Home » Tempo Libero » Cinema » Il lato oscuro del peluche

Il lato oscuro del peluche

Il lato oscuro del peluche

Zach Galifianakis, famoso per il suo ruolo nella commedia Una notte da leoni, racconta a Panorama il suo nuovo film The Beanie Bubble. Storia di un uomo diventato miliardario per aver inventato un tenero giocattolo, prima di cadere nel dimenticatoio. Fa ridere, ma è anche una fotografia amara del capitalismo americano.


Ch i ricorda Zach Galifianakis nel ruolo di Alan, il cognato dello sposo che in Una notte da leoni droga lo champagne con cui lui e gli altri tre protagonisti dell’addio al celibato brindano, prima che il loro soggiorno a Las Vegas si trasformi in un rocambolesco susseguirsi di catastrofiche disavventure, stenterà a riconoscerlo, dimagrito e senza barba, in The Beanie Bubble. Una commedia in arrivo il prossimo 28 luglio su Apple Tv+, ispirata ai fatti realmente accaduti raccontati nel best seller del 2015 The Great Beanie Baby Bubble: Mass Delusion and the Dark Side of Cute (ovvero La grande bolla dei Beanie Baby: illusione di massa e il lato oscuro della tenerezza). Nel film, diretto da Kristine Gore e Damian Kulash si racconta l’isteria collettiva che colpì l’America quando nel 1993 arrivarono sul mercato i Beanie Babies, piccoli peluche in forma soprattutto di animali che non solo convincevano le persone a far la fila davanti ai negozi di giocattoli pur di accaparrarsi ogni nuovo modello, ma addirittura innescarono un fenomeno di collezionismo tale da rendere alcuni modelli più rari beni d’investimento, capaci di fruttare addirittura decine di migliaia di dollari al momento della rivendita.

Ty Warner (Galifianakis) vive a Chicago e vende giocattoli ma sembra a un punto morto. Dopo aver conosciuto la sua vicina Robbie Jones (Elizabeth Banks), anche lei impelagata in un lavoro routinario e imprigionata in un matrimonio infelice, decide di fondare insieme a lei una società per vendere peluche di gatti himalayani, prima di iniziare con la donna una relazione romantica. Dieci anni dopo, nel 1993, Ty ha l’intuizione di lanciare una nuova linea di pupazzi, di dimensioni più ridotte e riempiti meno, quindi meno rigidi e capaci di assumere ogni posa, chiamati Beanie Babies. A suggerirgli la mossa sono le figlie della sua nuova compagna, Sheila Harper (Sarah Snook, Golden Globe per Succession), designer conosciuta quando lei doveva occuparsi degli interni della sua nuova casa. Le vendite iniziano a decollare e diventano un successo anche grazie alle intuizioni di marketing di Maya Kumar (Geraldine Viswanathan), una stagista che convince Ty a lanciare il primo sito di e-commerce d’America e a sfruttare le informazioni sui consumatori reperite in rete. Peccato che l’uomo non intenda riconoscere nessuna parte del proprio successo alle tre donne. «Da quanto ho letto nel libro, sono convinto che lui intendesse pagare equamente i suoi dipendenti, ma non volesse in nessun modo che le persone crescessero professionalmente e nei guadagni» dice Galifianakis a Panorama. «In questo dimostra un ego maschile che forse è la miglior rappresentazione degli anni 90: penso ci fossero molti uomini allora, forse più di oggi, che si prendevano il merito di tanti altri, non solo donne. È il mito americano del self made man. E Ty non voleva nessun altro lassù, sul piedistallo. Al punto di sfruttare a proprio vantaggio anche le relazioni sentimentali con due di queste donne».

Cosa l’ha convinta a girare il film?

I due registi, Kristin e Damian, mi avevano parlato di questa storia da un po’ di tempo e confesso che Ty mi incuriosiva molto, al punto che quando si è presentata l’occasione di girare il film ho deciso anche di esserne il produttore esecutivo.

Come ha cercato di costruire il personaggio?

È stato difficile perché, a parte per quanto letto nel libro, non c’era molto su di lui: ho trovato pochissime interviste sui giornali o in tv. Ho provato a vedere se c’erano video di comparizioni in tribunale (dove a un certo punto della sua parabola è finito l’imprenditore, ndr.) ma niente. Ero talmente desideroso di potermi appigliare a qualcosa, che a un certo punto ho scoperto che aveva un hotel a Santa Barbara e ci sono andato, anche solo per vedere come camminava.

E poi?

È arrivata la pandemia e ho dovuto rinunciare a proseguire le ricerche. Così ho creato tutto da solo: come camminava, sbatteva le ciglia, gesticolava. È stata un po’ una scommessa. A un certo punto ho pensato: come dev’essere una persona con un ego smisurato? Non è stato difficile immaginarlo: a Hollywood è pieno di persone egocentriche, e mi ci metto dentro anch’io.

Lei è un creativo, e a suo modo anche Ty lo era. È stato utile questo punto di contatto?

Onestamente non penso che Ty fosse ossessionato dai Beanie Babies per una vera passione nei confronti dei peluche o dei giocattoli. A seguire quanto racconta il libro, molti creatori di giocattoli hanno avuto un’infanzia infelice, ma non era il caso di Ty. Lui era un uomo spinto dal desiderio di guadagnare tanto denaro e per farlo era disposto a qualsiasi cosa, anche a mostrare un certo grado di carineria e di affezione per le sue creazioni. È stato quello a cui ho pensato tutto il tempo, mentre lo interpretavo.

Come mai secondo lei ci sono così tanti film su creatori di imperi commerciali? Oltre a questo ce n’è stato uno su McDonald e ora arriva uno sulle patatine Frito Lay.

Penso il pubblico sia curioso di sapere cosa c’è dietro una storia di successo. Spesso vengono create leggende su come nasce un marchio o un prodotto, ma poi si scopre che la realtà è ben più prosaica: alla fine ciò che conta per molte di queste persone sono gli affari. Anche se magari alla gente viene raccontata una storia alla Willy Wonka.

Lei che ha interpretato diversi personaggi politicamente scorretti, cui in un certo senso non sfugge neanche Ty Warner, cosa ne pensa del clima attuale che vorrebbe cancellare ogni battuta o personaggio anche solo vagamente offensivi?

Sono stato accusato di essere politicamente scorretto, ma l’applicazione della correttezza politica alla commedia è una faccenda da trattare con estrema cautela: a volte penso che le persone sentano soltanto la battuta, e non si interroghino sul suo significato. Magari un comico dice qualcosa di offensivo perché vuole sottolineare proprio il comportamento che si cela dietro l’intenzione di offendere. In ogni caso penso si tratti di una cosa generazionale, magari un giorno questa ventata di perbenismo passerà.

In che senso?

Quando ho iniziato a fare stand up comedy, quel che dicevi rimaneva circoscritto al locale dove ti esibivi. Oggi con telefonini e social, tutti commentano dietro una tastiera e magari ti fanno a pezzi. Ma forse i giovani di domani si stuferanno di questo e si tornerà indietro: a dire tutto ciò che si vuole, senza il rischio di essere messi alla gogna.

© Riproduzione Riservata