Amazzoni, cavalier-pulzelle, combattenti in guerre mondiali. Tra mito e storia, c’è un esercito di donne che non ha remore né senso d’inferiorità e prende parte allo scontro. Ma ci sono anche altre figure – fiere senza essere mascolinizzate – che offrono esempi di una femminilità potente e ribelle.
Il mito si è travasato nelle immagini digitali dei blockbuster hollywoodiani. Se oggi si citano le Amazzoni, subito la mente – specie quella dei più giovani – corre ai film di Wonder Woman che con successo si moltiplicano sul grande schermo. Anche se poi, ad approfondire un attimo la storia del personaggio, si scopre che fu creato negli anni Quaranta da William Moulton Marston (1893-1947), psicologo americano dotato di una grande passione per il fetish, le corde e le belle ragazze (consenzienti) legate come affascinanti salami.
Teorico e praticante del poliamore, a suo modo femminista, Marston diede vita a un’eroina che alle sfumature «bdsm» univa un grande carattere. La voleva «forte come Superman ma con il fascino di una donna brava e bella», e così fu. Col tempo, gli aspetti più pruriginosi della superfemmina furono smussati, ma rimase più forte che mai il legame con le Amazzoni.
Le «donne guerriere» per eccellenza, nel fumetto e nei film, vengono collocate sulla misteriosa Isola del paradiso, ma studi archeologici nemmeno troppo lontani nel tempo hanno mostrato segni di una reale esistenza di queste creature straordinarie. Come spiega Julie Wheelwright in Sister in arms (Odoya), «le Amazzoni erano in realtà donne della società sciita che vivevano fra gli uomini, allevate come loro pari, indossavano gli stessi abiti pratici dei ragazzi e imparavano a tirare con l’arco e a cavalcare. Anche da madri», prosegue la studiosa, «continuavano a condividere la stessa aspra vita all’aperto degli uomini».
Durante gli scavi nelle terre degli sciti in Ucraina, gli archeologici hanno trovato «oggetti di uso femminile, come fusi e specchi, ma anche coltelli, spade e frecce». Segno che le Amazzoni sì combattevano come gli uomini, ma non per questo rinunciavano al Femminile. Diversa la sorte di molte loro eredi (spirituali, se non altro). Come scrive sempre la Wheelwright, «dal tardo XVI secolo alla fine del XVIII, sono documentati casi di centinaia di donne soldato e marinaio che si facevano passare per uomini, molte delle quali erano conosciute come tali dai reclutatori, dagli uomini con cui prestavano servizio e dai loro ufficiali comandanti». Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orleans, in questo contesto è un’eccezione: lei non si fece passare per maschio, indossava un’armatura di cui era molto fiera, su misura per lei, ma va anche detto che non gliela perdonarono, l’esuberanza battagliera, tanto che finì processata e arsa.
A tante e meno famose altre toccò mascherarsi. Singolari esempi di travestitismo, questi: donne che per misurarsi sul campo di battaglia o in mare aperto dovevano mascherare la propria appartenenza di genere e in qualche modo rinnegare la propria femminilità.
Celebre è il caso di Nadežda Durova, un’Amazzone a tutti gli effetti. Nacque proprio in Ucraina, nelle terre che le donne sciite battevano a cavallo armate di archi. Probabilmente, fin da bambina, aveva ascoltato i byliny, cioè le canzoni epiche che celebravano le gesta delle guerriere che prima sfidavano la sorte sul campo, poi tornavano alla vita domestica e alle famiglie.
La Durova fu in un certo senso allevata dai lupi come Mowgli. Venne al mondo in un accampamento militare a Kiev, figlia di un maggiore russo. Crebbe fra i soldati, e come un soldato. Sin da bambina conosceva le marce, gli ordini e la scansione della vita militare. All’inizio dell’Ottocento, come ogni ragazza dell’epoca, prese marito ed ebbe anche un figlio. Ma a 24 anni, nel 1807, il richiamo del sangue fu più forte. Abbandonò il focolare e fuggì a cavallo per unirsi a un reggimento di Ulani, sotto gli abiti maschili di Aleksandr Sokolov. Combattè nella campagna prussiana contro Napoleone, fu decorata e divenne famosa in tutta la Russia nel 1836, quando la rivista di Aleksandr Puškin pubblicò le sue Memorie del cavalier-pulzella.
Ci sarebbe voluto parecchio tempo prima che le «pulzelle» potessero effettivamente impegnarsi in battaglia con i loro veri nomi, anche se gli abiti restano gli stessi degli uomini. Nel corso della Seconda guerra mondiale, per esempio, ben 400 mila donne hanno partecipato ad azioni militari, anche se per lo più furono dal combattimento. Alcune di loro, come Diana Barnato Walker e Elisabeth Remba Gardner, si distinsero nei cieli, trasferendo aerei militari anche in voli transatlantici.
Parliamo delle donne che componevano il Women Airforce Service Pilots, che riuniva circa 800 volontarie. Costoro hanno anticipato le tante che, anche oggi, vestono la divisa in vari scenari di crisi nel mondo. A questo riguardo si può dire che l’agognata «parità» sia stata almeno in parte raggiunta, e purtroppo – basti ricordare l’orrendo caso di Abu Ghraib – non sempre le donne rimediano miglior figura dei commilitoni maschi.
Quel che più ci importa, tuttavia, è mettere in luce, delle femmine combattenti, lo spirito. Di questi tempi va di moda la lacrima facile, il vittimismo regna sovrano e non si parla che di discriminazioni sessiste e di donne che sarebbero sottomesse. Ebbene, ci sono ragazze e signore che, nel tempo, hanno dimostrato di avere tutto tranne l’atteggiamento della vittima. Femmine che sarebbe bello citare di più, e magari prendere a esempio. Come la ragazza tratteggiata benissimo da Mario Vattani nel romanzo Rika (Idrovolante edizioni), ispirato alla storia vera di una diciassettenne di Tokyo che, trovandosi in Italia, subisce una terribile aggressione ma, minuta e giovane com’è, trova la forza per ribellarsi. «Era una ragazzina normale. Eppure col suo coraggio, la sua determinazione, l’essere pronta a tutto pur di non arrendersi mi sembrò un esempio. Per tutti, non solo per le donne» ha raccontato Vattani. «Questa storia dimostra che dovunque ci si trovi, sia pure nella solitudine più assoluta, l’individuo riesce con la propria personalità, con il proprio coraggio, non solo a salvarsi, ma a trasformarsi in qualcosa di migliore».
Di combattenti che non avevano bisogno d’indossare la divisa per dare battaglia ci offre un campionario strabiliante pure il bel saggio Donne d’avanguardia (Il Mulino) di Claudia Salaris. Fra tutte scegliamo la «superfemmina» Valentine de Saint-Point, autrice del manifesto delle donne futuriste. Artista allieva di Alfons Mucha e Auguste Rodin, espose a Parigi e New York, collaborava con Poesia ai tempi di Marinetti e si presentava – di nuovo! – come un’Amazzone. «Rappresentava non soltanto la forza della natura, ma soprattutto l’istinto femminile». Non una donna mascolinizzata, come quelle che troppo spesso oggi ci vengono proposte. Ma, selvatica e fiera, seppe raccontare la sessualità femminile decenni prima di tante militanti progressista.
Scrisse un romanzo intitolato Una donna e il desiderio (1910), in cui usava queste parole per descrivere la protagonista: «Ella era il desiderio, la sfida, l’irritazione, il trionfo, la ribellione. La solitudine era la sua forza, che creava l’ardore e la potenza». Potrebbe essere, questa, una donna di quelle tratteggiate da David Herbert Lawrence nei suoi capolavori di erotica solare.
Per venire ai giorni nostri, la frase della Saint-Point appena citata sarebbe perfetta per descrivere la voce femminile che ci accompagna nella lettura di Stradario aggiornato di tutti i miei baci, il nuovo libro di Daniela Ranieri ora in uscita per Ponte alle Grazie. Trattasi di uno dei romanzi più belli letti negli ultimi anni. Un libro imponente nella mole, che però si legge d’un colpo, perché staccarsi non si può. C’è tutto, in quelle pagine (fiction cristallina, filosofia, commento sull’attualità, divertimento, tristezza, passione), ma riassumerlo è impossibile in poche righe.
Però ciò che emerge di più – a parte la scrittura ammaliante – è la forza della narrazione, ricca di una femminilità amazzonica e insieme delicata, che ci racconta di lotte amorose e sensi inebriati, senza un grammo del piagnisteo che affligge la stragrande maggioranza delle (sedicenti) scrittrici in circolazione. Segno che, in diverse forme, lo spirito guerriero sopravvive.