Viviamo immersi in una cultura vittimista, dove ogni difficoltà diventa «un trauma». Eppure basterebbe ricordare la lezione degli eroi omerici. Che piangevano vere lacrime di fronte al dolore, ma erano i primi a lanciarsi nelle battaglie dell’esistenza. Perché solo attraversando le ombre si può raggiungere la luce.
Gli antichi piangevano tantissimo. Piangevano i brutali guerrieri greci, che non si facevano scrupoli a trascinare il cadavere dell’avversario sconfitto con un carro per farne scempio, ma poi si scioglievano in lacrime davanti ai compagni riuniti. Piangevano, ancora di più, i romani tetragoni. Lo spiega la storica Sarah Rey (Le lacrime di Roma, Einaudi): «Le lacrime nella Roma antica fornivano un ausilio imprescindibile al politico, erano l’arma preferita degli oratori e il mezzo con cui distinguersi dal volgo. […] Per loro, i singhiozzi sono una questione pubblica. Esiste una politica, persino una “polizia” delle lacrime».
Piangevano tanto, gli antichi, che quando la religione cristiana iniziò a diffondersi uno degli argomenti di polemica tra fedeli di Cristo e pagani fu il lamento funebre. Un pianto rituale che, ricordava Ernesto De Martino (Morte e pianto rituale, Einaudi), venne respinto dai cristiani «proprio sul terreno religioso e in quanto costume pagano antitetico alla ideologia cristiana della morte». Più che comprensibile: per il cristiano alla morte segue la resurrezione, anche quella dei corpi. Per il greco, al contrario, chi muore diventa un’ombra sottile destinata all’oblio nell’Ade. Solo gli eroi, per gli antichi, andavano incontro a una fine diversa.
Emblematica, in questo senso, la figura di Achille. Il Pelide, ha spiegato il grande storico Jean-Pierre Vernant, si trovò a scegliere tra una vita dolce e lunga, con una donna a fianco, che lo avrebbe condotto a una morte tutto sommato serena, nel letto di casa. A questa fine sarebbe seguita la sparizione nel mondo oscuro sotterraneo. Achille, dopo un’esistenza beata, sarebbe divenuto un’ombra inconsistente.
Solo che il guerriero dall’ira funesta non scelse la via più facile. S’incamminò sulla via della spada, quella che conduce alla «bella morte», quella eroica. Una morte che richiede un’esistenza adeguata, fatta di allenamento, vigore fisico, purezza morale. L’eroe greco dev’essere il primo a lanciarsi nella battaglia fumante, il primo ad avventarsi gridando sul nemico.
Il guerriero omerico, per distinguersi dalla massa, deve essere «virtuoso», cioè praticare l’aretè, traducibile in latino con virtus. Scrive Mario Polia, il più grande esperto italiano di etica guerriera: «L’aretè non concerne la forza fisica: è il movente ideale che spinge la persona a usare le risorse della mente e del corpo per il raggiungimento di un nobile fine. Si manifesta nella capacità di realizzare azioni eccellenti; di concepire pensieri conformi a verità e giustizia e di realizzarli mediante la parola». La virtù greca (omerica, per la precisione) è un impasto di nobiltà del sentire, abnegazione e coraggio. È grazie a questi valori che, in qualche modo, i greci tornano ad avvicinarsi ai cristiani.
La pienezza dell’aretè, della virtù, consiste infatti nel superamento del timore della morte. «Per l’anima eroica», scrive Polia nel saggio Exempla (Cinabro edizioni), «la morte non rappresenta un limite insormontabile: incita il guerriero a vivere in pienezza e grandezza la propria vita coltivando la certezza che la gloria travalica la barriera della morte e si proietta nei secoli». Oh, certo, gli antichi piangono, compresi gli eroi. Ma, a differenza nostra, non piagnucolano. Noi, invece, ormai da decenni siamo completamente in balia di quella che Robert Hughes ha definito «cultura del piagnisteo».
Attenzione: non parliamo del piagnucolio sommesso dell’agnellino. No, oggi va il piagnisteo risentito e ostile del narcisista. L’individuo che si sente sempre in difetto, sempre offeso, sempre discriminato. Il narcisismo diffuso ci ha convinti di essere tutti vittime. Nei romanzi, al cinema, nelle serie tv è un proliferare di personaggi che amano esibire le proprie ferite morali, anche se sono appena graffietti. Ci piace presentarci come «traumatizzati». Anzi, sostengono Didier Fassin e Richard Rechtman in un robusto saggio edito da Meltemi, ormai siamo sudditi di un «impero del trauma».
«A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso avviene un capovolgimento radicale» ha detto Didier Fassin a Simone Paliaga. «Il trauma non è più solo riconosciuto dalla nosologia psichiatrica come disturbo da stress post-traumatico, ma è oggetto di attenzione e simpatia. Il riconoscimento della rilevanza del trauma celebra addirittura la nascita di una nuova categoria sociale, la vittima. Le fonti del trauma aumentano, si va dai disastri naturali alla violenza sessuale, dalle situazioni belliche al suicidio di un compagno di classe. E per di più, a esserne affetto, non è solo chi è direttamente coinvolto da uno di questi eventi ma anche i testimoni e addirittura, paradossalmente, gli autori dell’eventuale reato».
Il trauma va di moda, e chi non ce l’ha deve inventarselo. Meglio: tutti godono nell’esibire il trauma, ma hanno un terrore folle di quello vero, dunque preferiscono appigliarsi a qualcosa di inconsistente. È l’atteggiamento tipico di quella che Guia Soncini chiama «l’era della suscettibilità». Un’epoca caratterizzata dall’«offendersi», cui il filosofo Remo Bassetti ha di recente dedicato un saggio.
L’eroismo è definitivamente tramontato: restano il piagnisteo e la paura. È andata perduta la virtù più antica e potente: il coraggio. Il saggista francese François Bousquet, in uno splendido libro edito da Passaggio al bosco e intitolato appunto Coraggio! Manuale di guerriglia culturale, ricorda che il coraggio è «la virtù che rende possibile praticare le altre virtù, che le metabolizza, le attiva, come una pompa».
Se pensate che stiamo esagerando, guardatevi intorno. Viviamo nel terrore reciproco, siamo chinati in avanti, con lo sguardo basso, pronti a sottostare alle imposizioni del pensiero unico dominante. Abbiamo perso il coraggio fisico, e abbiamo orrore di ogni forma di violenza. E contemporaneamente abbiamo perso anche il coraggio spirituale, la capacità di tenere il punto, di non piegarci alle avversità che (lo dimostra lo psicologo Sergio Vitale in Elogio delle avversità, Mimesis) sono invece una parte fondamentale dell’esistenza, l’ombra che dobbiamo attraversare per giungere alla luce.
Come è potuto accadere? In che modo abbiamo dimenticato l’eroismo dei nostri padri e delle nostre madri (che pure così tanto ci affascina ancora adesso, leggere per credere lo scritto Eroe di Lee Child appena pubblicato da HarperCollins)? Come abbiamo fatto a diventare così vili? Peppino Ortoleva sulla viltà ha scritto uno studio piuttosto ampio, nel quale ricorda la definizione che l’Encyclopedie diede del coraggio, curata da Louis de Jaucourt. Costui spiegava che la virtù «nasce dalla consapevolezza delle proprie forze, e per carattere o in seguito a una riflessione permette di affrontare i pericoli e le loro conseguenze». In verità, tale definizione illuminista contiene già i germi del declino. Il più delle volte, il coraggio non passa dalla ragione. Anzi, scaturisce da una sorta di divina follia. È slancio, è dono gratuito. Infatti, di questi tempi, è considerato un inutile sperpero.
In Occidente si venera il piagnisteo e si disprezza il coraggio. Quella che era la virtù suprema, scrive Bousquet, «non è lontana dall’apparire un’infermità mentale, socialmente inutile, se non addirittura controproducente perché non rientra nella sacrosanta teoria della scelta razionale che postula la ricerca del massimo profitto con il minimo sforzo». Eccoci al punto: abbiamo perso il coraggio perché viviamo in un’era regolata dalle leggi «del profitto e della perdita», dalla esclusiva logica economica che tende a eliminare tutto ciò che è gratuito, tutto ciò che è comunitario e non individualistico.
Ciascuno mira esclusivamente al profitto. La buona vita è quella, appunto, priva di «avversità», di negatività, di dolore. «Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore», scrive il filosofo Byung-Chul Han. «Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Persino le pene d’amore sono diventate sospette. L’algofobia si estende nell’ambito sociale».
Più di ogni altra cosa temiamo il valore fisico perché «il corpo è il valore supremo» (Ernst Jünger). Se si vive per conservare il benessere materiale, il coraggio deve per forza sparire dalla scena. La sfida alla morte, il dono di sé, l’atto eroico è, semplicemente, stupido e disprezzabile. Meglio così, potrebbe dire qualcuno. Meglio stare al sicuro e godere il calduccio di casa. Meglio la vita placida e grassa della «bella morte» di Achille. Può darsi. Ma guardatevi intorno: a furia di temere la morte, ce la siamo tirata addosso. Disprezzando il coraggio, viviamo come se fossimo già morti.