Il 12 marzo avrebbe compiuto 100 anni. A quasi 20 anni dalla sua scomparsa, il presidente della Fiat continua a essere il magister elegantiarum. Dalla sua regale cortesia ai look da playboy, inutilmente imitati da tutti, ricordi di un uomo speciale che, nonostante ricchezze e mondanità, preferiva la minestrina al caviale.
La nostalgia non è più quella d’un tempo. Così Simone Signoret intitolò la sua autobiografia, la frase più poetica per descrivere questi tempi dove tutto scivola via veloce. Tutto tranne l’epopea dell’Avvocato.
A 100 anni dalla sua nascita, il 12 marzo 1921, Gianni Agnelli resta un mito intramontabile. L’uomo più elegante del mondo, il cui stile fu inutilmente copiato da schiere di parvenu e radical chic (sui comuni mortali l’orologio sul polsino faceva più macellaio che grande imprenditore). Ogni uomo al mondo avrebbe voluto essere come lui, disse la stilista Diane von Fürstenberg: le button-down portate sbottonate, la cravatta dal nodo storto, il gilet di lana sotto l’abito di sartoria, le camicie di jeans con le maniche arrotolate da dragueur, come l’amico playboy brasiliano Baby Pignatari.
«Ognuno è playboy. Tutti ci provano, alcuni ci riescono, altri no» disse con il celebre sarcasmo. E lui, il Faraone, in quei ruggenti anni Cinquanta faceva il bello e il brutto tempo nella villa Leopolda in Côte d’Azur e poi a Capri, Sankt Moritz, Parigi, Palm Beach.
Irrequieto: «Viene, passa e va», dicevano gli amici. Si narra di un safari visto solo dalla pista di atterraggio africana. Arrivato, fece tornare subito indietro anche gli ospiti. Velocemente si annoiava a morte. Donne tante, ma il suo motto restava: «Solo le cameriere s’innamorano». Eppure a quasi 20 anni dalla morte, il 24 gennaio 2003, nessuno è stato in grado di prendere il suo posto. «Con lui è finito un ciclo» scrivono i giornalisti economici Alberto e Giancarlo Mazzuca nel saggio Gianni Agnelli in bianco e nero (Baldini+Castoldi).
«Era assai invidiato: per i soldi, le molte donne, le grandi frequentazioni internazionali da Jacqueline Kennedy a Henry Kissinger. È stato l’unico re senza corona che abbiamo avuto. Gli altri imprenditori cercarono disperatamente di imitarlo: da Carlo De Benedetti a Raul Gardini. Nessuno ce l’ha fatta», raccontano.
Soprattutto per un tratto che lo contraddistingueva: la grande cortesia verso chiunque incontrasse. Il suo approccio era sempre di apertura. Non aveva la faccia da sfinge tipica dei torinesi, l’Avvocato non si negava a nessuno. Spesso non sapeva chi si trovasse di fronte e forse francamente se ne infischiava, ma riusciva a essere estremamente interessato a tutti. Un tratto regale.
A Torino finché ci fu lui, esisteva «la corte» e per chi stava a corte poteva accadere di essere invitato a Villa Frescot. Toccò anche a Enzo Biagi: «Niente aragosta o caviale, pasta asciutta o brodino, ricotta o prosciutto, mezzo bicchiere di vino». Certo, non ingrassava gli ospiti, ma amava mangiare cose buone, in quantità modica e soprattutto non gli piaceva stare a lungo a tavola.
Veniva da un’austera e sobria educazione sabauda: il maglione usurato non era un vezzo, ma il retaggio antico di abiti portati anche se elegantemente lisi. Le polacchine servivano a mascherare la gamba sofferente dopo l’incidente in una notte balorda in Costa Azzurra. E anche la genialata dell’orologio sul polsino nasceva dall’idea parsimoniosa di non consumare le camicie.
A giugno gli intimi venivano invitati a Villar Perosa, la casa di famiglia. Nell’affascinante giardino curato da Donna Marella e dall’architetto Paolo Pejrone, si poteva trovare la vecchia nobiltà sabauda, un tempo suoi compagni sotto le armi. Ci teneva alle tradizioni e alle radici: «Da qualunque parte del mondo ritorni, mi faccio sempre portare a Villar Perosa. Anche solo per un paio d’ore» diceva.
Possedeva la capacità di essere onnipresente anche quando preferiva restare defilato, scrivono i Mazzuca: «Un grande ambasciatore dell’Italia, il primo a fare capire all’estero che non eravamo una Repubblica delle banane. Abilissimo a mediare, aveva l’arte di sapersi servire degli uomini», concludono. Sfiniva l’interlocutore di domande, era terribilmente curioso, all’alba chiamava direttori di giornali e amici. Voleva sapere tutto. Carismatico, profondamente internazionale, era un uomo rinascimentale. Amava l’arte e possedeva opere importanti, come se la bellezza in qualche modo calmasse la sua inquietudine.
Dagli Agnelli potevi incontrare il Duca di Devonshire, leggendario collezionista. Nell’appartamento di fronte al Quirinale aveva uno straordinario Balthus. A New York, nella casa di Park Avenue, Matisse, Picasso e Turner. E poi c’era la Juventus, la passione di una vita. La domenica si sentiva l’elicottero che lo portava allo stadio, con l’iconico piumotto e gli occhiali da sole over. È ancora virale l’intervista di Franco Costa, il giornalista Rai che lo inseguiva fuori dallo stadio: «Noi non ci lamentiamo mai dei rigori, non è nelle nostre abitudini, sono cose da provinciali». Non sopportava i provinciali, né le «mezze calzette»: «Andavo a Capri quando le contesse facevano le puttane, ora che le puttane fanno le contesse non mi diverte più».
Avvocato di panna montata, lo definì Eugenio Scalfari, ma una certa apparente fatuità faceva parte della leggerezza con cui attraversava la vita consapevole dalla sua educazione militaresca che anche davanti al dolore bisognava ostentare disinvoltura. I torinesi lo videro piangere una volta sola: per il figlio Edoardo. «In fondo per quest’uomo dagli occhi di marmo e dal largo e mansueto sorriso di rettile il mondo va frequentato con cinismo, ma senza cattiveria e brutalità» scrisse Cesare Garboli. Sotto il doppiopetto nascondeva un tratto romantico. E verso chi gli piaceva aveva un piccolo vezzo: mettere la mano sulla spalla in segno di approvazione. Come avrebbe fatto un re.