superato quota seimila concerti proprio perché non abbiamo un copione da ripetere» racconta Patrick a poche ore dall’uscita del nuovo album dal vivo pfm – The Event, Live in Lugano. «Un’ora e mezza di musica dal vivo, senza computer sul palco o altri trucchetti. Solo noi, gli strumenti e la nostra incontenibile voglia di suonare. Oggi, i dischi live non sono quasi mai live, tra parti in cui suona il pc e altre risuonate in studio per correggere gli errori in concerto» sottolinea. The Event è ancora una volta un intrigante viaggio nella storia del gruppo tra grandi classici, brani recenti, improvvisazioni e jam strumentali.
Nel corso dei decenni i «ragazzi» della PFM hanno portato il loro inconfondibile sound in Messico con un’orchestra sinfonica, in Inghilterra alla Royal Albert Hall, raggiunti durante il soundcheck dalla Regina Madre (moglie di Giorgio VI) per cui hanno improvvisato brani, hanno accompagnato Fabrizio De André in uno dei tour più celebrati della storia della musica italiana e conquistato il Giappone come mai nessun italiano prima.
«Per una band europea il Giappone è come la luna. Esordiamo a Tokyo in un teatro sold out da settemila posti. Ci sono solo una decina di sedie vuote, i posti degli spettatori che non sono riusciti ad arrivare in tempo a causa del primo sciopero nazionale dei trasporti. Un evento epocale con la gigantesca tangenziale sopraelevata bloccata da migliaia di lavoratori che indossano la stessa fascia intorno alla testa. Tornati in Italia, riceviamo una manciata di lettere in cui quegli spettatori, mortificati, si scusavano per non aver fatto in tempo a raggiungere il teatro… Meraviglioso e surreale al tempo stesso» spiega Djivas.
«Un’altra volta» aggiunge Di Cioccio «sempre a Tokyo, mi accorgo durante lo show che un gruppetto sparuto di ragazzi impazzisce ogni volta che faccio un po’ di spettacolo con la mia batteria: si alzano e si sbracciano euforici. Tutti seduti e loro in piedi, scatenati… Al termine dello spettacolo chiedo spiegazioni agli organizzatori. “Sono i pompieri della città che sono impazziti perché sul kimono che indossavi in scena c’era il simbolo dei vigili del fuoco di Tokyo”. Ovviamente non lo sapevo…».
La musica al centro e tutto il resto fuori. Potrebbe essere questo il motto della PFM, da sempre poco interessata al fattore look. Lo sa bene il batterista, che dopo la firma del contratto che legava la band alla leggendaria etichetta inglese Manticore Records, gestita dallo staff di Emerson Lake & Palmer, si ritrovò inguainato in una mise con spalline alate a punta e un cuore bianco disegnato sul petto circondato di brillanti. «Un’idea del sarto personale di Greg Lake… Non era esattamente il mio stile e nemmeno quello della band così continuammo a vestirci come ci pareva, ognuno a modo suo».
Franz, il batterista, a un certo punto, all’inizio degli Ottanta, diventa frontman e cantante. «Ricordo che nel primo concerto da lead vocalist ne combinai una bella. Volevamo omaggiare De André suonando Il pescatore, così presi un grande tamburo, lo piazzai davanti al mio posto sul palco e ci scrissi sopra il testo della canzone per essere certo di non sbagliare. Bisogna tener conto che anche i brani più famosi, quando sei in scena, possono svanire dalla memoria da un momento all’altro. Tutto perfetto, quindi, se non fosse che all’attacco della canzone mi rendo conto che la pioggia del pomeriggio aveva letteralmente sciolto il testo rendendolo illeggibile. A quel punto, con l’acqua alla gola, mi lancio e creo rime con le poche parole chiave che mi tornano in mente: “sorriso, avventura cortile, fame”. Il pezzo finisce e io, finalmente, torno a respirare». n
© riproduzione riservata
