Mancanza di risorse o di scelte chiare per nuovi impianti, infinite trafile burocratiche che impediscono la ristrutturazione di quelli storici. La gestione pubblica dei campi dove giocano le squadre italiane non riesce a stare al passo con le esigenze del calcio attuale, come dimostrano i casi di Roma, Firenze e Milano. Le soluzioni ci sarebbero, ma vanno adottate in tempi stretti. Anche per essere competitivi in vista degli Europei 2032.
Ventinove stadi nuovi negli ultimi 25 anni per un investimento di oltre un miliardo di euro. La nazione che può togliere l’organizzazione degli Europei di calcio del 2032 all’Italia è la Turchia, dove non sono stati con le mani in mano. In Italia, invece, nel medesimo periodo ne sono stati costruiti solo cinque e da anni, tra pastoie burocratiche e contrasti tra club e amministrazioni locali, si trascinano autentiche telenovele come quelle del nuovo impianto della Roma, di quello di Milano o della ristrutturazione di Firenze. L’Uefa deciderà entro il 10 ottobre a chi assegnare «Euro32» e l’Italia ha bisogno come non mai di vincere e di prendere in mano il dossier stadi una volta per tutte, snellendo le procedure e smettendo di ostacolare i capitali privati. E il goffo tentativo, miseramente fallito, di finanziare i nuovi impianti di Firenze e Venezia con i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza è la campanella di fine ricreazione.
In caso di vittoria, è già deciso che le città che ospiteranno la fase finale degli Europei sono Milano, Torino, Verona, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Cagliari. L’unica struttura davvero pronta, moderna e funzionale è l’Allianz Stadium di Torino. Con 41 mila posti, è stata inaugurata nel 2011, senza barriere architettoniche, con una visuale perfetta e ravvicinata, pensata per essere vissuta sette giorni su sette. È di proprietà della Juventus, che ha potuto metterla a garanzia del proprio fatturato, esattamente come hanno fatto l’Udinese con la Dacia Arena, il Sassuolo con il Mapei Stadium di Reggio Emilia e l’Atalanta con il Gewiss Stadium, dopo che nel 2017 il comune di Bergamo mise all’asta l’impianto, poi perfettamente riadeguato dal club orobico. Per capire quanto conviene gestirsi da soli il campo da gioco, basta ricordare che la Juventus ha speso 155 milioni di euro e ne ha incassati circa 600 in 11 anni dalla gestione, tra biglietti, servizi e sponsorizzazioni.
Il modello, sia finanziario sia architettonico, è sempre quello inglese. Ormai una banalità, visto che sono almeno trent’anni che se ne parla in tutte le salse. Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli neo campione d’Italia, in un’intervista alla Repubblica del 10 maggio ha riassunto i termini della questione: «Abbiamo un grandissimo problema con gli stadi: tranne qualche rara eccezione, sono obsoleti, la partita si vede male, c’è la pista d’atletica, come a Napoli o a Roma. Vogliamo portarvi le famiglie? Vogliamo far sì che allo stadio si possa rimanere tutta la giornata a divertirsi, a mangiare? Io allo stadio celebrerei i matrimoni e le prime comunioni». In stadi nuovi crescono di pari passo la sicurezza, la bellezza dello spettacolo e i ricavi delle società. E con una battuta, lo ha spiegato anche Paolo Scaroni che, nel ruolo di presidente del Milan, il 27 aprile scorso ha raccontato ai cronisti che con un impianto moderno «potremmo vendere i biglietti di Champions a 5 mila euro», riferendosi ovviamente non ai tagliandi per i tifosi normali, ma ai palchi dedicati alle aziende per le loro attività di pubbliche relazioni.
Un’inchiesta del marzo scorso pubblicata dal Sole 24 Ore riportava che in Europa, tra il 2010 e il 2020, sono stati costruiti 153 strutture per una spesa di 20 miliardi. Nel dettaglio, in Inghilterra ne sono stati realizzate 12, in Polonia 23, in Russia 16, in Francia 10 e in Germania 11, nonostante il grande sforzo già sostenuto per i Mondiali del 2006. E durante la pandemia, tra il 2020 e il 2021, altri 17 stadi sono stati inaugurati in Europa. Da noi, invece, tra un’interpellanza in consiglio comunale e un parere delle Belle arti, è quasi tutto fermo. E squadre divise da una rivalità accesa, come Roma e Lazio, o Milan e Inter, devono giocare nello stesso impianto vetusto, pagando l’affitto al comune o al Coni, in una situazione di condominio coatto che in Inghilterra o in Spagna sarebbe semplicemente impensabile.
Le norme ci sono, ma hanno funzionato poco e male. Si tratta di un comma inserito nella legge di Stabilità del 2014 che prevedeva procedure amministrative più semplici e modi di finanziare ristrutturazioni e nuovi impianti con il credito sportivo. E così ecco lo studio di fattibilità, il piano finanziario condiviso tra enti locali e club e poi la famosa Conferenza dei servizi che i tifosi hanno purtroppo imparato a conoscere. Si tratta di un «tavolo» tra i vari enti pubblici coinvolti, i privati proponenti e il comune, che in caso positivo viene poi seguito da un’altra «conferenza» convocata dalla Regione. Tutto il processo dovrebbe concludersi entro 120 giorni dalla presentazione del progetto. Nelle norme c’è anche un’esplicita esclusione della speculazione edilizia. Insomma, non si possono inserire nei piani la costruzione di abitazioni residenziali. Qualche presidentissimo ovviamente ci aveva provato, ma se oggi siamo nella palude assoluta la colpa è dei rimpalli della burocrazia e non di oscuri palazzinari.
Un esempio di come non devono andare le cose arriva da Firenze, dove va in scena il suicidio dell’amministrazione di centrosinistra guidata da Dario Nardella, rimasta con il cerino in mano dopo che l’Europa ha negato 55 milioni per la ristrutturazione dell’Artemio Franchi. «Noi come Comune ci opponiamo a una sola cosa, al fatto che il Franchi faccia la fine di uno stadio abbandonato», ha detto il sindaco del Pd lo scorso 2 maggio, ricordando che c’è una gara pubblica in corso. Una gara a cui non partecipa la Fiorentina di Rocco Commisso e che deve tenere conto di un vincolo delle Belle arti, visto che il Franchi fu progettato 90 anni fa da Pier Luigi Nervi. Commisso è uno che non le manda a dire e ama ripetere due cose: che «la burocrazia sta uccidendo l’Italia» e che il Franchi «non è un monumento all’altezza di questa città».
Dal suo arrivo a Firenze, il miliardario italoamericano ha cercato in ogni modo di costruire uno stadio di proprietà, o di ristrutturare profondamente il Comunale (spesa di 150 milioni, tutti a carico della Fiorentina), trovando proprio nell’amministrazione locale un ostacolo insormontabile. Intanto, ha investito 140 milioni nel Viola Park, il centro sportivo del club a Bagno a Ripoli, dando un bello schiaffo ai temporeggiatori di Firenze. Appartiene invece alla letteratura dell’orrore quello che è capitato alla Roma di James Pallotta, che nei suoi nove anni nella Capitale ha tentato inutilmente di costruire un nuovo impianto, nonostante l’amministrazione di Ignazio Marino avesse approvato il progetto di Tor di Valle nell’ormai lontano 2014. Dall’estate del 2020 è arrivata la famiglia Friedkin, che ha presentato un progetto a Pietralata affidato allo studio americano di architettura Populous, quello che ha firmato altri stadi come il Tottenham Stadium a Londra o la Coca-Cola Arena a Dubai. La nuova casa dei giallorossi prevede fino a 62 mila posti, spazi per convegni, museo della Roma, attività commerciali, un asilo, palestre e un centro medico. Il costo previsto è di 580 milioni e i ricavi annui a regime sono di almeno 70 milioni. Il 9 maggio, il consiglio comunale ha approvato il progetto (con modifiche) e adesso si aspetta che la Regione Lazio convochi la conferenza decisoria. Se tutto fila liscio, si apriranno i cantieri entro il 2024. A dieci anni dal primo semaforo verde del Campidoglio.
Sono invece ben cinque gli anni passati senza alcun risultato da quando Milan e Inter hanno cominciato a proporre il nuovo stadio di San Siro all’amministrazione comunale di Beppe Sala. Rossoneri e interisti hanno messo sul tavolo un progetto che, tra campo da gioco e «Cittadella dello sport», vale 1,3 miliardi di euro. La maggioranza che sostiene Sala, molto spostata a sinistra e assai green chic, sembra contraria e il primo cittadino finora ha temporeggiato perché teme di andare allo scontro con i suoi. Da ex manager, sa perfettamente che le due società sono molto determinate e hanno pronti piani di riserva su terreni privati: il Milan andrebbe in zona Lampugnano o a Sesto San Giovanni e l’Inter a Rozzano. Se non si dà una mossa, il sindaco rischia di passare alla storia come colui che ha fatto scappare da Milano due società che hanno vinto la Champions e di tenersi sul groppone il vecchio San Siro, che non si mantiene certo con un paio di concerti rock all’anno.
In questa situazione i soldi pubblici per rimettere a posto gli stadi con la scusa degli Europei sarebbero vitali, ma non bastano. Servirebbe un colpo d’ala. Una prima soluzione, draconiana, sarebbe creare un’apposita società-veicolo dello Stato che gestisse le proprietà comunali e vendesse gli impianti ai privati interessati. Oppure, è l’ipotesi che circola a livello governativo, si potrebbe nominare un «commissario agli stadi», che dipenda dal ministro dello Sport Andrea Abodi, capace di superare le pastoie burocratiche. A cominciare dalle micidiali conferenze dei servizi che, come racconta un presidente di club, «sono produttive come una riunione di condominio».
