Confessioni di un nostalgico analogico della generazione pre iPhone
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Confessioni di un nostalgico analogico della generazione pre iPhone

Tra App e nuovi modelli di smartphone il destino è di essere sempre connessi, ma con qualche rimpianto

Diventa sempre più difficile star dietro alle variazioni numeriche e alfabetiche che seguono alla parola iPhone.

Impossibile anche star dietro alle novità, veramente nuove o meno, presentate dalla Apple nel disperato tentativo di primeggiare con Samsung e con il nuovo preoccupante colosso Microsoft Nokia.

Io, premetto, non ci capisco nulla.

Il mondo degli smartphone mi è ancora quasi totalmente oscuro. Ho letto che è stato presentato l’iPhone 5C, definito “l'iPhone low cost”l a cui caratteristica principale sembra l’essere disponibile in blu, verde, rosa, giallo e bianco (con le indispensabili cover bucherellate per mostrare sempre la tinta del telefono disponibili in blu, verde, rosa, giallo, nero e bianco, al prezzo di 29 dollari).

Poi, dicono, che sarà relativamente low cost. Essendo un unico pezzo in policarbonato con una cornice in acciaio che funziona anche da antenna multi banda in abbonamento telefonico dovrebbe avere prezzi più ragionevoli.

Voci di corridoio storcono il naso sulla durata della batteria, solito tasto dolente, verso le poco convincenti promesse di una durata maggiore.

È stato presentato anche il top di gamma, l’iPhone 5So, come lo chiama Tim Cook, capoccione di Apple, "L'iPhone più veloce di sempre”.

Nonostante l’evocativo soprannome da western però, sembra aver poco di pionieristico. Disponibile in oro, argento e grigio siderale, la caratteristica più importante sembra essere quella di leggere le impronte digitali, grazie a un cristallo di zaffiro tagliato al laser e da un sensore touch.

Gli immediati rumors dei paraonici hanno costretto il buon Tim a precisare “L'informazione della vostra impronta non finirà da nessuna parte: su nessun software".

E questo è quanto.

Giornali e riviste alla prima occasione rimpiangono il visionario Steve Jobs. La contrapposizione tra il folle e affamato Steve Jobs contro il monopolista Bill Gates, come quella tra il pacifista Obama e il guerrafondaio Bush, è una superstizione dura a morire.

Tutti dicono “quando c’era lui” in un paradossale rimpianto nostalgico per un passato che ci sembrava più futuro di questo presente.

Non ci basta mai. Non ci accontenteremo finché, come nelle rappresentazioni parodistiche, i telefoni non faranno davvero anche il caffè.

L’altro giorno ero ospite a La vita in diretta per parlare del caso del prof. di Saluzzo di cui avevo scritto qui .

Dietro le quinte ho avuto l’onore di stringere la mano alla bellissima Catherine Spaak, quasi settantenne dall’aspetto fanciullesco. Eppure, questa signora così giovanile, nelle chiacchiere che abbiamo fatto, istigati da gli altri ospiti che vorticavano due smartphone alla volta prima di prendere posto, rimpiangeva il fascino delle cabine telefoniche.

Trovandomi ovviamente d’accordo.

Perché questa cosa dei telefonini superluminosi e multifunzione, cambia davvero la nostra socialità. Ad esempio, al cinema, durante le proiezioni, sembra di veder continuamente fiorire i fuochi fatui di un cimitero, da una parte all’altra della sala. Per non parlare della morbosa necessità di documentare ogni istante dei live dei concerti, che guardiamo in streaming dagli schermi degli iphone, come fossimo sul divano in salotto.

La perplessità è trasversale a tutte le generazioni Pre Apple.

Un’amica, durante un aperitivo, non si capacitava di aver girato a Parigi, senza esserci mai stata, orientandosi solo con una cartina, quando ora, a Roma per l’ennesima volta, non faceva un passo senza guardare il navigatore sul telefono.

Un altro amico ricordava (non astrattamente) come le volte in cui si prendeva una sbronza anni fa, posti e avvenimenti restassero piacevolmente fumosi. Mentre ora, con tutti gli scatti e gli autoscatti col cellulare, si rendono indelebile e tracciabili le nostre malefatte.

Non so, in effetti, cosa pensare. Io sono sempre stato restio ad adeguarmi alle innovazioni tecnologiche. Per pigrizia, essenzialmente. Ma viaggiando parecchio ho scoperto l’utilità di uno smartphone e accettato il fatto che il mio snobismo non poteva più andare oltre. Lo spartiacque fu un viaggio a Novara, per scrivere un articolo, durante il quale mi maledivo per avere ancora il Nokia da 29 euro (la cui batteria non si scaricava MAI) e non potermi documentare sul fatto di cronaca in questione o sulla precisa collocazione di Novara (ammetto, non ero sicuro si trovasse in Piemonte o in Lombardia).

Se parli con chiunque sopra i 20 anni (più o meno chiunque, scartando i neofiti tecnofolli) il rimpianto è sempre nell’aria.

Una gentile signora calabrese con cui ho diviso un passaggio verso l’aeroporto di Fiumicino compulsava sull’iphone nevroticamente mentre chiacchierava con me, scusandosi continuamente per la maleducazione, senza smettere un attimo di chattare.

Al desk di Alitalia, una gentilissima ragazza siculo/giapponese, facendo due chiacchiere in attesa dell’imbarco, sosteneva che le cene avessero perso brillantezza di conversazione per l’aumento dei tempi morti dovuti al periodico controllo delle notifiche.

Si potrebbe continuare all’infinito, inseguendo un paradosso reazionario dopo l’altro, fino a spingersi alla nostalgia del dubbio, quando durante una conversazione (“di chi è quella canzone?”) si poteva litigare per ore sull’autore e impiegare giorni a sciogliere l’enigma.

Io so che tablet e smartphone sono il futuro e che noi nostalgici abbiamo torto.

Certo, ci saranno spinte e mode più meditative (come le oasi di silenzio in cui gli eccentrici vanno in vacanza pagando per fuggire dal nostro rumoroso presente) ma la linea è tracciata. Il futuro è là, nel mare di App e di innovazioni più o meno innovative che ci sospingono verso una connettività perenne, con schermi virtuali e scopate telematiche (come nel prossimo bruttissimo film di Terry Gillian, presentato al Festival del cinema di Venezia, vedremo fare al bravissimo Christoph Waltz) e la virtualità di sentimenti e relazioni suona negativa solo per noi reduci di un’epoca morta che non c’è più.

Lo so, sono reazionario, il mio destino è la sconfitta. Non in un remoto futuro, già oggi. Al ritorno da Novara (che è in Piemonte) ho ceduto a un surrogato di iPhone, che mia madre, splendidamente tecnologica, ha insistito per regalarmi, e sto pensando di comprarmi un tablet e smettere di picchiarmi coi brutti libri di carta e leggere, almeno quelli pessimi che si devono leggere per dovere, su e-reader.

Lo so, mi arrendo, sul ponte sventola bandiera bianca.

Sarò sempre online. Sempre interconnesso.

E, con quel poco di onestà intellettuale che possiedo, sono grato di questo presente.

Ma al contempo ringrazio di essere nato in una generazione di confine che ha scoperto gli iPhone senza essersene trovato uno in mano fin dalla culla. Ringrazio per gli album di foto, così diversi e materici rispetto alle “gallerie” di immagini. Ringrazio per i VHS e per i walkman. Ringrazio per l’immaginario novecentesco che mi tiene ancorato agli ultimi bagliori di un mondo analogico, ringrazio per aver ereditato una memoria di com’era vivere, almeno per piccole frazioni di tempo, non connessi.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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