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Non è un paese per vecchi

Non è un paese per vecchi

  • A inizio pandemia erano la categoria da proteggere. Ora sembra che siano soprattutto costosi, improduttivi e, se finiscono in ospedale, occupano i posti che spetterebbero ai più giovani. Eppure questa Italia, nel 2020 è più evidente che mai, va avanti grazie a loro.
  • Dopo la malattia, la condanna all’inutilità
  • Il caos delle cure a domicilio


  • Un pensiero orrendo serpeggia nelle nostre menti. Se i vecchi sparissero di colpo questa pandemia verrebbe degradata a virus fastidioso, ma tollerabile. Se venissero tutti rinchiusi, esclusi dalla vita sociale, forse allora ci lascerebbero andare a sciare, si libererebbero le terapie intensive e magari non dovremmo neanche saltare il cenone di Capodanno.
    Secondo l’Istat l’85 per cento dei decessi ha colpito gli over 70. L’età media dei morti è invece 80 anni. All’inizio della pandemia erano la categoria da proteggere, ora invece sembra che la colpa di tutto sia loro: fragili, improduttivi, costosi, non servono a nulla, sono un peso terribile per il nostro sistema sanitario, ruban o pensioni e mettono in ginocchio il Welfare.

    Se non ci fossero più gli anziani avremmo davvero un mondo migliore? «Non lo deve chiedere a un uomo di 88 anni, che non ha futuro» risponde con una battuta il presidente del Censis Giuseppe De Rita. «Eppure questa domanda viene rivolta agli anziani per scovare una loro frustrazione, la delusione di essere sottovalutati, discriminati, messi da parte. È difficile che si faccia la stessa domanda a un giovane. Si preferisce coltivare l’orticello dell’anziano frustrato. Ma la Liguria senza i vecchi sarebbe una regione povera».

    Secondo il sociologo c’è sempre stato nella società italiana il pensiero che l’anziano sia un peso. «Anche quando c’era la famiglia patriarcale, così come esiste nella generazione attuale. La pandemia ha esasperato tutto perché c’è il drammatico problema della potenziale scelta tra curare un giovane o un vecchio». Hanno ricostruito il Paese, ci mantengono con le loro pensioni e da nonni hanno supplito a uno Stato assistenziale zoppicante occupandosi dei nipoti. Oggi la pandemia sta operando una crudele scrematura verso questa parte della società. «I vecchi: bisogna avere il coraggio delle parole. Mi ritengo una privilegiata a essere arrivata a 91 anni» spiega la celebre giornalista e scrittrice Natalia Aspesi. «Hanno sempre dato fastidio, solo che si fa finta di no. Occupiamo spazio, mangiamo, andiamo in ospedale, rompiamo le palle. È vero che la gente fa finta di volerci bene, ci chiama nonnini, anche se siamo dei grandi letterati o professori. La nostra sola qualità sembra che sia avere dei parenti. Ma pure io posso dire: i giovani sono così fragili, deboli, poveretti mi fanno pena. Ho avuto la fortuna di vivere la guerra e quindi sono molto forte. Qualunque cosa succeda l’ho già provata quando per cinque anni non ho mangiato, sono stata sotto le bombe, passavo la notte nei rifugi. Se si occupano dei vecchi per parlarne male vuol dire che manca qualcosa. Dicano quello che vogliono, la mia vita è ricca di me stessa. Paura di morire? Beh, si muore. È parte della vita. Sono stata qui anche troppo, però mi sono divertita. Noi arriviamo a questa età perché abbiamo patito la fame e non mangiare fa parte della salute. Ora tutti pensano al cenone, ma non siano ridicoli. Mangino una mela e si accontentino. Non ci fossero i vecchi a condurre ancora le cose sarebbe un disastro, i giovani non hanno forza, sono viziati, hanno paura della vita».

    A ottant’anni se non muori t’ammazzano è il titolo provocatorio dell’ultimo libro di Ferdinando Camon, pubblicato da Apogeo. «Il fatto che il virus uccida uomini anziani è sentito come un’attenuante, come se fosse una mezza morte. L’anziano non rende nulla, ma prende molto» dice lo scrittore, che ha appena compiuto 85 anni. «Siamo un disturbo nella vita della società e dei nostri figli. Eppure mi secca molto essere buttato via, mi considero ancora utile. Ho visto cose che i giovani non vedranno mai. Sono andato a scuola a piedi nudi, non avevo le scarpe e a casa non c’era il pavimento, ma solo la terra. Io sono un contenitore prezioso per l’umanità. Questa generazione non sa niente, non ascolta nemmeno». Nel suo pamphlet si scaglia contro i medici costretti a una drammatica scelta: «Sono cresciuto in una civiltà dove si cercava di salvare tutti, fino all’ultimo. La Francia addirittura distingue tra morti “accettabili”, gli anziani, e morti “inaccettabili”, i giovani. Lo so che se mi becco il virus sono fritto. Siamo allo svilimento della vita umana e questo libro è una denuncia, la mia protesta».

    Non è un Paese per vecchi il nostro. «Poveri anziani, il pensare che la loro morte sia un atto di giustizia è il concetto di una società decadente, che non riesce più a garantire una buona qualità della vita a tutti», osserva il professor Marco Trabucchi, presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria. «Il Covid ha avuto il “merito” di mettere in luce le nostre debolezze e la terza età è una di quelle più macroscopiche. Se vogliamo costruire una società più equa dobbiamo occuparci dei vecchi. E non è solo un atto civile, di generosità, ma è anche un atto di autodifesa. Vecchi lo diventiamo tutti». Secondo il geriatra oggi gli anziani vivono con molta difficoltà: «I sentimenti dominanti sono la paura, l’incertezza, la sensazione di essere fragili, vulnerabili. L’assistenza domiciliare funziona pochissimo. Le Usca, che si occupano dei pazienti in isolamento domiciliare, sono poche e disarmate. Solo a Milano ci sono 150 mila anziani soli. La solitudine è la sensazione più terribile, l’angoscia che nessuno verrà al momento del bisogno».

    Sulla dignità della vita offerta agli anziani si misura il profilo etico di ogni società, scriveva il cardinale Carlo Maria Martini. Riflette Domenico De Masi: «Perché si dovrebbe salvare un vecchio invece che un giovane? Un tempo erano l’unica nostra memoria, oggi i computer hanno memorie infinite. Resterebbe il rispetto umano, ma in questo periodo è al minimo storico». Il sociologo ricorda un viaggio in Zaire: «Andavamo a piedi da un villaggio all’altro, camminando nell’erba alta dove si nascondevano serpenti velenosi. Mi colpì vedere che i bambini erano stati mandati avanti. Dal loro punto di vista era una scelta etica: data l’alta mortalità infantile, la vita di un adulto valeva molto di più. Così come da noi vale più un giovane produttivo. Naturalmente essendo io vecchio mi infurio e non sono affatto d’accordo».

    Non lo è neanche la Comunità di Sant’Egidio che ha lanciato l’appello: «Senza anziani non c’è futuro». Spiega il suo fondatore, lo storico Andrea Riccardi: «Il nostro monito nasce dal dramma della pandemia, che ha rivelato tragicamente i problemi dell’assistenza agli anziani. Una vera e propria strage si è compiuta nelle case di riposo di tutto il mondo. Noi diciamo: basta vite consumate in istituto. Diamo ai nostri vecchi il diritto a non essere considerati uno scarto e quello di essere assistiti e curati a casa. Non è solo una questione di civiltà e di rispetto, ma è anche l’unica scelta davvero sostenibile». Ma per il professor Trabucchi spesso ciò è impossibile:«Oggi nelle nostre Rsa ci sono persone che è inimmaginabile che possano stare a casa».

    Chiusi nelle case di riposo ci sono più di 300 mila anziani. Veronica, 28 anni, fisioterapista in una residenza per anziani del Nord-Est racconta: «Sono rimasti passivi, mai interpellati, hanno subìto tutto. All’inizio eravamo spaventati: i nostri ospiti dovevano essere protetti. Quando il Covid è entrato anche qui sono stati chiusi nelle loro stanze e vietate anche le minime attività che svolgevano. Uno dei nostri degenti ha cercato di buttarsi giù dal terrazzo. Non poteva più fare le uniche due cose che amava: leggere i giornali e fare la cyclette. All’inizio della pandemia ci chiedevano: “Quanto durerà ancora?”. Oggi non fanno più domande. Sono spenti, demotivati. È come se avessero smesso di lottare. Rinchiusi in una stanza, da soli».

    Walter Pedullà a 90 anni ha appena pubblicato la sua autobiografia Il pallone di stoffa (Rizzoli): «Essendo un anziano tendo a essere egoista e preferirei vivere io. Ma se dovessi scegliere tra me e mio figlio, scelgo lui mille volte. È comunque una risposta complicata. Capisco il ragionamento, ma solo se lo fa l’Inps, che vorrebbe rimettere a posto i suoi bilanci. Tuttavia credo che se i vecchi sparissero gli effetti sulla salute dell’economia non sarebbero cospicui o rilevanti». Come diceva Cicerone nel De Senectute: l’età non si stima dagli anni, ma dalle forze che si hanno. Pedullà è professore emerito dell’Università La Sapienza, ex presidente della Rai e del Teatro di Roma, ha diretto e fondato prestigiose riviste. È stato il più importante critico letterario del secondo Novecento: «Ho affrontato la vita con leggerezza, forse per questo sono arrivato fino a qui. Come diceva Aldo Palazzeschi è serio solo ciò che regge alla prova del riso. Il Covid invece è una tragedia che sfugge alla mia comprensione, una malattia inafferrabile. Il virus è diventato più forte di noi. Per come abbiamo vissuto forse era inevitabile. Lavoro ancora come faccio da quando ho vent’anni. Riesco a stare otto ore davanti al computer. Aspetto il vaccino, perché il mio rapporto con la vita è sempre stato un amore a prima vista. Non ho paura del Covid, bensì della condizione degradata della società».

    Dopo la malattia, la condanna all’inutilità

    Non è un paese per vecchi
    Getty Images

    L’età avanzata li rende fragili, con la paura di finire in ospedale. A questo si aggiungono l’isolamento dagli affetti e il sentirsi un «peso per la società». Malesseri dell’anima che, spesso, sono più insidiosi del virus, come sostiene uno psicogeriatra.

    di Maddalena Bonaccorso

    improduttivi, un peso per la società, inutili. Ai tempi del Covid-19 gli anziani sono soprattutto questo: i più esposti alla malattia, quelli che muoiono in proporzione maggiore, quelli che adesso, dopo quasi 10 mesi dallo scoppio della pandemia, sanno già cosa li aspetta quando arrivano in ospedale assistiti da medici e infermieri «scafandrati».

    Ma come vivono, i nostri vecchi, i giorni del Covid? I giorni in ospedale, quelli forse ancora più difficili della dimissione e del triste rituale del reperimento di una struttura per la convalescenza? O, semplicemente, quelli chiusi in casa, lontani dagli affetti e dagli abbracci?

    Lo racconta Renzo Rozzini, presidente della sezione lombarda dell’Associazione Italiana Psicogeriatria e direttore del dipartimento di Geriatria della Fondazione Poliambulanza di Brescia, in prima linea contro il coronavirus fin dai primi giorni.

    Professor Rozzini, in questo annus horribilis per tutti, ma soprattutto per gli anziani, qual è la cosa che più li ha fatti e li fa soffrire? La paura del virus, l’isolamento forzato?

    Innanzitutto, almeno da quanto vedo nella mia esperienza personale di geriatra ospedaliero, dobbiamo fare una distinzione tra i vecchi che arrivano in ospedale adesso, e quelli della «prima ondata». Nei primi mesi si ammalavano gli anziani attivi: quelli che andavano al cinema, al supermercato, portavano i nipotini a scuola. Si sono contagiati facendo la loro vita quotidiana, appagante, di anziani in salute. Per loro è stata durissima: la cosa che maggiormente li ha fatti soffrire era la paura della morte, certo, ma anche l’incertezza per le conseguenze di un virus del quale si sapeva poco.

    E in questa seconda ondata?

    Ora tutti noi abbiamo cambiato stile di vita. L’esistenza sociale per i vecchi è quasi azzerata: infatti, adesso arrivano di più i grandi anziani non autosufficienti, magari con demenze e altri problemi. In questi casi l’impatto con la sofferenza è in un certo senso limitato, sarebbe uguale per qualsiasi tipo di ricovero. Quando invece assistiamo pazienti molto in là con gli anni ma con tutte – o quasi – le capacità intellettive integre, li vediamo terrorizzati dalla maggiore consapevolezza della malattia, di cui ormai sanno tutto perché bersagliati dalle notizie sul Covid. Sanno che per loro rischia di essere mortale, sanno che provoca grande sofferenza e che – in caso di esito negativo – non vedranno più i propri cari nemmeno per una breve visita. Sfido chiunque a sopportare tutto questo con serenità.

    Quali conseguenze potrà avere il Covid, a livello fisico e psicologico, sugli anziani che riescono a guarire?

    Nel nostro ambulatorio post-Covid, attivato già a metà maggio per monitorare i pazienti dimessi, abbiamo riscontrato complicanze di tipo respiratorio ma anche cardio-vascolari e sintomi di tipo neuro-psichico. Più della metà dei pazienti dimessi soffre di ansia, insonnia e depressione, problemi cui gli anziani sono predisposti e che si acuiscono in questa fase di recupero. Che poi non è così semplice: a due mesi dal ritorno a casa, spesso i sintomi non sono spariti, e questo nella popolazione anziana ha un effetto dirompente sul piano psichico.

    La malattia, ma anche la mancanza di stimoli e affetti può accelerare il declino cognitivo?

    La malattia da Sars-CoV2, come tutte le patologie infettive, può produrre nei pazienti fragili quella che viene chiamata «disabilità catastrofica», cioè un peggioramento repentino dello stato di salute sia mentale sia fisico. Osserviamo malati che nel giro di pochissimo tempo passano dallo stato confusionale all’agitazione massiccia, peggiorando anche fisicamente. Anche l’anziano che non si è ammalato di Covid ma deve restare in casa, non può uscire per la passeggiata o vedere i propri cari va incontro a rilevanti problemi fisici e cognitivi. Non solo la malattia in sé, ma anche tutto quello che ci ruota attorno è crudele per loro: dall’isolamento alla mancanza di attività motoria, dalla fine della vita sociale al martellamento mediatico.

    Quanto incide sull’autostima di un anziano il sentirsi definire «non produttivo»?

    Tantissimo, sia su chi sta bene ma vive nel timore di ammalarsi, sia su chi combatte in ospedale. Parliamo di persone che, nella maggioranza dei casi, hanno ricostruito l’Italia del dopoguerra, hanno contribuito alla «fondazione» del sistema sanitario, hanno rappresentato i pilastri della nostra vita e dello sviluppo. Sentirsi considerati inutili, quando hanno più bisogno di vicinanza, è terribile. E c’è anche un ulteriore aspetto, altrettanto drammatico.

    Quale?

    La non-accoglienza in casa dei dimessi. Ci troviamo molto spesso a dimettere dai reparti Covid anziani che non possono andare nella propria abitazione perché magari vivono soli o con coniugi di eguale età e quindi fragili, «respinti» da figli e nipoti. Perché magari sono stati dimessi non ancora negativizzati e i parenti hanno paura, oppure non hanno stanze e bagni separati. Siamo costretti a trovare istituti di accoglienza, a inserire i loro nomi in una piattaforma che li smista dove c’è posto. E loro, già provati, non sanno dove andranno a finire, quanto tempo resteranno in istituto. È un dramma, più che fisico, psicologico. Da cui è difficile riprendersi.

    Il caos delle cure a domicilio

    Non è un paese per vecchi
    Gertty Images

    Nelle corsie arrivano pazienti Covid che già faticano a respirare, e guarirli diventa più difficile. Meglio sarebbe, dicono dagli ospedali, dare molto prima farmaci salvavita come cortisone ed eparina. Ma tanti medici curanti esitano a farlo. E le linee guida ministeriali non aiutano.

    di Daniela Mattalia

    Il contagio con il Covid è come un lancio di dadi, senza sapere in quale casella atterreranno: in quella dei sintomi blandi, quasi inavvertiti? In quella della malattia moderata, con febbre alta e dolori ovunque? O nella casella infernale della terapia intensiva? E se pure la malattia ci lascia nel confortevole letto di casa, siamo sicuri che verremo curati nel modo giusto, con i farmaci più efficaci nel momento in cui ne avremo bisogno?

    Sarebbe fantastico rispondere, come si diceva solo qualche mese fa, che «andrà tutto bene». Ma chissà. Al paziente telemonitorato da casa, ansioso e preda di mille paure, viene detto in genere di prendere tachipirina o paracetamolo per far scendere la febbre, sedativi per la tosse, bere tanta acqua, magari un antibiotico per evitare sovrainfezioni; se le cose si mettono male, di ricorrere a cortisone ed eparina; se poi si mettono malissimo, di chiamare il 118.

    In mancanza di molecole mirate contro il Sars-Cov-2 (gli anticorpi monoclonali li stanno ancora sperimentando) sono quelle in effetti le terapie oggi a disposizione. Il problema, non da poco, è nei tempi di intervento: quando somministrarle perché siano risolutive. Dalle corsie degli ospedali, dove giungono malati boccheggianti come pesci estratti dall’acqua, di dubbi non ne hanno: non esitate, ripetono ai colleghi di medicina generale, nel dare cortisone ed eparina, senza aspettare che arrivi l’ambulanza. Troppi pazienti vengono ospedalizzati proprio perché si ritarda la somministrazione dei due farmaci decisivi (secondo tutti gli studi scientifici sulle terapie anti-Covid), il primo per spegnere l’infiammazione, il secondo per prevenire trombi e coaguli.

    C’è da dire che, nei giorni scorsi, le indicazioni del ministero della Salute rivolte alla medicina del territorio non hanno aiutato, anzi. Per i positivi al Covid curati a casa è sconsigliato il cortisone, a meno che la saturazione non scenda sotto i 94 o addirittura i 90 (99 è quella normale); e il ricorso all’anticoagulante va fatto solo in casi selezionati.

    Non è affatto d’accordo, per esempio, Salvatore Spagnolo, direttore del dipartimento di Cardiochirurgia dell’Istituto Clinico Ligure di Alta Specialità di Rapallo (Genova) che in una mail inviata in redazione afferma: «La medicina ha in mano i farmaci in grado di contrastare l’azione del virus. La somministrazione a domicilio, fin dall’inizio, dell’eparina e del cortisone potrebbe combattere l’insorgere dei processi infiammatori e trombotici. Purtroppo la loro efficacia è limitata dall’essere utilizzati tardivamente, quando il virus ha già causato svariati danni a carico di polmoni e vasi sanguigni».

    Raggiunto al telefono, il cardiochirurgo aggiunge che: «Nei nostri reparti abbiamo un sovraffollamento terribile di malati ai quali diamo eparina e cortisone, ma se il virus si è moltiplicato a dismisura nell’organismo, rischia di essere tardi. Invece questi due farmaci, che combattono l’infiammazione e prevengono le embolie dei capillari, vanno utilizzati quando la malattia è appena iniziata. Oggi per fortuna alcune Asl suggeriscono di dare l’eparina ai primi sintomi, ma dovrebbe essere la regola generale».

    Perché dunque questa cautela, da parte delle autorità sanitarie, nel loro impiego? L’Aifa, sul suo sito, scrive che nelle cure a domicilio «la cosa migliore da fare è la vigile attesa: non assumere farmaci, trattare solo i sintomi febbrili» (il che andrebbe benissimo se il Covid provocasse solo mal di gola, emicrania, o modesti dolori articolari). Anche l’Oms consiglia l’impiego di eparina e cortisone soltanto nei pazienti ospedalizzati.

    «L’Oms ragiona in termini mondiali, non si rivolge alla medicina del territorio» fa notare PierLuigi Bartoletti, medico (da 30 anni) e vicesegretario nazionale della Fimmg, Federazione italiana medici di medicina generale. «Deve dare indicazioni valide anche per Paesi in via di sviluppo, dove di questi farmaci c’è estrema scarsità. Tornando in Italia, direi sì al cortisone, se la soglia di saturazione dell’ossigeno scende sotto i 96. E se ci sono tosse e febbre non bisogna essere un indovino per capire che è in corso una polmonite. Questa poi è una malattia proteiforme che, non sempre ma in un numero significativo di casi, compromette le vie respiratorie e l’apparato cardiocircolatorio. L’eparina, come anticoagulante, va sicuramente data a quei malati, soprattutto anziani, che si muovono poco, non a un paziente giovane senza condizioni di rischio e che non è ipomobile. Ma al di là delle linee guida io, come medico, devo intervenire in base alla mia esperienza e al contesto».

    L’esitazione nell’impiego precoce del cortisone si basa su un ragionamento che, in teoria, ha una sua logica: il farmaco è considerato un immunosoppressore, e visto che l’organismo ha di fronte a sé un virus, meglio non abbassarne la combattività. Su questo, però, ha molto da dire la neurologa Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia e Chirurgia del Timo al dipartimento Cardio-toraco-vascolare dell’ospedale Cisanello di Pisa: una delle prime a sostenere, insieme a tutta la sua équipe (e sin da febbraio, ben prima che lo studio inglese Recovery ne riconoscesse l’efficacia nel Covid) che il cortisone in fase precoce è un salvavita.

    «Non condivido questa eccessiva diffidenza nei confronti del cortisone» afferma. «Io lo uso da sempre nei miei pazienti con miastenia, che è una patologia autoimmune. Sono malati che, se cronici, devono assumerlo tutta la vita, e il loro sistema immunitario continua a funzionare bene. Il cortisone, in realtà, più che un vero e proprio immunosoppressore, è un immunomodulatore e antifiammatorio. E nel caso del Covid va dato ai primi sintomi per impedire che l’iperinfiammazione evolva e inneschi la tempesta di citochine (una reazione abnorme e spesso fatale del sistema immunitario, ndr)». Il suo protocollo di cura, che condivide con colleghi e medici di famiglia che vogliono saperne di più, si basa prevalentemente su desametasone in fase acuta (corticosteroide che può essere poi sostituito con deltacortene), enoxeparina contro le possibili complicanze tromboemboliche, non rare in questo tipo di infezione, e una terapia antibiotica di copertura.

    Non molto dissimile è la terapia antiCovid a domicilio indicata dal cardiologo Spagnolo: eparina ai primi sintomi (febbre, tosse, affanno), antibiotico contro infezioni opportunistiche e deltacortene. Secondo Matteo Ciuffreda, cardiologo pediatrico all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dietro alla prudenza dimostrata dalle autorità sanitarie «c’è il timore della replicazione virale: normalmente la terapia con cortisone in qualche modo rallenta la risposta immunitaria; in realtà, però, ogni virus agisce non solo con un meccanismo lesivo diretto, ma anche attivando un forte stato infiammatorio. E questo avviene in numerose malattie infettive tanto che in molte polmoniti batteriche, oltre agli antibiotici, si dà anche il cortisone».

    Prende le distanze dal vademecum ministeriale anche Natalia Pizzi, oncologa (ha lavorato per anni all’Istituto dei Tumori di Milano) e medico di base a Bergamo. «La paura di usare in fase precoce il cortisone è infondata, almeno alle dosi in cui lo somministriamo per il Sars-Cov-2 e per quei 10-15 giorni al massimo. Io capisco che ci sia il timore di eventuali conseguenze medico-legali, se qualcosa va storto e uno si discosta dalle linee guida, ma io questa paura ho dovuto farmela passare subito, altrimenti mi morivano i pazienti».

    E sull’importanza di anticipare le cure a domicilio, prima che il tampone certifichi l’avvenuto contagio, insiste anche un documento firmato da Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico del Mario Negri di Milano, e da altri tre medici (sarà pubblicato su Clinical and Medical Investigation). In sostanza, bisogna iniziare a dare anti-infiammatori (aspirina, in un primo tempo, al posto della tachipirina, e se non basta cortisone) per prevenire la grave reazione infiammatoria scatenata dal virus.

    Il dubbio, a questo punto, viene anche a noi. Il nostro medico curante, se ci dovessimo ammalare, lo saprà come e quando utilizzare i farmaci giusti, o finirà per irritarsi per la nostra petulante insistenza? «Non devono essere certo i pazienti, che non sanno, a suggerire ai medici come fare» conclude Spagnolo. «La nostra lotta è far in modo che la sanità dia le indicazioni terapeutiche più corrette e aggiornate» conclude Spagnolo «altrimenti ne risponderà alla storia».

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