Per bloccare gravi malattie mentre si cercano nuove cure. Per guadagnare tempo in attesa di un trapianto. Per rendere possibili lunghe esplorazioni spaziali. E, in futuro, per renderci più longevi. Come ci insegnano molti animali, la frontiera della vita nel «grande freddo» ha numerosi vantaggi.
Quando l’esserci si fa insostenibile e il non esserci una scelta troppo estrema, l’assentarsi diventa l’unica via possibile. Rifugiarsi in un ovattato nulla, in un limbo silenzioso dove il tempo scivola senza fare danni, seminando lontano gli effetti collaterali dell’esistenza. Nel concreto: congelarsi sperando nel risveglio in albe migliori. Del resto, negli Stati Uniti, quasi 400 eccentrici miliardari della Silicon Valley si sono già fatti «assopire» nell’azoto liquido, puntando su un indefinito domani in cui la scienza li sottrarrà alla malattia e alla morte.
Ma non di loro racconta questo articolo, bensì dei progetti, avveniristici sì, ma meno velleitari, di indurre negli esseri umani un letargo analogo a quello di tante specie animali. I motivi per provarci sono vari e assortiti: indurre il letargo artificiale avrebbe ricadute positive in molte malattie, dall’ictus all’Alzheimeir al cancro, nella chirurgia d’emergenza, nei viaggi spaziali. La chiave per riuscirci, scoprire il «pulsante» molecolare che, negli animali, innesca il torpore prolungato. A lavorarci sono alcuni centri americani, l’Università del Colorado così come quella di Oxford. E uno scienziato italiano, Matteo Cerri – pioniere in questi studi – dell’Università di Bologna. Per capire perché noi non andiamo in letargo come orsi, tassi, ghiri, ricci e altre specie, occorre fare un salto nel tempo, quando sul pianeta spadroneggiavano i dinosauri e per sfuggire ai giganteschi predatori l’antenato di tutti noi, il protomammifero, sfruttava il suo «superpotere», ossia una temperatura corporea molto più alta che gli consentiva di essere attivo di notte, quando di rettili ne circolavano meno, e procurarsi cibo senza correre il rischio di diventarlo a sua volta. Ma per mantenere elevato il metabolismo, gli antenati dei mammiferi dovevano mangiare molto, e il letargo era il modo per «compensare» i consumi, riducendo il fabbisogno di energia e ossigeno.
Strategia evolutiva che continuò per milioni di anni, finché un asteoride cadde sulla testa dei dinosauri; sulla testa di tutti, in realtà, ma furono i giganti a estinguersi, e i piccoletti a sfangarsela. In un pianeta libero da predatori, il torpore prolungato non era più così essenziale, e molte specie lo abbandonarono. Questo flash preistorico ci suggerisce una cosa fondamentale: forse, dentro di noi, c’è ancora un meccanismo (remota eredità di quei tempi) che potrebbe innescare «il lungo sonno». «Alcuni indizi suggeriscono che, probabilmente, anche l’uomo di Neanderthal andava in letargo» ipotizza Cerri, che 10 anni fa fu il primo a indurre il letargo in un mammifero, un ratto, per poi risvegliarlo (e sull’argomento ha scritto nel 2019 La cura del freddo, Einaudi).
Il letargo è condizione abbastanza misteriosa: l’organismo va in «stand by», abbassando drasticamente metabolismo, battito cardiaco, temperatura corporea. Il che può durare settimane o mesi, a seconda delle specie, con brevi intervalli di «risveglio». Il vantaggio, superare indenni stagioni e climi inospitali, tornando poi come nuovi. Nell’uomo, come si diceva, il torpore «sintetico» avrebbe ottimi ragioni per essere recuperato. Ciò che i vari laboratori stanno cercando di fare è indurre negli esseri umani un letargo non troppo estremo, simile a quello degli orsi bruni: una riduzione di temperatura non oltre 6 gradi e un calo del metabolismo di circa un quarto. Sandy Martin dell’Università del Colorado, come riporta il settimanale New Scientist, colleziona tessuti di animali che vanno in ibernazione per identificare i geni che attivano e mantengono questo stato. Una banca biologica che permetterà di intervenire sui «pulsanti» giusti per simularlo a nostro uso e consumo.
Oggi, con le tecniche di sequenziamento genetico e di genomica comparativa sempre più rapide, i progressi stanno arrivando: il suo team ha già individuato una manciata di molecole che, nel Dna di alcune specie di scoiattoli, protegge da ipertensione e malattie cardiovascolari. L’obiettivo finale, mettere a punto farmaci che agiscono in modo analogo. In California, ci sta lavorando la startup Fauna Bio. Altri ricercatori (Oregon Health and Science University, University of Alaska) sono invece sulle tracce dell’adenosina, una molecola che, agendo sul cervello, fa sì che negli animali il cuore inizi a battere molto più lentamente e la temperatura corporea scenda, entrando così in letargo. «Negli ultimi 10 anni i passi avanti sono stati significativi» precisa Cerri. «Noi, e altri gruppi americani, giapponesi e russi, stiamo sperimentando procedure che agiscono sul cervello, in punti e modi diversi, per dire all’organismo, tramite piccoli gruppi di neuroni, di entrare in letargo. Il cervello, in sostanza, dice al corpo di abbassare il metabolismo, fino a che punto dipende dalla potenza del metodo e da quanto vogliamo che il corpo si raffreddi compensando gli effetti collaterali».
Qualche episodio di simil-letargo auto-indotto, negli esseri umani, esiste. Capita raramente, ma alcune persone soffrono di una sindrome che le porta in uno stato di ipotermia periodica. E poi ci furono i casi di due alpinisti che nel 1997 e nel 2005 rimasero prigionieri sull’Everest, al gelo (- 40 gradi) e con pochissimo ossigeno, che «resuscitarono da soli» dopo interminabili ore. L’unico fenomeno naturale per spiegare un evento del genere è una sorta di stato letargico che riuscì a preservarli dal decesso. In medicina, raffreddare un corpo fino ai limiti della sopravvivenza, e mantenerlo in questo stato di sospensione, sarebbe una strategia salva-vita per guadagnare tempo: «Per esempio nei casi di epatite fulminante dovuta a ingestione di funghi tossici o per overdose di paracetamolo» spiega Cerri. «L’unica terapia è il trapianto di fegato, ma vivere senza fegato è possibile per solo pochi giorni, e non è detto che l’organo si trovi subito. Abbassando il metabolismo si aumentano le chance di trovare un donatore. E questo vale per tutti i trapianti».
Il torpore indotto agirebbe come un ponte in attesa di terapie risolutive, e la stessa cosa vale per ictus, infarto, shock settico. Il letargo artificiale poi offre prospettive inedite per l’Alzheimer. Negli animali che si ibernano, gli organi mettono in atto particolari strategie di adattamento: al risveglio, per esempio, il loro cervello torna in funzione meglio di prima. Capire il meccanismo di questa pulizia neuronale sarebbe utile nei casi di neurodegenerazione. Altro «talento» delle specie che vanno in ibernazione, è quello di mantenere intatti i muscoli, che non perdono né tono né massa né struttura ossea; nei pazienti che devono stare a letto per mesi, invece, i muscoli si atrofizzano. Anche qui, si tratta di individuare la molecola chiave. Infine, durante il letargo, i tumori smettono di crescere, perché le cellule rallentano la loro replicazione.
«In questo momento nel nostro laboratorio studiamo un’altra potenziale applicazione» racconta Cerri. «Negli animali che vanno in letargo le cellule mostrano un’elevata resistenza ai danni delle radiazioni. E questo apre prospettive per una terapia nella sindrome acuta da radiazione in caso di incidenti nucleari. Insieme a colleghi tedeschi, stiamo lavorando per capire se il letargo indotto può essere utilizzato come adiuvante nella radioterapia oncologica: proteggendo i tessuti sani, si potrebbe essere più aggressivi ed efficaci in termini radioterapici». Il limite maggiore ai viaggi spaziali prolungati è proprio quello delle radiazioni micidiali cui sarebbero esposti gli astronauti. Ma non è l’unico: vivere tanti mesi in orbita espone a debolezza ossea e perdita muscolare. L’ipersonno artificiale sarebbe un ottimo «scudo» contro i danni dell’assenza di gravità.
Oggi i centri che studiano l’ipersonno indotto esplorano anche questa possibilità. All’Esa, l’Agenzia spaziale europea, si sta valutando se spingere il letargo sintetico umano verso il modello dello scoiattolo (metabolismo ridotto del 95 per cento) o dell’orso (in cui il calore corporeo si riduce del 70 per cento). Infine, il sogno di tutti: prolungare la giovinezza o, quanto meno, allontanare lo spettro della senescenza. Non a caso, le specie che si ibernano sono più longeve delle altre (a parità di dimensioni), e mentre dormono per tutto l’inverno, il loro organismo invecchia più lentamente. La formula della «Bella addormentata nel bosco», volendo chiamarla così, interessa parecchio i ricercatori dell’anti-aging, anche se per ora sembra la prospettiva più lontana, con buona pace dei miliardari che fluttuano speranzosi nella loro avveniristica placenta. A noi, in fondo, basterebbe «letargizzarci» solo un po’, nei periodi peggiori nella vita, tra pandemie, guerre e guai privati, dimenticando tedio e sventure. Per poi riaprire gli occhi e tirare, finalmente, un sospiro di sollievo.
