Tanna al cinema: tsunami d’amore nel Pacifico – La recensione
Affascinante film australiano ambientato su un’isola dell’arcipelago di Vanuatu. Due giovani amanti come Romeo e Giulietta in lotta contro le tradizioni
Una storia vera e senza tempo, anche se collocata alla metà degli anni Ottanta. Storia bellissima per un film che lo è altrettanto, candidato agli Oscar come migliore opera straniera e premiato a molti festival, inclusa la Settimana della Critica alla Mostra di Venezia dove il pubblico gli ha riconosciuto il podio. È Tanna (inuscita il 4 maggio) firmato dai registi e documentaristi australiani Martin Butler e Bentley Dean, ambientato sull’isola omonima dell’Oceano Pacifico nell’arcipelago di Vanuatu, dominata dal Monte Tukosmerail, immersa in una natura selvaggia, avvolgente, mormorante, primordiale.
Dall’idillio al dramma
Qua nasce l’amore tra la giovanissima Wawa (Marie Wawa) e Dain (Mungau Dain), anime pure nella loro tribu Yakel, lei appena diventata donna, lui poetico e romantico al suono del suo flauto di Pan. Sentimento dai destini burrascosi, però. Perché presto, all’idillio celeste fatto di carezze, sguardi ed escursioni nella foresta con libertà di farfalle, arrivano i guai sotto forma di tradizioni da rispettare e pace da raggiungere ad ogni costo con la tribu rivale degli Imedin, ben più aggressiva degli Yakel, con la quale è in corso da anni una faida sanguinosa. Tutto nel nome e a beneficio del Kastom, suprema tradizionale armonia culturale, religiosa, economica e artistica dell’intera Melanesia. Un autentico Credo, insomma, al quale sottomettere ogni esigenza individuale.
Una crudeltà in nome della pace
E quando le due tribu nemiche decidono di venire a patti e si riuniscono in seduta plenaria accade l’irreparabile: in segno di pacificazione i loro capi e gli anziani decidono, come vuole l’usanza, di sotterrare la clava, scambiarsi simbolicamente i maiali e purtroppo, meno simbolicamente, anche le mogli. Così Wawa, sacrificata al costume antico dei matrimoni combinati, viene promessa in sposa al figlio del capo Imedin aprendo allo sconforto il cuore della ragazza e naturalmente quello del suo fidanzatino. Tuttavia, ben lontani dal darsi per vinti, i due decidono di ribellarsi alla decisione e scappano insieme sognando figli e libertà ma vengono braccati dagli uomini della loro stessa tribu, che temono lo scatenarsi di una nuova guerra e dagli Imedin i quali, per lavare l’offesa, vorrebbero la pelle di entrambi i fuggiaschi. Però Wawa e Dain sono troppo innamorati per darla vinta agli uni e agli altri: sacrificando anche se stessi in nome del loro sentimento e, forse, di una nuova forma di civiltà e tolleranza nel popolo di Tanna.
Scene di vita senza mediazione
Sarebbe riduttivo circoscrivere alla sola storia d’amore, in opposizione alle regole dei matrimoni combinati, l’area virtuosa del film. Attorno a questi due giovani Romeo e Giulietta del Pacifico ruota, mulinando, un mondo antico, primordiale, seducente nella sua matrice originaria. Scene di vita e costumi ritratti quasi senza mediazione, dove la macchina da presa sembra restare nascosta pure concedendosi a evoluzioni e giochi prospettici eleganti ed efficaci.
Certo, la connessione fra la vicenda passionale e quel mondo fatto di tradizioni apparentemente immutabili, sul quale l’amore caparbio e definitivo ha l’impatto d’uno tsunami, rimane stretta in un rapporto di causa-effetto. Ma i modi di rappresentazione scelti dalla regìa riescono a conquistare e ad emozionare anche solo nella loro fascia di pura esibizione, nei climi di contemplazione esplorativa di un quotidiano tribale dall’identità millenaria, né turbato né contaminato da elementi, modelli , oggetti iconici della società industriale.
Quei panorami magici e maestosi
Un piacere della visione. Tra gli alberi, nella vegetazione fitta, sulle spiagge davanti al mare cristallino, sul pianoro incenerito che conduce all’altura nera e terribile del vulcano tonante, tutto lava e lapilli, che per quella gente rappresenta lo Spirito Madre: panorami maestosi e strepitosamente nature che la fotografia – curata dallo stesso Bentley Dean – esalta ad ogni passo accanto ai primi piani catturati nel villaggio o all’armonica coralità indigena della riprese collettive. Anche tra canti, balli, suoni, pratiche magiche mai “costruiti” o acconciati ad effetto, sempre, invece, fasciati di spontaneità e immediatezza, spesso di poesia. Come la recitazione, inclinata all’ingenuità naturalistica e spesso improvvisata ma, miracolosamente, sempre credibile, nei non-attori, donne e uomini delle tribu isolane. Come si dice, presi dalla strada (o, se si preferisce, dalla foresta) in una pratica cinematografica di lontana memoria neorealista.