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Ernst Jünger e gli altri maestri che hanno previsto i tempi moderni

Ernst Jünger e gli altri maestri che hanno previsto i tempi moderni

Lo scrittore tedesco aveva capito che la paura ci fa rinunciare alla libertà (proprio come avviene oggi) e adorare la scienza per esorcizzare la morte.


«I tiranni vivono costantemente nella tremenda convinzione che a poter uscire dallo stato di paura siano in molti, non solo alcuni individui singoli, il che significherebbe con certezza la loro caduta. Questo è anche il vero motivo del rancore contro ogni dottrina del trascendente. Lì infatti si cela il massimo pericolo: che l’uomo non abbia più paura». A scrivere queste parole in occasione del sessantesimo compleanno del filosofo Martin Heidegger, nel 1950, è stato il grande scrittore tedesco Ernst Jünger in un saggio intitolato Oltre la linea. Sono passati più di 70 anni, ma il valore di ogni singola frase è rimasto intatto. Anzi, il breve passaggio citato sembra descrivere perfettamente la realtà che affrontiamo in questi giorni di emergenza sanitaria.

Basta dare uno sguardo alla bella e ricca antologia appena pubblicata dall’editrice Aga, Ernst Junger. L’anarca dal cuore avventuroso, per rendersi conto di quanto l’autore avesse penetrato in profondità il cuore della modernità. Come scrive Alain de Benoist nell’introduzione alla raccolta: «Egli è divenuto sismografo, uomo dei terremoti e delle svolte epocali, vedetta che annunciava quel che vedeva prima ancora che gli altri ne avessero preso coscienza, a rischio di non trovare altro che incredulità e incomprensione». Jünger aveva capito, per esempio, quale ruolo giocasse la paura nell’esistenza degli uomini. Guardiamoci intorno: viviamo come annichiliti dal terrore della morte.

Di fronte a una pandemia che ha minacciato la nostra salute, siamo precipitati nel panico, abbiamo accettato ogni restrizione, ogni limitazione della libertà, ogni provvedimento governativo, anche il più inutile e contraddittorio. Perché tutto questo? Perché, appunto, il terrore ha prevalso. Jünger aveva capito che sarebbe finita così. Aveva compreso che l’uomo moderno, più di ogni altra cosa, teme il dolore fisico, dato che oggi «il corpo è il valore supremo».

La sola idea di danneggiarlo, di metterlo a rischio, ci blocca. Ecco allora che siamo pronti a rinunciare alla libertà, all’anima perfino, pur di conservarci un fisico funzionante. In questo quadro, solo chi riesce ad affrontare e vincere il terrore raggelante della morte – magari sostenuto dalla forza di un ideale o di una fede – può trovare il coraggio di opporsi al sistema dominante, di battersi per la libertà. Questo combattente Jünger lo chiama «ribelle», e precisa che si tratta dell’individuo che ha il fegato di «passare al bosco».
Claudio Risé ha spiegato cosa simboleggi questo bosco: «Ciò che ci fa paura più di ogni altra cosa è la morte. E allora il Bosco è la grande dimora della morte, la rappresentazione del pericolo di dissoluzione e il luogo di più profonda meditazione su di essa». Dunque il ribelle, colui che ha il coraggio di opporsi a ogni totalitarismo, è il coraggioso che sfida la paura, non teme il dolore fisico, simbolicamente affronta l’oscurità della foresta.

Nella foresta, tuttavia, egli recupera un altro aspetto fondamentale dell’esistenza: il rapporto con la natura viva e vitale, l’unica forza in grado di contrastare il vero potere che tiene in scacco il mondo moderno, cioè la tecnica. Di nuovo, siamo in piena attualità: viviamo nell’era della «quarta rivoluzione industriale», ci siamo affidati alla tecnologia e alla scienza come fossero divinità pagane, ci aspettiamo che siano in grado di risolvere ogni nostro problema.

Lo storico Ernst Niekisch aveva approfondito il tema in uno scritto dedicato proprio all’opera di Jünger, ora ristampato dall’editore Bietti in un volumetto intitolato Ernst Jünger. Abisso, decisione, rivoluzione. «La tecnica crede all’altezza di tutti i compiti» spiegava Niekisch. «La produzione industriale spinge a una crescita smisurata. L’individuo si sente libero. Per principio, non riconosce più alcun limite». Non è esattamente ciò che succede oggi? Gli «spiriti animali» del capitalismo sregolato puntano a sbriciolare ogni frontiera, ogni confine. Gran parte dell’umanità ha sostituito la religione con il culto del progresso, che sembra rimasto ingenuo come ai tempi del positivismo.

Sempre negli anni Cinquanta, un altro autore di straordinaria profondità aveva intuito la deriva pseudo religiosa della tecnica. Lewis Mumford, professore in prestigiose università americane, pubblicò nel 1956 Le trasformazioni dell’uomo, appena riproposto in nuova edizione da Mimesis. In quel libro coglieva «il disinteresse proprio della ricerca scientifica, il suo concentrarsi esclusivo sulle prove e sulle verità dimostrabili, l’allontanamento sacerdotale dei suoi rappresentanti più devoti da ogni sorta di sordido calcolo e perfino dalla realtà sensibile […] avvicina la scienza moderna alle tradizioni della religione e della filosofia, da cui essa è effettivamente nata». Difficile dare torto al pensatore statunitense: osservare per credere il comportamento dei tanti «esperti» che oggi affollano le televisioni pretendendo di comunicare verità assolute, assimilabili ai dogmi di fede.

Mumford spiegava poi che «l’uomo del Nuovo Mondo vive in un “universo in espansione”, che si tratti di sapere scientifico o di invenzione tecnica. I diversi elementi di questa galassia aumentano rapidamente in termini di dimensioni, allontanandosi allo stesso tempo sempre più dal loro nocciolo: l’io umano».

Già: più la tecnica allarga il dominio, più ci convinciamo di poterla utilizzare per modificare il creato e pure noi stessi, più ci condanniamo a perdere pezzi di umanità. Crediamo di poter funzionare come macchine, di superare la nostra condizione imperfetta. Per un po’, l’illusione dura. Ma poi sono proprio il dolore, la malattia, la consapevolezza che siamo destinati a morire a riportarci con i piedi per terra, e a gettarci nello sconforto.

Per chi si illude di poter diventare onnipotente, la scoperta del limite rappresenta una ferita insanabile. Meglio, allora, mantenere la consapevolezza che essere uomini significa, per forza di cose, vivere all’interno di confini ben precisi, che non possono essere varcati. Ed è appunto il ritorno al bosco, alla natura antica e paziente, a consentirci di venire a patti con la nostra condizione.
Jünger testimoniò il suo legame con la terra in una miriade di testi, alcuni dei quali si trovano nel corposo volume edito da Guanda e intitolato Il contemplatore solitario. Perfetta autodefinizione, quest’ultima. Lo scrittore contemplava il mondo a distanza, ribelle solitario anche se non distaccato, capace di quella superiorità che soltanto a pochissimi maestri si addice.

Per noi comuni mortali, di questi tempi, è sempre più difficile assumere questa posa. I più sono condannati a quella che Jünger chiamava «mobilitazione totale». Viviamo, specie durante la pandemia, come se fossimo in guerra (anche se la guerra vera è cosa ben diversa), e chi si chiama fuori è considerato un traditore. Ma più il brulicare moderno ci attira nel gorgo, più il ritorno all’ombra boschiva diviene fondamentale, se non altro come momentanea via di fuga.

Per ricordarci che non siamo ingranaggi di una mega macchina, dobbiamo concederci un ritorno alla terra. Come quello a cui ha dedicato quasi tutta la sua monumentale opera Knut Hamsun, scrittore nordico per eccellenza, premio Nobel e – come in parte Jünger – intellettuale guardato con sospetto perché ritenuto «filo nazista». Einaudi ha da poco dato alle stampe lo splendido Germogli della terra, un libro in cui la natura parla riga dopo riga, ricordandoci la verità che, obnubilati dal fulgore della tecnica, tendiamo a dimenticare. La verità che Hamsun pronunciava parlando di se stesso: «Provengo dalla terra e dal bosco con tutte le mie radici».

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