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Nino Frassica: «La mia comicità leggera, anzi leggerissima»

Nino Frassica: «La mia comicità leggera, anzi leggerissima»

Le battute di un tempo e quelle di ora, l’infanzia da fancazzista, le bravate in compagnia, i tempi che cambiano. Uno degli attori più amati dagli italiani si racconta a Panorama senza maschere.


Nino Frassica è sulla scena da sempre, eppure non si fa che parlare di lui. Negli ultimi mesi ci sono stati un compleanno pesante (70 anni lo scorso dicembre), un libro dove racconta personaggi noti infarcendoli delle solite facezie (Vipp, Einaudi editore, uscito in gennaio) e il cinquantenario della sua attività artistica debitamente festeggiato. C’è chi c’ha (riprendendo un suo antico tormentone) la fortuna di essere amato incondizionatamente dal pubblico italiano, e lui è tra questi. Nei panni del carabiniere nella serie Don Matteo in onda dal 2000 è ormai di famiglia, e a Che tempo che fa ogni domenica ti prende per mano con la sua verve surreale e non lo sai mica dove ti porta. Dal 4 aprile Frassica è anche su Sky Cinema nel film Genitori VS Influencer, dove fa il benevolo vicino di casa, pensionato e saggio il giusto. Un uomo descritto come «sempre allegro».

È così anche nella vita o rientra nel cliché del comico triste?

Io rientro nel cliché nell’uno, nessuno e duecentomila. In certe giornate sono chiacchierone e in altre mi chiudo in me stesso, a volte qualsiasi cosa mi innervosisce, altre volte niente può turbarmi. Come tutti. Ma siccome sono un comico e so che da me ci si aspetta una certa simpatia, allora io quella simpatia nella vita la recito.

Per esempio?

Se mi trovo in una città per uno spettacolo e devo mangiare con sindaco e signora, non posso mettermi lì muto come magari avrei voglia. Allora fingo, mi faccio chiedere per la millesima volta di Arbore o di Terence Hill e ripeto sempre le stesse cose. La maschera la toglierò con gli amici.

Ci sarebbe una lunga tradizione di artisti dal caratteraccio a giustificarla.

Sono i momenti che fanno l’uomo, ma un uomo è fatto di tanti momenti. Allegri, tristi. Mi ricordo Gassman. Se lo vedevi quando era giù lo giudicavi in un modo, chi lo incontrava altrove lo riteneva un istrione divertentissimo. Quale dei due era il vero Gassman? Entrambi.

Ha 70 anni, è in pensione come il personaggio del film ma lavora ancora molto. Pensa mai a ritirarsi?

No, perché dovrei? So fare solo questo. E poi non mi sono neanche accorto di essere diventato così grande. Spesso l’età è negli occhi di chi guarda. Dentro di me ho trent’anni da sempre.

Ma a trent’anni era ancora un signor nessuno. Solo nel 1983 Renzo Arbore la volle nel film FF.SS. E Quelli della notte, dove indossava il saio di frate Antonino da Scasazza, è del 1985. Indietro tutta, dove faceva il «bravo presentatore», del 1987.

Aveva 37 anni: iniziava a pensare di non farcela più?

Non avevo questo problema. Ho fatto tanto dilettantismo in Sicilia e quando ho scoperto che riuscivo a mantenermi ero già felice. Il mio successo è stato non chiedere i soldi a casa. I miei, padre archivista del comune e mamma casalinga, non mi hanno mai fermato né spinto. Guardavano e dicevano «vediamo che combina».

E che combinava all’inizio?

Poco. Ero pigro, mi hanno bocciato due volte, stavo sempre al bar. In realtà la mia scuola era quella. In un bar di provincia c’è da studiare tutto il materiale umano necessario, tra juke box, biliardino e giocatori di carte. Chi è abituato a parlare in dialetto può storpiare l’italiano in modo spettacolare.

Altre prime ispirazioni?

Il cinema di Totò e Peppino, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi ma quando ero già grande. Stanlio e Ollio più che Charlot, troppo freddo. Ma i primissimi ricordi sono di me a cinque o sei anni, con mia mamma che mi dà 50 lire per andare in piazza a Galati Marina, il mio paese vicino Messina, a vedere gli spettacoli del genere Cu nesci parra, «chi esce parla». Artisti di strada che facevano piccole acrobazie e improvvisavano farse. Mi ricordo di aver visto Il ritorno della cavalleria rusticana. Giovanni Verga, librettista dell’opera originale, era morto trent’anni prima senza sapere che esistesse un sequel. Ogni giorno inventavano. Improvvisavano. E così è stato anche con Indietro tutta.

Trasmissione straordinaria.

Inventata quasi tutta lì per lì.

Cosa succedeva dopo, a telecamere spente?

Non andavamo spesso a far baldoria ma capitava che Arbore, il capo, proponesse di mangiare tutti insieme. Era una festa.

Il più scalmanato?

Giorgio Bracardi.

Aneddoti inediti?

Mi sta chiedendo un «nanetto»… (ovvero «aneddoto» nel linguaggio frassichese di quegli anni, ndr).

Proprio un «nanetto».

Una notte, in un ristorante con pianoforte Bracardi cominciò a comporre canzoni sconcissime sul proprietario, «gran frocion», e sulla moglie, definita con gli insulti goliardici più volgari che si possano immaginare. Non sapevamo se ridere o nasconderci. Un’altra volta in aereo io e Giorgio eravamo seduti accanto e sul sedile davanti al suo spuntava il capoccione di un altro passeggero. Bracardi si mise ad alitargli sulla nuca e il tizio sentendo fastidio si girava senza pace cercando di capire da dove venisse quell’aria calda. Siamo atterrati che ancora cercava di aggiustare le bocchette dell’areazione. Giorgio voleva farmi ridere, ma non potevo farci scoprire. Nel trattenermi mi vennero le lacrime agli occhi. Ogni tanto faceva anche un rumore con la bocca, un sibilo fortissimo, come se l’aereo avesse problemi. Anche Mario Marenco era così.

Che combinò?

Al ristorante cinese arrivò un cameriere che capiva l’italiano ma Mario si mise a parlare in una lingua inventata da lui. Dieci minuti a cercare di capirsi mentre noi, anche lì, non potevamo metterci a ridere per non rovinare lo scherzo e farci cacciare. Mario non distingueva il teatro, o la radio, dalla vita.

Però era uno spasso.

Una volta con Arbore dovevamo andare al quinto piano della Rai, dove ci sono tutti i capoccioni con il direttore generale, e Marenco si aggregò. Camminando in questi lunghi corridoi apriva le porte a caso, senza sapere chi ci fosse dentro, cacciava un urlo selvaggio e poi richiudeva subito. Renzo si arrabbiò tantissimo. Ma a lui era perdonato tutto. La sua scomparsa è stata molto dolorosa per me.

Per Indietro tutta la Rai vi doveva un grandissimo successo.

Non se l’aspettava nessuno, né la rete né noi. Io ne rimasi stordito. Arrivavano produttori a offrirmi i milioni. Era una parola che avevo sentito da lontano, e improvvisamente me la dicevano in faccia. Milioni – rimbombava – oni! Ero confuso. Avevo paura di fare le scelte sbagliate. Chi ha già i soldi sbaglia di meno. Per fortuna ho i piedi per terra da sempre.

Si può dire che la sua comicità è leggera? Anzi leggerissima?

Sì, ma per ottenerla c’è tanto sforzo. È leggera la prima cosa che viene in mente? No, è facile. E devi lavorarci ancora. Ma la parola lavoro in sé non rende, per me è passione. Più alta, più nobile.

Come si modula la propria comicità con i tempi che cambiano?

Non mi pongo il problema. Mi impegno per fare cose originali e senza tempo. Non ho voglia di scendere di livello, raccogliere risate sull’ovvio. Se volete chiamatelo snobismo ma a me piace il giovane che esercita il pensiero laterale. Oppure acchiappare l’adulto che sa tutto, ha visto tutto, eppure si meraviglia nuovamente con le mie parole.

Il comico sente una responsabilità in questi tempi bui?

Io sento un’impotenza. Aspetto i bollettini, vedo la disperazione, eppure devo inventare qualcosa per far ridere. E più di questo non posso fare. Alleggerire il dolore, un’iniezioncina momentanea di comicità.

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