Opere trafugate che restano nascoste in magazzini dell’Asia centrale anche un decennio, e poi vengono immesse sul mercato, «ripulite» per far perdere le loro tracce. È un business illegale florido, e spesso serve a finanziare il terrorismo internazionale.
Il commercio legale di opere arte, antichità e altri oggetti culturali è oggi un’industria multimiliardaria, il cui valore stimato delle compravendite globali nel solo 2021 ha superato i 65 miliardi di dollari, con un aumento del 29 per cento rispetto all’anno precedente. Ma non meno lucroso è il parallelo commercio illegale: l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) ha stimato in almeno 6,3 miliardi di dollari i proventi illeciti associati al commercio e al riciclaggio di oggetti culturali. Una cifra che, tuttavia, secondo gli esperti è decisamente sottostimata.
L’allarme più grave viene dal Gruppo di azione finanziaria internazionale (Gafi) che, nel suo primo report dedicato all’ambito dell’arte – appena pubblicato – ha messo in guardia circa i pericoli e le incognite del riciclaggio di denaro attraverso le opere d’arte, tra le quali spicca la voce «Finanziamento del terrorismo internazionale». Ernesto Ottone Ramirez, vicedirettore generale per la cultura dell’Unesco, racconta: «Il commercio illegale ha avuto un boom negli ultimi 20-30 anni e oggi rappresenta almeno il 5 per cento del mercato. Un enorme volume di denaro, specie nei luoghi dove è diventato più facile trafficare antichità. Molti di questi sono siti del patrimonio mondiale, c’è tanto che non sappiamo. E il motivo è semplice: tutti questi siti non sono ancora stati scoperti o vi sono ancora ricerche in corso, quindi si tratta di opere che neanche sapevamo esistessero».
Ciò che colpisce, infatti, è l’estrema facilità con cui «gruppi della criminalità organizzata e terroristi riescono a riciclare i proventi del crimine e finanziare le loro attività». Secondo il rapporto Gafi, il problema principale è che le autorità delegate «non danno priorità nelle indagini in questo settore». E non certo per mancanza di volontà, ma perché «mancano risorse, consapevolezza e competenze». I criminali possono sfruttare le molte «difficoltà nelle indagini transfrontaliere» e approfittano delle caratteristiche stesse del mercato dell’arte, che spesso non consentono di capire da dove provengano le opere visti i numerosi passaggi con gli intermediari, l’uso del denaro contante e il fatto che spesso le stesse società d’intermediazione sono registrate in paradisi fiscali. Che i criminali per generare fondi illeciti utilizzino particolarmente l’arte per il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo, è stato dimostrato dalla condotta dei terroristi dell’Isis, all’epoca in cui le milizie siro-irachene conquistarono le antiche terre di Babilonia e, nell’invasione americana, dai saccheggi al Museo di Baghdad. La distruzione di siti archeologici e opere d’arte appartenenti al mondo sciita operati dall’Isis aveva il fine apparente e dichiarato di cancellare ogni forma di idolatria che non fosse coerente con la loro versione dell’Islam. Le distruzioni seguite alla conquista di Palmira, Ninive, Mosul e la scomparsa dei relativi musei, tuttavia, nascondevano una diversa realtà: molti manufatti anziché essere distrutti in realtà sono stati saccheggiati per poi essere rivenduti al mercato nero.
Il traffico di antichità sottratte dai terroristi per finanziare il jihad aveva – e ha – un metodo scientifico: ci sono gli scavatori, la manovalanza vera a propria, che ottiene un generoso 20 per cento del valore inizialmente stimato; ci sono i terroristi, che si occupano della logistica, a cui va un 50 per cento del profitto; ci sono gli intermediari, che trovano il committente e gestiscono la compravendita ricavandone un altro 20 per cento; infine, ci sono falsari, avvocati e burocrati, ovvero agenzie specializzate nel coprire sapientemente le tracce: a loro va il 10 per cento.
Se ogni operazione di occultamento di opere d’arte prelude a un commercio redditizio e difficilmente rilevabile dalle autorità, è perché vive sul lungo periodo: le opere antiche restano nascoste anche per un decennio o più in magazzini impolverati dell’Asia centrale o nelle aree ancora sotto il controllo dei terroristi, prima di rispuntare con documentazioni «ripulite ad arte» che ne attestano la legalità. Un sistema applicato a ceramiche, monete, monili, gioielli, così come a sculture, dipinti e mosaici di cui vengono dissimulate la reale provenienza e cancellati i molteplici passaggi di mano. È stata questa la fine di molte opere appartenenti ai siti dell’Unesco, razziate dai jihadisti e da molte altre organizzazioni tra Siria e Iraq già a partire dai primi anni 2000. La loro ubicazione è tuttora ignota.
«Una volta saccheggiati in Siria e Iraq, gli oggetti entrano in un mercato grigio coperto dal segreto: è un problema che resterà con noi per gli anni a venire» spiegava già nel 2017 Michael Danti, archeologo a capo del Cultural Heritage Initiatives di Boston. Il fatto che l’Isis abbia progressivamente aumentato questi traffici per compensare le progressive perdite degli altri introiti, come tasse e petrolio sui luoghi dove dettava legge, ha creato un sistema che molti altri gruppi criminali hanno poi replicato, contribuendo a creare un vulnus nel mondo dell’arte che non potrà essere riassorbito prima di decenni, secondo le stime migliori.
Tra le indagini di polizia più importanti per fermare questa deriva c’è l’operazione Pandora, a guida italiana, che tra giugno e ottobre 2020 (in piena pandemia) ha coinvolto dogane e autorità varie di 31 paesi. Pandora ha portato al recupero di oltre 56 mila beni sequestrati: oggetti archeologici, mobili, monete, dipinti, strumenti musicali e sculture. All’epoca furono fatte decine di migliaia di verifiche e controlli in aeroporti, porti, valichi di frontiera, in case d’aste, musei e residenze private di conniventi o destinatari finali. Da quel filone investigativo sono scaturite oltre 300 indagini e almeno 67 persone sono state arrestate. Da allora non ci si è più fermati: tanto che l’operazione Pandora VI, la cui fase operativa si è svolta da giugno a settembre 2021 interessando 18 Paesi e l’Interpol, ha impegnato in Italia il Comando Carabinieri Tutela patrimonio culturale, supportato dall’Arma territoriale e in collaborazione con la Direzione centrale antifrode e controllo, dell’Agenzia delle dogane e dei Monopoli di Stato. L’Italia, infatti, dal 1969 è il primo Paese al mondo a disporre di un’unità specializzata in questo campo. Il Tpc dei Carabinieri gestisce la banca dati italiana delle opere d’arte rubate, la più antica e la più grande al mondo. Ma quel che preoccupa è un numero: 1,2 milioni di oggetti mancano ancora all’appello.